Oscar 2025, la brat season degli outsider

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dark horse〈dàak hòos〉 locuz. ingl. (propr. «cavallo nero»), usata in ital. come s. m. – Nel contesto degli Oscar si riferisce a un contendente o un vincitore inaspettato, che emerge da una relativa oscurità o da aspettative inferiori per aggiudicarsi un premio. Beatrice Straight, miglior attrice non protagonista a sorpresa nel 1976 (la sua performance in Quinto potere è la più breva mai premiata nella storia dell’Academy: il suo screen time è tra i 5 e i 6 minuti totali), ratificò l’espressione nel suo discorso di accettazione: “It’s very heavy. And I’m the dark horse”.

Il “dark horse” è l’outsider, il candidato (o il vincitore) che nessuno ha visto arrivare, dimenticato dai premi precursori che storicamente anticipano le scelte dell’Academy. Può essere spinto dal passaparola, dal plauso della critica, dal sentiment dei gruppi elettorali, dalla narrazione costruita attorno al soggetto, da una campagna strategica che guadagna terreno verso la fine della stagione.

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Spesso si resta sul piano delle suggestioni – anche proclamare qualcuno “dark horse” fa parte di strategie elettorali – ma ci sono stati non pochi esempi negli ultimi anni: Andrea Riseborough (To Leslie, 2023), Yalitza Aparicio e Marina de Tavira (Roma, 2019), Benh Zeitlin (Re della terra selvaggia, 2013), Demián Bichir (Per una vita migliore, 2012), Max von Sydow (Molto forte, incredibilmente vicino, 2012).

Chi sta cavalcando nel buio quest’anno? In attesa delle nomination di giovedì 23 gennaio, proviamo a fare qualche nome “brat”. Con “brat”, parola dell’anno secondo il Collins Dictionary, intendiamo quelle figure anticonvenzionali e fuori dalle norme, carismatiche ma che non si prendono sul serio, spericolate eppure ben consapevoli dei propri obiettivi. Pronti?

Miglior regia: Coralie Fargeat – The Substance

I favoriti: Brady Corbet (The Brutalist), Jacques Audiard (Emilia Pérez), Edward Berger (Conclave), Sean Baker (Anora), James Mangold (A Complete Unknown)

Coralie Fargeat e Demi Moore

Coralie Fargeat e Demi Moore

(Karen Di Paola)

Tra i cinque registi candidati dalla Director Guild of America, il sindacato americano dei registi, manca la francese Coralie Fargeat, autrice di The Substance, un body horror talmente disturbante da indurre la Universal a rinunciare alla distribuzione dopo una controversa proiezione privata sfociata nella richiesta di rimontaggio (irrealizzabile a causa del final cut previsto dal contratto di Fargeat). Recuperato da MUBI, piattaforma di nicchia, si è rivelato un successo: al momento veleggia sugli 80 milioni di dollari globali, con un budget inferiore ai 20.

Di solito la cinquina della DGA coincide per quattro/quinti o tre/quinti con quella degli Oscar e, in settantasette anni, è accaduto solo in otto occasioni che il vincitore del sindacato non ottenesse la statuetta dell’Academy.

Tuttavia, The Substance si sta muovendo sorprendentemente bene nella corsa verso il premio più importante. Che l’horror non sia tra i generi preferiti dai votanti è pacifico, ma il film è una satira della società dello spettacolo che non può non coinvolgere una platea elettorale così sensibile al tema (oltre che alla rentrée di Demi Moore, protagonista di una tipica storia di rinascita a prova di Academy: leggere alle voci Brendan Fraser, Ke Huy Quan, Mickey Rourke…).

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Inoltre, com’è noto, il meccanismo di voto può ribaltare i pronostici. Ogni elettore, infatti, deve selezionare cinque candidati in ordine di preferenza, anche se viene considerata solo la prima indicazione. Se il titolo o il soggetto selezionato è già in nomination, si procede a scalare per completare la cinquina. Ogni candidato, quindi, deve aver raggiunto il cosiddetto “magic number”: il numero di potenziali votanti in quella categoria diviso il numero di candidati, più uno (in quasi tutti i casi, 5 + 1 = 6; il risultato viene arrotondato per eccesso). Detta così sembra una pratica bizantina, in realtà, se ben dominata, può regalare sorprese: basta che un gruppetto compatto indichi qualcuno come prima scelta (è il metodo Riseborough).

In questo senso, in mezzo a registi apparentemente blindati (Corbet, Audiard, Berger, Baker), Fargeat sembra quella più attrezzata a intercettare una nicchia. Ma attenzione a Payal Kapadia, esordiente che con All We Imagine as Light – Amore a Mumbai ha intercettato molti premi della critica (sull’onda della mancata designazione dell’India quale miglior film internazionale). E occhi pure a un altro debuttante, l’afroamericano RaMell Ross (Nickel Boys).

