così il cambiamento climatico influenza una fondamentale corrente oceanica 

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Eventi meteorologici estremi come siccità e alluvioni, in aumento in Italia come nel resto del mondo, sono forse il segnale più evidente del cambiamento climatico. Tuttavia, la crisi in corso ha anche altre gravi conseguenze, come il mutamento nella circolazione dell’acqua degli oceani, in particolare nel Nord Atlantico.

Questa regione è al centro di delicate dinamiche geopolitiche: ad esempio la possibilità che lo scioglimento dei ghiacci marini apra nuove rotte commerciali, e l’accesso a metalli rari necessari per il settore tecnologico e la transizione energetica.

Ma questo è anche il luogo dove gli scienziati hanno scoperto il rallentamento di una corrente oceanica chiamata Amoc (capovolgimento meridionale della circolazione atlantica).

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In questa intervista, il fisico e oceanografo Stefan Rahmstorf, co-responsabile del dipartimento di Ricerca sull’analisi del sistema Terra del Potsdam institute for climate impact research (Pik) e professore di Fisica degli oceani all’Università di Potsdam, spiega che cosa sta succedendo, perché ha rivalutato il rischio che la corrente si arresti del tutto, e quali potrebbero essere le conseguenze. 

Professor Rahmstorf, che cos’è l’Amoc e come sappiamo che sta cambiando?
SR Si tratta di un flusso di acqua calda in superficie che va dal Sudafrica attraverso il Golfo del Messico fino al mare di Norvegia. Nell’Atlantico settentrionale l’acqua cede calore all’atmosfera e diventa abbastanza fredda e densa da sprofondare fino a 2.000-3.000 metri, per poi iniziare il suo viaggio in direzione opposta. La quantità di calore che trasporta è enorme, pari a 50 volte il consumo energetico totale dell’umanità, e rende il clima del Nord Europa molto mite per la sua latitudine. Da oltre mezzo secolo, questa circolazione si sta indebolendo. Le misurazioni dirette sono iniziate solo nel 2004, ma abbiamo prove indirette che ci permettono di andare molto più indietro nel tempo. La più importante è il fatto che dal XIX secolo l’Atlantico settentrionale è stata l’unica regione a raffreddarsi mentre il resto del mondo si riscaldava a causa delle nostre emissioni di gas serra. Inoltre, il contenuto salino dell’acqua a Sud dell’Islanda -la stessa regione in cui i dati satellitari mostrano una chiazza fredda nell’oceano- è al minimo da quando sono iniziate le misurazioni 120 anni fa. Entrambi sono sintomi di un rallentamento dell’Amoc. 

Lo schema semplificato dell’Amoc sullo sfondo dell’andamento della temperatura superficiale del mare dal 1993, ricavato dal Copernicus Climate Change Service (https://climate.copernicus.eu/). © Ruijian Gou

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Lo schema semplificato dell’Amoc sullo sfondo dell’andamento della temperatura superficiale del mare dal 1993, ricavato dal Copernicus Climate Change Service (https://climate.copernicus.eu/) © Ruijian Go

Qual è la causa?
SR In linea di principio, sia il riscaldamento sia la diluizione dell’acqua possono rallentare l’Amoc, ma sappiamo che non c’è riscaldamento perché la superficie dell’oceano si è raffreddata. Quindi, la causa deve essere la diluizione, cioè l’aggiunta di acqua dolce. Questo accade non solo perché i ghiacci marini e la calotta glaciale della Groenlandia si stanno sciogliendo, ma anche per via dell’aumento delle precipitazioni, risultato dell’aria più calda che trasporta più umidità. L’acqua meno salata ha una densità inferiore, quindi sprofonda con più difficoltà, e questo rallenta il motore principale della circolazione. 

È già successo qualcosa di simile in passato?
SR Sì, durante l’ultima era glaciale si sono verificati circa venti grandi e bruschi cambiamenti nell’Amoc. Si tratta probabilmente dei mutamenti più rapidi e drastici che si conoscano nella documentazione paleoclimatica e di una caratteristica unica del Nord Atlantico. In questi eventi, i campioni di ghiaccio della Groenlandia mostrano salti di temperatura di 10-15 gradi nell’arco di un paio di decenni, e diminuzioni più lente ma altrettanto impressionanti. Temiamo che un’instabilità simile possa ripetersi a causa del moderno cambiamento climatico causato dall’umanità. Non solo: si sospetta anche che i modelli climatici sottostimino l’instabilità dell’Amoc. Essa si basa su un sottile equilibrio nella densità dell’acqua, che a sua volta dipende dalla temperatura e dalla salinità in modo complicato e non lineare. Per simulare questo aspetto in un modello, è necessaria una corretta distribuzione della temperatura e della salinità nell’intero Atlantico. Il contenuto salino risulta dalle precipitazioni meno l’evaporazione, e la modellazione delle precipitazioni ha una grande incertezza. È molto più difficile da modellare rispetto ad altri aspetti del cambiamento climatico, come le temperature medie globali. 

