Voci da Gaza: «Tornerò a casa, monterò una tenda tra le macerie»

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Di seguito la traduzione del reportage pubblicato sulla rivista israeliano-palestinese 972mag

È uno schema che i gazawi conoscono dolorosamente: mentre all’inizio di questa settimana iniziavano a circolare notizie di un imminente accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas, l’esercito israeliano ha scatenato l’inferno sulla Striscia assediata, uccidendo almeno 62 palestinesi nelle ultime 24 ore.

Tra le ultime vittime c’è l’attivista e animatore per bambini Ahmed Al-Shawa, 25 anni, ucciso insieme ad alcuni colleghi in un attacco aereo sul quartiere Al-Daraj di Gaza City. Al-Shawa era conosciuto tra i palestinesi della Striscia come «l’ambasciatore del sorriso» per il suo senso dell’umorismo, l’energia, la gentilezza e la passione per il suo lavoro: portare gioia ai bambini di Gaza nonostante le dure condizioni del genocidio in corso.

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Rajab Al-Rifi, un vicino e collega di Al-Shawa, non riesce a capacitarsi della perdita dell’amico. Solo due giorni prima, il 12 gennaio, avevano organizzato insieme uno spettacolo di intrattenimento per decine di bambini sfollati. Avevano discusso della speranza che il cessate il fuoco avrebbe permesso loro di espandere il loro lavoro e pianificato attività aggiuntive per aiutare i bambini a superare il trauma, tra cui laboratori sulla salute mentale.

Al-Rifi racconta che Al-Shawa era amato da tutti coloro che lo circondavano per la sua generosità. «A volte metteva in scena tre o quattro spettacoli in un giorno per centinaia di bambini – dice Al-Rifi a +972 – Ogni mercoledì, dall’inizio del genocidio, faceva uno spettacolo da solo nel parco municipale di Gaza City, dove decine di persone hanno cercato rifugio. Il suo obiettivo era quello di far sorridere i bambini, nonostante il trauma subito».

Al-Shawa è stato ucciso mentre stava raggiungendo i compagni per un evento in una tendopoli di fortuna nel centro di Gaza City. La sua morte ha lasciato un profondo senso di dolore tra la popolazione, soprattutto tra chi lo conosceva. «Era una fonte di forza e di speranza per i suoi colleghi, amici e figli – dice Al-Rifi – Cosa ha fatto per meritare di essere ucciso in questo modo?».

Nonostante il precedente ottimismo di Al-Rifi su un imminente cessate il fuoco, ora teme per la propria sicurezza e ha cancellato le attività programmate a causa dell’intensificarsi degli attacchi israeliani. «Chiunque a Gaza potrebbe essere un bersaglio. Temo di poter essere il prossimo».

Sogno il momento in cui incontrerò nuovamente i miei figli

Nonostante gli incessanti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, molti palestinesi rimangono cautamente ottimisti sul fatto che stavolta il cessate il fuoco potrebbe reggere. In alcune tendopoli, i residenti sfollati stavano già festeggiando nella convinzione di poter presto tornare a casa – anche se le loro case giacciono in rovina – e riunirsi con i membri della famiglia da cui sono stati separati.

Laila Al-Masri, 55 anni, fuggita due mesi fa dall’assalto dell’esercito israeliano alla città settentrionale di Beit Lahiya, ora risiede in una tenda di fortuna nello stadio Al-Yarmouk di Gaza City. Spera disperatamente di poter tornare a casa sua e poter finalmente seppellire due dei suoi tre figli, uccisi in un attacco aereo israeliano nel novembre 2024 e i cui corpi rimangono intrappolati sotto le macerie della loro casa. L’altro figlio e la figlia sono sfollati nella parte meridionale della Striscia.

«Ho perso due figli e prego Dio giorno e notte perché questo cessate il fuoco abbia successo prima di perdere altri cari – racconta la donna a +972 – Posso accettare di vivere in una tenda sulle rovine della mia casa, purché non corriamo più il rischio di essere uccisi da un momento all’altro».

