I diritti speciali nello Stato senza limiti

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Le immagini e la retorica delle forze di polizia vittime della supposta violenza dei manifestanti, oltre a stridere con il contenuto degli stessi video, sono emblema di una concezione autoritaria dello stato e strumento della sua legittimazione culturale. Raccontano di una distorsione della verità, di una narrazione che, grazie ad una informazione troppo spesso supina, è ripetuta con insistenza, sino a tramutarsi in univoca realtà, modellando così «l’opinione e quindi la volontà politica nazionale» (Gramsci).

Un suggerimento per giornalisti mainstream, ma anche per pubblici ministeri e giudici: assistere a qualche manifestazione, possibilmente non dietro il cordone della polizia.

Evocare a gran voce scudi penali e privilegi per le forze dell’ordine, arricchendo il corredo già pronto nel disegno di legge sicurezza (aggravanti, tutele rafforzate, pagamento di spese legali, licenze d’armi), supporta l’idea di uno stato fondato sull’autorità e sull’obbedienza.
Autorità e obbedienza appartengono ad orizzonti estranei alla democrazia, che si fonda, imprescindibilmente, sulla partecipazione e sull’uguaglianza, sulla «pari dignità sociale» (articolo tre della Costituzione), sul pluralismo e sul conflitto.

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Nella democrazia disegnata dalla Costituzione – dovrebbe essere ovvio – al centro è la persona, la garanzia della sua dignità, non lo Stato e le sue istituzioni; la seconda parte della Costituzione (l’organizzazione dello Stato) è strumentale rispetto alla prima (principi, diritti e doveri della persona).

Sostituire il principio di autorità alla partecipazione, la ragion di stato al pluralismo e al conflitto, la primazia delle istituzioni alla centralità della persona, non è certo poco in termini di sovversione dei paradigmi democratici, ma non nemmeno è tutto.

La volontà di istituire privilegi per le forze di polizia, di dotarle di immunità, scardina anche il principio di uguaglianza e il concetto di limite.
Ci sono cittadini “più cittadini” di altri, funzionari pubblici più rilevanti di altri, a dimostrazione che lo Stato non intende identificarsi con i cittadini e nemmeno con la garanzia del diritto all’istruzione o del diritto alla salute, ma con l’ordine pubblico; fine non è la sicurezza dei diritti e la sicurezza sociale, ma una coesione sociale intesa come sterilizzazione della società, a beneficio di alcuni.

L’uguaglianza come connotato del diritto proprio di una democrazia cede il passo a diritti speciali: il diritto speciale del migrante, il diritto speciale di chi vive ai margini (fra punizione della povertà e daspo urbano), il diritto speciale di chi dissente e ora il diritto speciale di chi rappresenta l’autorità. Diritto del nemico e diritto dell’amico; disumano e super-umano.

Il nemico è stigmatizzato e criminalizzato, espulso; l’amico, che veicola l’immagine dell’autorità, è celebrato e oggetto di franchigie e benefici.
Non si tratta solo di accontentare settori concepiti come politicamente affini ma di diffondere una concezione dello stato: autoritaria, insofferente a chiunque dissenta e intollerante ai limiti.

La divergenza sociale e politica è punita: chi critica è querelato; chi fa un blocco stradale compie un reato; chi disobbedisce con la nonviolenza, se è un carcerato e un migrante sarà punito, se è un eco-attivista per ora è solo espulso (il daspo urbano come moderno confino?); chi è povero, nel migliore dei casi, è ghettizzato o mantenuto in condizioni di sudditanza da benefici elargiti come graziosa carità.

I privilegi e le immunità per le forze di polizia, a fronte dell’uso della violenza, hanno un parallelismo nel mancato rispetto dei limiti istituzionali da parte dell’esecutivo, che siano sentenze dei giudici o ruolo del Parlamento. Una insofferenza al limite (la limitazione del potere è essenza del costituzionalismo) che si salda con il vittimismo del potere che giustifica la violenza con l’essere vittima.

È quanto tragicamente ci restituisce il “laboratorio Palestina”: menzogna così prepotente, e potente grazie alle complicità di molti, che impone l’assurda accusa di antisemitismo a chi pretende di “dire la verità al potere” ed è teatro di una orribile violenza legittimata con il ruolo di vittima e con la disumanizzazione, il disconoscimento, dell’“altro”.

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Non è certo la violenza dei manifestanti (posto che vi sia) a preoccupare ma la violenza istituzionale e la cultura autoritaria che la narrazione vittimistica delle forze di polizia reca con sé.



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