Per i genitori sul ring c’è il “laboratorio dei conflitti”

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Qualche mese fa la sezione famiglia del Tribunale di Genova ha trattato la causa di separazione di due coniugi molto facoltosi. Il punto del contendere – come spesso accade – era l’assegnazione dei figli (6 e 8 anni) e la valutazione della capacità educativa che nessuno dei due riconosceva all’altro/a, con una serie di pesanti accuse reciproche di negligenza e incapacità. Nell’impossibilità di accertare quei comportamenti spogliandoli dalla coltre pesante del risentimento e della rivendicazione, e quindi di prendere una decisione motivata, il giudice, per verificare il comportamento di quei genitori e le dinamiche che avevano portato a una conflittualità così esasperata, ha proposto la presenza costante di un educatore all’interno della famiglia. I genitori hanno accettato. Per tre mesi, 24 ore al giorno, alcuni psicologi a turno avrebbero verificato la routine domestica, con uno sguardo privilegiato alla qualità delle scelte educative. Il risultato è stata una relazione di 700 pagine, dettagliatissima, che ha permesso al giudice di avere una valutazione obiettiva della situazione e di prendere una decisione serena.

Ottima scelta, verrebbe da dire, perché allora non si può fare sempre così? Domenico Pellegrini, presidente della sezione famiglia del Tribunale ordinario di Genova, sorride con un velo d’amarezza. « Perché non tutti i genitori accettano una procedura simile ma, soprattutto, perché quasi nessuno è disposto a pagare oltre trentamila euro per una consulenza h24. E il sistema giudiziario non può spendere tutto quel denaro. Quindi le consulenze di quel tipo sono a carico delle parti. Almeno di chi se lo può permettere». Sembra un paradosso, ma quello che emerge dalle parole del magistrato è il quadro desolante ma obiettivo della situazione della giustizia in Italia, soprattutto per quanto riguarda il fronte minori e famiglia. Se ci fossero le risorse necessarie tutto potrebbe andare diversamente e la situazione di tante famiglie, che oggi soffrono anche perché tribunali e servizi sociali non hanno la possibilità di disporre tutele costanti e prolungate nel tempo, avrebbe un esito migliore.

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La tragedia delle sorelle albanesi

In qualche modo anche la vicenda di cui si è parlato tanto la scorsa settimana, quella delle due sorelle di origini albanese che si sono buttate dalla finestra per la preoccupazione riguardante la sorte dei quattro figli minorenni della donna più giovane, è legata a un meccanismo con tanti inciampi e tanti limiti. Il caso era seguito dai servizi sociali che, pur con le risorse limitate a disposizione, stavano facendo quanto era nelle loro possibilità per accompagnare quei genitori verso la scelta più opportuna. Non c’era neppure la minaccia – come è stata detto – di un allontanamento forzato dei figli dalla famiglia. Anzi, era in corso il recupero della figura paterna. L’uomo, per quanto condannato in passato per maltrattamenti ma a cui non era mai stata revocata la responsabilità genitoriale, stava seguendo un percorso di riabilitazione e, su indicazione del giudice, trascorreva alcune ore alla settimana con i figli che ne parlavano positivamente. Non c’era cioè in corso alcuna procedura per portare i quattro bambini in una comunità protetta. Perché allora la scelta tragica della madre che nella caduta dalla finestra ha perso la vita? Nessuno può dare risposte certe. La donna aveva mostrato fragilità, continuava ad avere atteggiamenti oppositivi verso il marito ma – secondo tribunale e servizi che erano in contatto con lei – difficile chiamare in causa la questione dell’integralismo religioso.

Come, altrettanto inspiegabile, il gesto della sorella che ha deciso di buttarsi a sua volta dalla finestra, dopo aver visto il corpo della più giovane sul marciapiede. La donna adesso è fuori pericolo, ma le domande rimangono. Sarebbe stato possibile fare altro per stare vicino a queste due poverette? Sarebbe stata necessaria un’assistenza psichiatrica più costante? Forse sì, ma sarebbero state necessarie risorse organizzative e, soprattutto, economiche di cui il nostro sistema di tutela dei minori e delle famiglie fragili oggi non dispone assolutamente. Non va neppure dimenticato che il rapporto tra i giudici – che dispongono gli interventi – e i servizi sociali – che devono metterli in atto – sconta una storica e mai risolta asimmetria. I servizi sociali non dipendono dai tribunali ma dalle amministrazioni locali. Quindi la collaborazione avviene nei tempi e nei modi consentiti dalla reciproca volontà, quando c’è, di operare per il bene delle persone coinvolte – non da un rapporto gerarchico senza dimenticare che sulle spalle degli assistenti sociali ci sono mille altre incombenze, oltre a quelle derivanti dall’apparato giudiziario.