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Nonostante le perdite inimmaginabili, Al-Masri rimane cautamente fiduciosa per il futuro: «Credo che nei prossimi giorni potremo tornare nelle nostre case, avere accesso a cibo e acqua pulita e vedere i nostri figli indossare abiti caldi e tornare a studiare. Nessuno può capire veramente il dolore che stiamo sopportando: la paura, la fame, le notti insonni al freddo. Un cessate il fuoco ci darebbe la possibilità di ricostruire le nostre vite e ricominciare».

Potremo tornare nelle nostre case, avere accesso a cibo e acqua pulita e vedere i nostri figli indossare abiti caldi e tornare a studiareLaila Al-Masri

Questo senso di ottimismo è condiviso da Salem Habib, 45enne del campo profughi di Jabaliya che sta lottando con le gravi difficoltà del suo trasferimento nella cosiddetta “zona umanitaria” di Al-Mawasi, vicino a Khan Younis, nel sud di Gaza. «Sono molto ottimista sul successo della tregua. Non ho dormito pensando a quel momento».

Da oltre un anno, Habib è separato dai suoi tre figli e dagli altri parenti rimasti nel nord della Striscia quando è stato evacuato a sud con la moglie e le figlie all’inizio della guerra. «Mio figlio maggiore Ahmed è stato ferito ed è in condizioni difficili – racconta Habib – Gli parlavo ogni giorno, dicendogli: Devi essere forte e sopportare il dolore, così potremo incontrarci di nuovo».

Il pensiero di perdere i suoi figli ha consumato Habib. «Questa era la mia grande paura: perdere uno di loro e tornare al nord solo per non vederli vivi. Per questo motivo attendo l’annuncio del cessate il fuoco con grande pazienza. Sogno il momento in cui incontrerò i miei figli e i miei nipoti di nuovo».

La vita nel campo di sfollamento, lontano dal quartiere e dalla comunità di Habib, è stata estremamente difficile e lui desidera ardentemente tornare a casa. «Se la troverò in rovina, monterò comunque una tenda e vivrò lì”, dice aggiungendo che ha già iniziato a sistemare le sue cose per prepararsi: «Stiamo tutti aspettando il momento in cui potremo riposare da questo incubo continuo di bombardamenti, uccisioni e fame».

Cosa resterà delle nostre vite?

Non tutti sono così ottimisti sul futuro. Momen Ashraf, 35 anni, che ha chiesto di usare uno pseudonimo per motivi di sicurezza, è scettico sulle notizie di un accordo: «Ogni volta che si parla di un cessate il fuoco, la situazione peggiora. È come se le forze israeliane non volessero che qualcuno rimanga vivo a Gaza».

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Ashraf gestiva un negozio di accessori accanto alla sua casa in Tal Al-Hawa Street, nella parte occidentale di Gaza City, ma lui e la sua famiglia sono stati costretti ad abbandonare entrambi sotto gli intensi bombardamenti dei primi giorni di guerra. Alla fine di ottobre 2023, poco dopo l’evacuazione, la loro casa è stata bombardata.

Sono stati sfollati altre quattro volte in vari rifugi temporanei e ora vivono nella casa di un parente in Al-Sahaba Street, a Gaza City. Attualmente Ashraf gestisce una bancarella di cibo in scatola per mantenere la sua famiglia.

«La nostra vita prima della guerra non era perfetta per l’assedio e la cattiva situazione economica di Gaza, ma era un sogno rispetto a quello che abbiamo passato nell’ultimo anno – dice Ashraf – Tredici dei miei parenti sono stati uccisi e mio figlio di 6 anni è stato ferito due settimane fa. La mia casa e i miei mezzi di sostentamento sono stati distrutti – per cosa?».

Ashraf ritiene che Hamas sia in parte responsabile di aver dato a Israele una scusa per lanciare la sua guerra genocida su Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre, con palestinesi innocenti costretti a pagarne il prezzo: «Israele ci uccide dal 1948, ma l’attacco a sorpresa del 7 ottobre ha dato loro un motivo per uccidere di più».

