La forma delle cose di Neil LaBute: etica o estetica?

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ENRICO PASTORE | In un giorno qualsiasi del 1917 Marcel Duchamp ruotò di novanta gradi un orinatoio e la storia dell’arte occidentale cambiò radicalmente. John Cage, che di Marcel era stato grande amico e degno avversario alla scacchiera, per sottolineare la rivoluzione copernicana nel mondo dell’arte disse: «Supponiamo che non sia un Duchamp. Basta girarlo e lo diventa». Sembrerebbe una motto di spirito, di quelli che piacevano tanto a Freud per la fine arguzia, ma con questa battuta Cage metteva in luce che nell’arte contemporanea la questione estetica era ormai in secondo piano rispetto al gesto e all’intenzione che la manifestava.
Marcel Duchamp infatti diceva dei suoi ready-made: «C’è un punto che voglio stabilire molto chiaramente ed è che la scelta di questi ready-made non mi fu dettata da qualche diletto estetico. Questa scelta era fondata su una reazione di indifferenza visiva, unita al tempo stesso a un’assenza assoluta di buono o cattivo gusto… di fatto un’anestesia totale».
La forma delle cose di Neil LaBute, in scena dal 7 al 19 gennaio al Teatro Gobetti da Marta Cortellazzo Wiel, così come Arte di Yasmina Reza dove tre amici litigano per un quadro bianco, recupera il gusto estetico come fattore divisivo per scatenare la ferocia dei personaggi in scena e metterci di fronte a questioni che estetiche non sono per niente. L’arte sembra essere un pretesto, come potrebbe esserlo la politica, per istigare conflitti insanabili.
Neil LaBute però, al contrario di Reza, non si contenta di usare l’arte come oggetto del contendere. In La forma delle cose l’opera d’arte è il soggetto stesso dell’intera azione. Evelyn (in scena Beatrice Vecchione) è una giovane artista. Sta ancora studiando per un master di specializzazione e, grazie a una borsa di studio, va a risiedere in un piccolo paesino della provincia americana. Nel museo locale viene esposta una scultura, raffigurante Dio, di un famoso scultore a cui un comitato cittadino, per questioni di bigotto pudore, ha coperto le pudenda con una foglia di fico in gesso. Evelyn è nel museo per reagire a questa forma di censura disegnando con la vernice spray un “pisello” sulla foglia, restituendo il vero al fasullo.

Ancora una volta la questione sembra essere estetica, una reazione contro un novello Braghettone chiamato, come a suo tempo Andrea da Volterra nella Cappella Sistina, a censurare il vero di natura affinché non offendesse il pio e virgineo sguardo dei cardinali, e ora dei casti visitatori del museo. A volte però un’immagine nasconde un’altra immagine, come in Vermeer, Velasquez o Van Dyck, con quegli specchi che riflettono personaggi misteriosi. E così le parole aprono varchi nello spazio-tempo e dal museo appare il giardino dell’Eden. Sì perché a fermare Evelyn, entrata con una mela che sgranocchia soddisfatta, a fermarla affinché non vada dove non deve e non vandalizzi la statua di Dio, è Adam (Marcello Spinetta).
Qui Eva non è una costola di Adamo, non è la donna creata affinché sia di compagnia all’uomo. Qui Eva è molto più simile a Lilith, la ribelle. Assume anche i connotati del serpente tentatore. Lei non costringe Adam, lo consiglia, lo esorta a esercitare il suo libero arbitrio fregandosene di cosa pensano gli altri. La novella Eva è anche divinità perché Adam è la sua opera d’arte. E qui torniamo a Duchamp che, sempre parlando dei suoi ready-made, diceva non avevano niente di unico: «tutti i ready-made esistenti oggi non sono degli originali nel senso usuale del termine».
Adam è molto simile a un ready-made per Evelyn. Come diceva John Cage, per farlo diventare un Duchamp, basta solo dargli un’altra prospettiva. Inoltre è già pronto, potremmo chiamarlo un objet trouvè. Non è né bello né brutto, capita come per caso sotto l’occhio dell’artista.