La mediazione, obiettivo per pochi

Eppure, in questo arcipelago di incertezze, proprio a Genova ci sono magistrati che continuano a credere nella possibilità di offrire alternative interessanti ai coniugi che non riescono a costruire un rapporto duraturo. «Spesso – riprende Domenico Pellegrini – per capire come stanno andando le cose servirebbe una perizia tecnica con costi che, come detto, sono spesso insostenibili dalle parti. Noi a Genova abbiamo messo a punto un’esperienza interessante, il “laboratorio dei conflitti”, che è un servizio gestito dalla Asl. Ci sono due psicologi che aiutano i coniugi ad elaborare il conflitto e a cercare nuove vie di dialogo. Un’esperienza pilota che ha esiti positivi nel 50 per cento dei casi». Un segnale positivo, certamente. Anche se, per rispondere a tutte le esigenze del territorio, il numero degli esperti dovrebbe essere decuplicato. E non è possibile.

«Si potrebbe ricorrere in modo più costante alla mediazione familiare, sollecitata anche dalla riforma Cartabia – osserva ancora il presidente della sezione famiglia – ma, com’è noto, si tratta di una procedura a cui si accede solo in modo volontario e comunque sempre a carico delle parti. E poi gli avvocati sono tutt’altro che favorevoli. Il mediatore diventa in qualche modo un rivale da scoraggiare». Un’arma, diciamo noi, tanto spuntata quanto paradossale. Come se il giudice dicesse: se volete un aiuto in più per andare d’accordo, dovete pagare. Sottinteso: alle istituzioni interessa poco il vostro clima familiare, continuate pure a litigare, noi non sborsiamo un quattrino. Pessimo messaggio da parte dello Stato. Ma è così.

L’invenzione del curatore “specialissimo”

Di fronte a tanti limiti, non resta al giudice che ricorrere alla fantasia. Come succede, sempre a Genova, con l’utilizzo del “curatore speciale” del minore, una figura introdotta nel diritto minorile dalla riforma Cartabia che avrebbe il compito di assistere bambini e ragazzi nei procedimenti giudiziari in cui sono coinvolti, quasi sempre a causa della conflittualità dei genitori. Il “curatore” – di cui tanti giudici e avvocati sostengono l’inutilità – sulla carta potrebbe essere anche uno psicologo, un assistente sociale, ma nei fatti è quasi sempre un avvocato incaricato dal tribunale e retribuito dal sistema giudiziario. «Il curatore – spiega ancora Pellegrini – partecipa alle udienze, fa proposte, può anche impugnare i provvedimenti. Essendo una figura intermedia tra i due genitori che litigano, abbiamo capito che può diventare prezioso per svolgere anche compiti che in tante situazioni di conflittualità diventano complicati». Così, alla sezione famiglia del tribunale genovese, hanno deciso che, nei provvedimenti, i compiti dei “curatori” debbano essere elencati in modo dettagliato.

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E quindi anche comprendere incombenze come andare a ritirare i passaporti dei minori per evitare ai genitori separati conflitti di competenze. Oppure presentare la domanda per l’assegno unico e ancora intervenire se ci sono opinioni diverse sulla vaccinazione dei figli. Anche mediare le telefonate dei padri ai figli che fanno fatica a vedere. Insomma, un utilizzo off-label, si direbbe in medicina, che trasforma queste figure contestate in “curatori specialissimi”. Brillante espediente fai-da-te che serve a superare le incertezze e le contraddizioni della riforma Cartabia. E i limiti di una situazione oggettivamente difficile per gli addetti ai lavori e per chi, come minori e famiglie, dovrebbe beneficiare degli interventi dei tribunali. Ma si può chiamare civile un Paese in cui i meccanismi dell’apparato giudiziario, rivoluzionati da una riforma pensata a costo zero, dipendono dalla fantasia interpretativa dei magistrati?





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