Addio al fact-checking: Zuckerberg non è un Re

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La notizia è da giorni ovunque: Mark Zuckerberg, CEO di Meta e fondatore di Facebook, ha detto stop al fact-checking sulla galassia dei suoi social network[1].

L’annuncio è avvenuto con un video postato sul suo account[2] ed è stato seguito da un intervista fiume rilasciata a Joe Rogan[3] in cui Zuckerberg, oltre a ribadire la volontà di difendere la libertà di espressione, si è scagliato nettamente contro la legislazione europea e ha ammesso di aver operato una censura selettiva sulle sue piattaforme per far seguito alle pressioni dell’amministrazione Biden[4].

C’è chi esulta per la riconquistata libertà di espressione e chi si straccia le vesti per la mancanza di un controllo delle fonti: ma è davvero questo il fulcro della questione?

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Il cambio politica di Meta, giustamente interpretato da alcuni come un segnale di riallineamento politico in vista di un eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca, ha rivelato un sorprendente livello di superficialità nel dibattito pubblico – con giornalisti e intellettuali da salotto che nell’era del dominio dei like sembra abbiano rinunciato a qualsiasi tipo di seria analisi critica.

Molti si sono limitati a reazioni prevedibili e stereotipate, spesso ideologizzate, che estrapolano le parole di Zuckerberg dal loro contesto.

Un esempio emblematico – che mi ha spinto a scrivere questo articolo – è stato offerto da una diretta Instagram sul profilo di una nota casa editrice, molto seguita sui social e sempre presente ai festival letterari, saloni del libro e trasmissioni culturali. La tesi sostenuta è la seguente: la mossa di Zuckerberg proverebbe il potere assoluto delle grandi aziende digitali, con gli utenti ridotti allo stato di “servi della gleba” (cit.) in un sistema dominato unicamente dalla logica del profitto, dove la politica è costretta a sottomettersi alle decisioni di CEO, magnati e imprenditori.

Nulla di così nuovo o originale, anzi, si tratta di una tesi facilmente fruibile (e anche un po’ datata e forse banale), che si rivela di un’ingenuità e parzialità disarmanti se si analizza il contesto attuale.

La visione di Zuckerberg come simbolo del potere incontrastato delle big tech trascura un elemento fondamentale: il potere delle multinazionali non è affatto illimitato.

Da questa vicenda c’è un grande insegnamento da cogliere, qualcosa che in epoca recente è diventato sempre più palese: le grandi aziende, specialmente se strategiche e ancor più se tecnologiche – come i social network dove ci informiamo e intratteniamo – agiscono secondo i limiti e le volontà imposte dal potere politico dello Stato in cui operano o in cui hanno sede operativa (e dove mantengono il grosso dei loro asset fisici) rendendo labile il confine che separa il pubblico dal privato.

Gli interessi della nazione guidano e controllano, ampliano o restringono lo spazio di manovra, anche tramite persone degli apparati inserite nei board, concessioni di appalti strategici, finanziamenti per la ricerca o indagini giudiziali.

Credere che “il privato” sia magicamente libero di fare e privo di vincoli, che le decisioni siano guidate solo da logiche di mercato è oggi di un’ingenuità disarmante, soprattutto se si pensa che il libro di Shoshana Zuboff, “Il Capitalismo della Soverglianza”, già esponeva al suo interno gli stretti legami fra le aziende tecnologiche e le agenzie governative degli Stati Uniti (specialmente la CIA e l’NSA)[5], e parliamo di un testo uscito nel 2019, ben 6 anni fa.

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La scelta di Zuckerberg di abbandonare il fact-checking, insieme alle sue critiche a UE e amministrazione Biden, non rappresentano una dimostrazione di forza, quanto di dipendenza. Quando cambia la narrativa dominante – come accadrà con Trump alla Casa Bianca – queste aziende non hanno altra scelta se non quella di adattarsi per sopravvivere.

In questo senso, la decisione di Zuckerberg non è la mossa di un Re che inaugura un nuovo corso, ma quella di un Alfiere che annuncia il cambiamento del vento.

Le Big Tech come strumenti del potere

L’idea che i CEO e i fondatori delle big tech siano i “nuovi sovrani” di un sistema neo-feudale può sembrare affascinante, ma semplifica eccessivamente la realtà. Il loro potere, per quanto enorme, è subordinato al consenso politico dello stato in cui operano e da cui dipendono. Quando questo consenso viene meno, anche i magnati più influenti devono riallinearsi.

Un ulteriore esempio di questa commistione tra potere pubblico e privato è rappresentato dalle pressioni esercitate dal governo statunitense su ByteDance, il gruppo cinese proprietario di TikTok, affinché ceda le attività statunitensi della piattaforma. L’obiettivo dell’amministrazione USA è riportare queste attività sotto il controllo americano attraverso la vendita a un imprenditore o a un gruppo nazionale. Non a caso, il nome che circola con insistenza è quello di Elon Musk[6].

Solo da noi, nella remota periferia dell’Impero, dove il potere statale è debole o ha scarsa autonomia decisionale (in Italia come in altri stati europei), queste multinazionali (come i colossi della finanza, dell’industria, dell’informazione e dell’intrattenimento) possono sembrare i veri manovratori. Una retorica che fa probabilmente comodo a chi, come le grandi potenze, può usare queste aziende come Alfieri e “quinte colonne” sulla scacchiera internazionale.

Se vogliamo comprendere davvero il potere delle multinazionali tecnologiche, dobbiamo guardare oltre le semplificazioni e analizzare come queste siano diventati strumenti tramite cui le grandi potenze possono controllare dati di individui e enti, plasmare il consenso anche in stati esteri (che dovrebbero essere sovrani) e guidare la ricerca e gli investimenti. Solo vedendoli sotto questa lente possiamo inquadrare a dovere le sfide – anche culturali – che ci riserva la nostra epoca: perché oltreoceano come in Oriente gli interessi nazionali son tornati a farla da padrone e probabilmente in Europa ancora dobbiamo capirlo.

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[1] Meta Platforms è il nome dell’impresa statunitense, con sede in California, che gestisce fra gli altri i prodotti Instagram, Facebook, Threads, WhatsApp e Messenger.

[2] Il video è consultabile su Instagram, al link: https://www.instagram.com/reel/DEhf2uTJUs0/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA%3D%3D

[3] L’intervista completa (#2255) è a disposizione in lingua inglese (con la possibilità di sottotitolarla in italiano) su YouTube, al link: https://www.youtube.com/watch?v=7k1ehaE0bdU&ab_channel=PowerfulJRE

[4] In particolare su tematiche politiche o ai vaccini Covid.

[5] Ci si riferisce in particolare a quanto contenuto nel capitolo quattro (“Il fossato attorno al castello”) del libro di Shoshana Zuboff “Il Capitalismo della Sorveglianza” (LUISS Press, 2019)

[6] Per i recenti sviluppi del caso si può far riferimento all’articolo di SkyTG24 del 14 Gennaio, consultabile al link: https://tg24.sky.it/mondo/2025/01/14/tik-tok-usa-cina-valuta-vendita-musk

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