Miglior attore: Sebastian Stan – A Different Man

I favoriti: Timothée Chalamet (A Complete Unknown), Adrien Brody (The Brutalist), Colman Domingo (Sing Sing), Ralph Fiennes (Conclave), Daniel Craig (Queer)

Sebastian Stan in The Apprentice (credits: Pief Weyman) e A Different Man
Sebastian Stan in The Apprentice (credits: Pief Weyman) e A Different Man

Sebastian Stan in The Apprentice (credits: Pief Weyman) e A Different Man

La più noiosa tra le gare di quest’anno è sicuramente quella per il miglior attore protagonista. Ma, a scompigliare tutto, potrebbe essere Sebastian Stan, il più imprevedibile e brat dei competitor.

La sua + una storia esemplare. Nato in Romania ed emigrato a New York a dodici anni, si è fatto conoscere con Gossip Girl ed esploso grazie al ruolo di Bucky Barnes, il Soldato d’Inverno del Marvel Cinematic Universe. A quarantadue anni, forte di un discreto star power, si è lanciato in due avventure fuori dagli schemi.

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Nell’anno della (plausibile) rielezione di Donald Trump, ha fatto irruzione nella campagna elettorale interpretando The Apprentice, biopic corsaro che ricostruisce la carriera del futuro presidente, dall’ascesa come imprenditore immobiliare e il suo rapporto con il mefistofelico avvocato Roy Cohn.

Dopo la presentazione a Cannes, il film ha faticato a trovare una distribuzione americana: il team legale di Trump ha cercato in tutti i modi di bloccarlo (lo stesso presidente l’ha definito “disonesto, diffamatorio, disgustoso” e realizzato da “feccia umana”), uno dei finanziatori (l’imprenditore Daniel Snyder) si è sentito ingannato (era convinto fosse un film pro Donald), lo star system hollywoodiano si è intimorito (Stan ha rivelato che nessuno dei suoi colleghi si sarebbe disponibile a discutere pubblicamente del film e della sua prova). Il motivo, al di là del conflitto, è preciso: una sequenza di The Apprentice fa vedere Trump che stupra la prima moglie, Ivana, un fatto da lei stessa denunciato in sede di dibattimento per il divorzio (poi ritrattato dalla stessa, un anno prima dell’elezione di Trump: a pensare male si fa peccato etc…).

Ma Stan, dicevamo, ha un altro colpo in canna: in A Different Man è un aspirante attore affetto da neurofibromatosi di tipo 1 che, dopo essersi sottoposto a un trattamento sperimentale, diventa un affascinante agente immobiliare, conquistando un’appagante vita sessuale e una possibile affermazione teatrale. Finché un uomo, anche lui affetto da neurofibromatosi, gli sconvolge l’esistenza (è Adam Pearson, figura di spicco nell’attivismo contro le deformità).

In entrambi i film, che a vario titolo si muovono nel campo della commedia nera, Stan è chiamato a una profonda trasformazione fisica, un lavoro sul corpo e sulla maschera che interroga le zone d’ombra di uomini sospesi tra una profonda inadeguatezza e una radicale arroganza. Per A Different Man, Stan ha vinto l’Orso d’Argento a Berlino e il Golden Globe: The Apprentice è stato un flop, ma come ignorare questa doppietta?

Miglior attrice: Marianne Jean-Baptiste – Hard Truths

Le favorite: Demi Moore (The Substance), Mikey Madison (Anora), Karla Sofía Gascón (Emilia Pérez), Cynthia Erivo (Wicked), Fernanda Torres (Io sono ancora qui)

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Marianne Jean-Baptiste in Hard Truths
Marianne Jean-Baptiste in Hard Truths

Marianne Jean-Baptiste in Hard Truths

(Bleecker Street)

Quella per l’Oscar alla miglior attrice è sicuramente la competizione più selvaggia di quest’anno. Almeno una decina di contendenti, nessuna che si sia davvero imposta sulle altre nel corso dell’awards season, un manipolo di vincitrici annunciate, affascinanti outsider, dive redivive. E poi c’è Marianne Jean-Baptiste.

Jean-Baptiste punta alla seconda nomination quasi trent’anni dopo quella conquistata come miglior non protagonista per Segreti e bugie, diretto da quel Mike Leigh che ora l’ha scelta come anima e corpo di Hard Truths. Nel ruolo di una donna scontrosa e infelice, irascibile e stanca di tutto e tutti, la cinquantasettenne londinese interpreta offre un ritratto potente e profondo, pieno di dolore, ansia e paura: nessuno parla di depressione, eppure è evidente lo stato in cui galleggia. Senza rinunciare a un sottofondo umoristico, come capita spesso nell’universo di Leigh.

