Adista News – Israele: fede, religione e politica

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Adista Segni Nuovi
n° 3 del 25/01/2025

Quanto sto per scrivere, nelle mie intenzioni, è solo un gesto di amore e stima per il grande popolo ebraico che riconosco composto di fratelli e padri nella fede.

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Dopo un recente colloquio pubblico avuto con un rabbino ed un Imam su “Fede e Pace”, dopo avere sentito dalle parole di un rabbino quale è il cuore, l’essenza della religiosità ebraica, mi chiedo con molto dispiacere se non si stia perpetrando oggi il più grave degli oltraggi, l’annullamento della missione ebraica nel mondo, cioè la radice stessa della sua elezione. E questo, per mano di ebrei.

Il senso della fede ebraica, ritengo lo si debba trovare nella vocazione di Abramo e nella conseguente alleanza abramitica. Un Elohìm si presenta al Patriarca come entità essenzialmente salvifica viene in soccorso di due disperate creature che hanno tutto eccetto un futuro; sono senza figli e senza terra. Ad una condizione però, che Abramo lasci la sua terra, la sua casa, la mentalità del mondo in cui vive, le sue pratiche politeiste, per diventare alleato dell’Altissimo che vuole «benedire in lui», dare un futuro di gioia e pace a tutte le nazioni della terra.

Questa è la fede di Israele, la sua più profonda identità. Non ha altro compito il nascente popolo ebraico. Gli ebrei esistono per indicare che si può vivere, ed è beatificante, nella giustizia, nella concordia e nella pace, davanti al Mistero dell’Altissimo.

Il Cielo rischiò molto con quel patto di alleanza. Era proprio sicuro Dio che oltre Abramo anche i suoi discendenti sarebbero stati fedeli al “patto”? Era sicuro che “l’elezione” non sarebbe mai stata scambiata per “privilegio” esclusivo”? Chi poteva assicurare che la religione di domani e la politica che si sarebbe dato il futuro popolo ebraico non avrebbe mai contraddetto la sua fede nel Dio Unico, creatore di Tutto e di Tutti?

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Oggi quegli interrogativi hanno una tragica risposta, la peggiore. Con una qualche esasperazione, si può forse dire che “missione”, compito del popolo ebraico, sia diventato sopravvivere, difendersi, assicurare sicurezza, evitare il suo sterminio, sottomettere per non essere sottomessi, uccidere per non essere uccisi. Hitler inventò la “soluzione finale” dell’eterno problema ebraico, e fu la Shoàh con 6 milioni di assassinati. Questa enorme sciagura, unica nel suo genere, purtroppo pare il salvacondotto per cambiare rotta e visione della vita. Impressione che quanto gli ebrei subirono sia oggi il modello di ciò che il loro governo fa subire. Quasi che i capi di oggi, seguendo le orme di quelli che si sono succeduti dal 1978 in poi (eccettuato Ytzhak Rabin), in ogni offesa subita hanno trovato il motivo giustificativo di rappresaglie, vendette, violenze sui palestinesi.

L’attuale primo ministro vuole una “soluzione finale” della tragedia provocata dall’insediamento ebraico in terra palestinese il 14 maggio 1948. Cioè vuole la scomparsa, la morte di ogni palestinese a cui non riconosce – per legge costituzionale – uguali diritti di cittadinanza. Israele sarebbe uno Stato di ebrei e solo per ebrei. Nella guerra di oggi, quella scatenata dopo l’eccidio di innocenti ad opera di Hamas il 7 ottobre del 2023, non si starebbe conquistando niente ma solo riconquistando, ci si sta riappropriando di ciò che è stato sempre ebraico, esattamente “La Terra del Signore promessa ad Abramo ed ai suoi discendenti”. È proprio così?

Non ci è dato sapere se Netanyahu, sia credente o no, ma sconvolge il fatto che lui si richiami alla “promessa di Dio”, dunque a un dato religioso, per giustificare la sua politica e la sua occupazione militare. Avrebbe ucciso 50 mila creature umane, avrebbe mitragliato innocenti in cerca di cibo, avrebbe bombardato ospedali e scuole, avrebbe provocato due milioni di sloggiati, sempre in nome e per conto di Dio. Jeffrey D. Sachs – funzionario ONU al Pentagono, gli avrebbe sentito dire: «Attaccheremo e distruggeremo i governi di sette Paesi, cioè di Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, Iran». Pare di essere al delirio di onnipotenza. Come si fa ad appellarsi alla tradizione religiosa, elevando a supremo criterio non solo la forza come fondamento di ogni diritto, ma la sicurezza di un solo popolo quasi che solo esso avesse dignità e diritti inalienabili avallati dall’Altissimo? Come si fa a non accorgersi che così si sta seminando antisemitismo e odio, e si sta abiurando alla fede ebraica che al suo centro è annunzio di salvezza a tutti i popoli?

Ritorna angosciante in noi l’antica domanda: può succedere che in nome della religione si possa perdere quella fede che la religione dovrebbe esprimere? Si può accogliere come autentica parola di Dio una delle tante tradizioni presenti nella Bibbia dimenticando che esiste anche la linea profetica dove tutti siamo chiamati non a divorarci a vicenda ma alla pacificazione delle differenze? Sento Isaia che fa pascolare insieme i vecchi nemici, lupo e agnello, orso e giovenca, che vuole trasformare ogni lancia in una falce per la mietitura del grano. Sento ancora la voce pacata e rassicurante del rabbino che nella sala del municipio di Messina, proclamava: ebraismo nella sua più vera identità, è in poche parole: annuncio di priorità di relazioni umane con tutti gli umani, in un atteggiamento di amore che conduce allo Shalòm.

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Dov’è tutto questo? Mi si dica pure che la fede è più un abbracciare l’indicazione di una meta, che un traguardo raggiunto per sempre. L’uomo cambia, la sua evoluzione morale dovrebbe tendere a farci diventare ciò che si è. L’uomo può avere ristagni etici e cadute nell’orrido. Ma quando si pratica una religione che nega e sovverte il dato fondante della sua fede, io credo che abbiamo il diritto di allarmarci. Si sta sacralizzando un vitello d’oro (quello che trovò Mose al suo ritorno dal Sinai), si sta dicendo che solo questo libera un popolo, la forza bruta e il denaro. Da questa pessima notizia tutti usciremmo più poveri e più disperati. Chi se ne assume la responsabilità? 

Felice Scalia è gesuita a Messina.

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