Quali possono essere le conseguenze?
SR Dobbiamo distinguere tra rallentamento e arresto dell’Amoc. Un rallentamento c’è già: causa la chiazza di freddo nell’Atlantico settentrionale, ma non sta raffreddando alcuna regione terrestre. Anzi, i sistemi di bassa pressione atmosferica sopra alla chiazza di freddo durano a lungo: questo si accompagna alle ondate di calore in Europa, che qui aumentano molto più rapidamente che altrove e già ora causano decine di migliaia di morti l’anno. Se l’Amoc si arresta del tutto, la chiazza fredda aumenterà in estensione e profondità, coprendo l’intera Europa Nord-occidentale. In particolare, Islanda, Gran Bretagna e Scandinavia diventeranno molto più fredde. Allo stesso tempo, l’Europa meridionale sarebbe sempre più calda e secca di adesso, ma sperimenterà eventi meteorologici più estremi, senza precedenti, a causa del grande contrasto di temperature tra le due regioni. Fuori dell’Europa, sappiamo dalla paleoclimatologia e dai modelli che la fascia delle precipitazioni tropicali si sposterà verso Sud, perché l’emisfero settentrionale si raffredderà rispetto a quello meridionale. Questo porterà a inondazioni in alcune regioni e a siccità in altre, con effetti devastanti sull’agricoltura. Un rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) del 2022 ha concluso che il riscaldamento globale, unito a un collasso dell’Amoc, potrebbe causare la perdita di metà dei terreni adatti alla coltivazione di grano e mais, una grave minaccia per la sicurezza alimentare mondiale. Non sappiamo se o quando si verificherà un arresto dell’Amoc, ma è un rischio reale, poiché sappiamo che la corrente ha un punto di rottura. 

Che cos’è un punto di rottura nel clima terrestre?
SR È uno di molti cambiamenti che si auto-amplifica, rendendo praticamente impossibile il ritorno allo stato iniziale. Superata una soglia critica, i cambiamenti si alimentano da soli, anche se riduciamo le emissioni di gas serra. È un po’ come quando ci si siede su una sedia e ci si appoggia allo schienale: fino a un certo punto bisogna spingersi, ma oltre un certo punto si cade anche se non ci si spinge più. 

Di quanto devono diminuire le emissioni di gas serra per evitare che questo accada?
SR C’è grande incertezza in merito, perché è difficile sapere quando si verificherà il punto di rottura. Non possiamo nemmeno essere certi che saremo al sicuro con gli impegni dell’Accordo di Parigi sul clima. Ma la probabilità di superare i punti critici aumenta con l’aumentare delle emissioni. E secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), con un riscaldamento globale compreso tra 1,5 e 2,5 gradi, entriamo in una zona ad alto rischio. Per questo motivo, lo scorso ottobre sono stato uno di 44 scienziati a firmare una lettera aperta al Consiglio nordico dei ministri. Tengo anche molte conferenze rivolte alle aziende e all’opinione pubblica. La maggior parte delle persone non sa di questi rischi, ma si preoccupa molto quando ne viene a conoscenza. Per ridurli, c’è solo da attuare pienamente l’Accordo di Parigi. E anche se è ormai quasi certo che la soglia di 1,5 gradi verrà oltrepassata -per ragioni politiche più che fisiche- dovremmo comunque fare tutto il possibile per limitarne il superamento. 

Qual è la sua opinione sulle Conferenze delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop), che si svolgono dal 1992?
SR Hanno un grosso problema: le decisioni possono essere prese solo per consenso e i Paesi che prosperano vendendo combustibili fossili ostacolano questo processo. È stato quasi un miracolo l’aver raggiunto l’Accordo di Parigi in queste condizioni. Si tratta di un accordo vincolante con chiare indicazioni tecniche su cosa fare e come monitorarlo. Ora è giunto il momento di attuarlo e ogni Paese deve cercare di fare la sua parte. E anche se non è menzionato nell’accordo a causa degli interessi dei produttori di combustibili fossili, dobbiamo abbandonare rapidamente e completamente questa fonte di energia se vogliamo limitare il riscaldamento globale.  

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Che cosa dovrebbe cambiare nel modo in cui i media parlano della scienza del clima?
SR I media devono dare priorità a questo argomento perché l’attuale cambiamento climatico è un’enorme minaccia per la nostra civiltà. Devono occuparsene giornalisti competenti, data la complessità dell’argomento. Bisogna inoltre denunciare la disinformazione, poiché la ricca e potente lobby dei combustibili fossili sta ancora spendendo enormi quantità di denaro per negare il consenso esistente e consolidato sul cambiamento climatico, sminuire le scoperte scientifiche e screditare le soluzioni proposte. In breve, i media dovrebbero fare la loro parte per evitare di servire questi interessi privati a spese del resto dell’umanità e del Pianeta. 

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