Zitta zitta quatta quatta, ha raccolto parecchi premi della critica (National Society, l’associazione degli afroamericani, i circoli di Chicago, Los Angeles, New York, San Diego, San Francisco, Toronto) più il BIFA (che celebra il cinema indipendente britannico) e la candidatura al Golden Globe. In una gara agguerrita e zeppa di dive, è la vera underdog.

Miglior attore non protagonista: Jonathan Bailey – Wicked

I favoriti: Kieran Culkin (A Real Pain), Yura Borisov (Anora), Guy Pearce (The Brutalist), Edward Norton (A Complete Unknown), Jeremy Strong (The Apprentice)

© Universal Studios. All Rights Reserved.
© Universal Studios. All Rights Reserved.
Jonathan Bailey is Prince Fiyero in WICKED, directed by Jon M. Chu

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È difficile immaginare, al momento, qualcuno che possa battere Culkin, straordinario nel passare in pochi secondi dall’euforia alla depressione. ma la categoria si presta alle inversioni di tendenza.

Attenzione a Clarence Maclin, sparring partner di Domingo in Sing Sing, un film dal budget contenuto e dal forte impatto emotivo che ha tutte le carte in regola per intercettare il favore dell’Academy. Ispirato a fatti reali, il dramma di Greg Kwedar racconta l’esperienza di un laboratorio di teatro tra i detenuti del carcere evocato dal titolo.

Clarence “Divine Eye” Maclin è stato davvero recluso in quella prigione, e durante la detenzione, ha partecipato al programma riabilitativo. Già molto candidato e premiato, Maclin porta l’esperienza personale in un film che si esalta grazie a quel coefficiente di realtà, nel solco di altre rivelazioni celebrate dagli Oscar come il reduce di guerra Harold Russell (I migliori anni della nostra vita) e il medico cambogiano Haing S. Ngor (Urla dal silenzio).

Ma i SAG hanno acceso i riflettori su Jonathan Bailey, irresistibile principe di Wicked. Il film, tratto dal musical di culto, è il vero fenomeno dell’annata, con un incasso di circa 700 milioni di dollari nel mondo (la maggior parte, va detto, negli Stati Uniti) e una forte presenza sui social media.

Accanto alle star Cynthia Erivo e Ariana Grande, Bailey non sfigura, anzi: dopo il successo di Bridgerton, la sua brillante consacrazione cinematografica non offre solo un eccezionale virtuosismo performativo (recitazione, ballo, canto: il numero Dancing Through Life è tra i più riusciti) ma anche uno spumeggiante tripudio camp (la fluidità del movimento riflette quella sessuale: dopotutto il Ken di Ryan Gosling non era così diverso).

Attrice non protagonista: Carol Kane – Tra un tempio e l’altro

Le favorite: Zoe Saldaña (Emilia Pérez), Ariana Grande (Wicked), Isabella Rossellini (Conclave), Felicity Jones (The Brutalist), Margaret Qualley (The Substance)

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Jason Schwartzman e Carol Kane in Tra un tempio e l'altro
Jason Schwartzman e Carol Kane in Tra un tempio e l'altro

Jason Schwartzman e Carol Kane in Tra un tempio e l’altro

Ora, che Carol Kane possa ambire davvero a una nomination all’Oscar è una suggestione che vive solo nella testa di chi scrive. Più o meno, d’accordo, perché i critici di New York l’hanno votata come miglior attrice non protagonista ed è in corsa per vincere un Independent Spirit Award. A 72 anni, Kane è il cuore di Tra un tempio e l’altro, una piccola commedia malinconica nel solco di Hal Ashby in cui interpreta un’insegnante di musica che prepara il Bat Mitzvah con un cantore un tempo suo alunno (Jason Schwartzman).

Poco attrezzata per una campagna elettorale, Kane, una commediante di razza nonché tra le ultime ragazze della New Hollywood, è buffa, frizzante, affettuosa, autorevole, in sintesi meravigliosa. Ci mette un calore, un’allegria, una naturale leggerezza che ti fanno rimpiangere le tante occasioni mancate (dal pubblico) per godere al meglio di questa attrice così prolifica eppure sempre un po’ laterale. Che, chissà, potrebbe ottenere la seconda candidatura all’Oscar a quarantanove anni da Hester Street, dramedy sugli ebrei europei immigrati a New York a fine Ottocento parlato quasi completamente in yiddish. Le probabilità sono quasi nulle, ma non tifare per lei è impossibile.



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