Se sopravviverò, farò tutto il possibile per lasciare Gaza e ricominciare da capo. Non credo che a nessuno importi di noi, nemmeno alle fazioni palestinesiMomen Ashraf

«Le forze israeliane hanno ucciso i nostri cari e distrutto le nostre case, le nostre scuole, le nostre strade, i nostri beni e i nostri bei ricordi – continua Ashraf – La maggior parte della gente di Gaza vuole vivere una vita normale, in pace, siamo stanchi di perdite, umiliazioni, fame e sfollamento. Quante vite devono essere prese prima che tutto questo finisca?».

Per Ashraf, come per molti altri a Gaza, l’annuncio di un cessate il fuoco offre poche speranze per la guarigione e la ricostruzione della Striscia. «Anche se il cessate il fuoco è reale, avremo bisogno di anni per riprenderci da ciò che abbiamo subito – dice – E anche allora, cosa resterà delle nostre vite? Se sopravviverò a tutto questo, farò tutto il possibile per lasciare Gaza e ricominciare da capo. Non credo che a nessuno importi di noi, nemmeno alle fazioni palestinesi».

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So che la mia casa è gravemente danneggiata. Posso farcela

Saeed Al-Akhras, un insegnante di arabo di 32 anni di Gaza City, sfollato ad Al-Mawasi, non vede l’ora che il cessate il fuoco regga per poter tornare a insegnare e riunirsi ai suoi studenti. «Tornerò a nord il primo giorno del cessate il fuoco – dice a +972 – Tornerò nel mio quartiere e monterò una tenda per insegnare agli studenti. Mi mancano i miei studenti, voglio che il loro rumore ritorni nella mia vita».

«Non ho dormito da quando abbiamo iniziato a ricevere le notizie sull’accordo – continua – Sono stato costretto a fuggire dal nord per la sicurezza dei miei tre figli e sento che il nostro ritorno è molto vicino. Spero che l’accordo vada a buon fine. Siamo stanchi e abbiamo bisogno che la guerra finisca per poter tornare al nord».

Mentre molti sfollati aspettano di tornare nelle loro città e quartieri nel nord di Gaza, Narmin Kassab, 29 anni, desidera ardentemente che il cessate il fuoco abbia inizio per poter tornare nella città meridionale di Rafah, anche se sa che potrebbe volerci del tempo. Kassab è dovuta fuggire da Rafah a maggio, quando l’esercito israeliano ha invaso la città e distrutto il suo quartiere di Tel As-Sultan, costringendola a rifugiarsi in un campo di sfollati a Deir Al-Balah.

«Sappiamo che quando la guerra finirà le nostre case non ci verranno restituite, ma almeno non sentiremo più il rumore dei bombardamenti e le notizie di altre vittime – dice – Non andrò subito a Rafah; resteremo nel campo perché Tel As-Sultan è stata completamente distrutta. Non ci sono più infrastrutture, e soprattutto non c’è acqua».

Sarò costretta a venire spesso a sud per visitare la tomba di mio figlio. Non lo lascerò qui da soloJawaher Obaid

Jawaher Obaid, che attualmente risiede in una tenda ad Al-Mawasi, sta aspettando di tornare nella sua casa nel quartiere di Sheikh Radwan, a Gaza City, e di riunirsi alle sue figlie che sono rimaste lì quando è fuggita con suo figlio Walid. Ma Walid non sarà con lei: è stato ucciso in un attacco aereo israeliano lo scorso febbraio. «Non so come farò a incontrare le mie figlie senza avere con me il loro fratello Walid – racconta a +972 – Sarò costretta a venire spesso a sud per visitare la tomba di mio figlio. Non lo lascerò qui da solo».

E quando tornerà a nord, non ha intenzione di portare con sé nulla della tendopoli: «La tenda e tutto ciò che contiene mi ricordano i giorni peggiori della mia vita. Mi mancano molto le mie figlie e mi manca la mia casa. So che è stata gravemente danneggiata, ma è ancora in piedi; posso arrangiarmi e vivere lì».

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