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Evelyn nella sua creazione coinvolge inevitabilmente anche le persone vicine ad Adam: i suoi più cari amici Jenny (Celeste Gugliandolo) e Philip (Christian di Filippo) creando quello che Duchamp chiamava ready-made aumentato. Cambiando Adam, Evelyn modifica inevitabilmente anche i rapporti con loro e di conseguenza le rispettive personalità. La mutazione non è indolore. Anzi è violenta, quasi contro natura, perché l’arte, benché possa imitare la Natura, non le somiglia quasi mai, soprattutto se c’è di mezzo l’ego. Cage infatti, artista che più di ogni altro insieme a Carmelo Bene nel secolo scorso ha avversato l’idea di un’arte egoriferita, prendeva a prestito l’invito del filosofo indiano Ananda Coomaraswamy a non a imitare la natura nelle forme ma nel suo modo di operare.
Evelyn compie il peccato di agire senza amore, per non dire senza compassione. Come una scienziata che sperimenta sulle proprie cavie da laboratorio, modella la sua scultura di carne viva freddamente, calcolando le reazioni e le mosse successive. Lei non fa di se stessa un’opera d’arte come faceva la Baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven (colei che pare inviò il pissoir a Duchamp), ma fa diventare gli altri un’opera d’arte. E mette il risultato sul mercato. La questione alla fine è etica e non estetica. O meglio: l’arte deve agire secondo un’etica? Oppure conta solo il risultato? Sono questioni che il movimento #MeToo ha sollevato per esempio per il caso Jan Fabre. Le risposte sono ovviamente personali.

C’è un altro aspetto da considerare in quest’opera complessa. Per divenire opera d’arte Adam deve lasciarsi manipolare da Evelyn, trasformarsi in creta nelle sue mani. Philip Dick, il grande maestro della fantascienza, scrivendo La svastica sul sole, ci ha fornito un’opera magistrale che racconta del potere della suggestione. L’idea di un mondo in cui avevano vinto i nazisti paradossalmente gli si era presentata leggendo La banalità del male di Hannah Arendt, dove la filosofa spiega il potere di piegare la realtà propria dei regimi totalitari. Questi si affannano come in 1984 a riscrivere la storia cambiando il passato e obbligando i cittadini a credere nel bispensiero che nega e afferma verità contrastanti tra loro.

E di banalità in fondo si tratta anche nel caso di Evelyn e Adam. Le basta suggerire piccole cose per generare un totale cambio di personalità del suo soggetto. Adam in questo è un perfetto ready-made: senza particolari qualità viene messo sottosopra e posto su un piedistallo. Quella di Evelyn è un’operazione che ricorda un poco anche Piero Manzoni quando mise il mondo sul piedistallo e per farlo non dovette far altro che rovesciare il piedistallo stesso.
La regia di Maria Cortellazzo Wiel mette in luce tutti gli aspetti emergenti dal testo. Sembra – e sottolineo sembra – che si sia sottratta dal manipolare la materia, lasciandola invece affiorare naturalmente dallo sviluppo dei dialoghi. L’azione, al di là della prima scena che avviene in proscenio, si sviluppa in un ambiente chiuso da riquadri di plastica trasparente e illuminato da neon, uno spazio che i personaggi non abbandonano mai. Sembra uno di quei box da quarantena dove vengono confinati i contagiati o le cavie da laboratorio. Unici elementi: un pianoforte e un paio di sgabelli. Nel finale solo Evelyn esce da questo spazio contenitivo per illustrare al pubblico la sua opera d’arte.

La recitazione è calda e coinvolgente. Non si ha mai l’impressione del fasullo, una sensazione fastidiosissima e spesso presente sui palchi italiani. Gli attori si sono lasciati pervadere dai campi di forza emergenti, dai conflitti tra sfera pubblica e sfera privata dei singoli personaggi, e dalla naturale interazione delle varie opinioni e posizioni suscitate dallo sviluppo dell’intreccio drammaturgico.
La difficoltà per l’attore, nell’interpretare questo dramma, risiede nel sapere di essere ingannato e manipolato da Evelyn e, nonostante questa conoscenza, essere in grado di rendere credibile e manifesta la fragilità interiore e la spavalderia esteriore. L’arroganza iniziale di Philip, tipica del ragazzo di provincia, re del proprio piccolo villaggio, per esempio si trasforma in una dolorosa incertezza per finire nella consapevolezza del tradimento dell’amico via via che la consapevolezza delle proprie insicurezze matura. In questo dosare emozioni e caratteri i quattro attori sono stati all’altezza della difficoltà interpretativa. Unico neo: l’abuso dei toni urlati nei litigi quando, a volte, un sussurro sarebbe risultato più efficace.

LA FORMA DELLE COSE
di Neil LaBute
traduzione Masolino D’Amico
con Christian di Filippo, Celeste Gugliandolo, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione
regia Marta Cortellazzo Wiel
scene e costumi Anna Varaldo
luci Alessandro Verazzi
suono Filippo Conti
Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale
durata 1h 15′

Teatro Gobetti – Torino | 14 gennaio 2025

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