“Porto la musica nel mio viaggio della vita”

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Quando lo si incontra per le vie del centro storico di Carpi, il fisico asciutto, gli occhialini tondi e un sorriso aperto e solare, pare di essere tornati ai tempi delle famose ‘vasche’ in piazza Martiri. Eppure, da allora, Marco Marchesi, di chilometri ne ha percorsi tanti, anzi, tantissimi. Quelli che lo hanno portato dalla città dei Pio agli Stati uniti, che lui adesso chiama ‘casa’. Classe 1972, diplomato al Meucci e al Conservatorio Vecchi-Tonelli in flauto traverso, Marco aveva una certezza nella vita: la sua passione per la musica.

Ed è stato proprio questo amore incondizionato ad averlo portato lontano, oltre Oceano, e a scalare i gradini di una carriera brillante e di successo, fino a dare vita ad una sua società, la ‘White Owl Tribe’, agenzia di produzione e consulenza, specializzata in progettazione di eventi, gestione e promozione della produzione, relazioni con gli artisti. E ad essere il concert producer di un artista internazionale del calibro di Andrea Boccelli. Marco viaggia ad alti livelli (e anche molto in aeroplano…), ma poi cita con spontanea tenerezza la sua casa in via Brennero, dietro al Duomo, in cui periodicamente torna, e sembra davvero di rivederlo ragazzino nella ‘sua’ piazza Martiri, con quel sorriso gentile.

Marco, da Carpi all’America: come è nata questa ‘avventura’?

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“Tutto è partito dal mio desiderio di imparare l’inglese. Ma in America, vista la mia passione per gli Usa, frutto anche dei tantissimi film americani che avevo visto al cinema (il papà Adolfo Marchesi era il direttore del Modernissimo e del Supercinema dei quali curava la programmazione per conto dei fratelli Gibertoni, ndr). Fondamentale è stato l’incontro con Anna Giovannini del Victoria Language, che ha saputo intuire in me una passione che andava oltre la conoscenza della lingua. E così è iniziato il mio percorso in un campus universitario a Seattle: avevo 22 anni ed era la prima vera volta che ‘uscivo’ da Carpi”. Una avventura che si è trasformata ben presto nella sua vita…

“Esatto, anche se in modo inconsapevole: sono andato in America per imparare l’inglese, non perché io avessi deciso a priori di volermi trasferire all’estero. Nel 1996, scaduto il visto, sono tornato in Italia e ho avuto un altro incontro dirimente: ero passato al Conservatorio a salutare vecchi compagni di corso e insegnanti, quando mi ha fermato Angelo Gabrielli, titolare con Adua Pavarotti di ‘Stage Door’, agenzia di management artistico. Il 26 giugno (giorno del mio compleanno) 1996 ho firmato con lui un contratto di sei mesi di prova. E’ stato il periodo bolognese, culminato con l’Atelier Musicale che ha affinato la mia preparazione di supervisione della gestione e della programmazione di oltre 400 artisti nell’industria della musica classica (cantanti d’opera, direttori d’orchestra, solisti, registi e scenografi teatrali)”.

Il suo percorso: un sogno o un’opportunità?

“È doverosa una premessa: mai avrei immaginato di arrivare a fare questo nella mia vita. Io semplicemente avevo la passione per l’inglese, gli Stati Uniti e il viaggiare. Da piccolo continuavo a dire che ‘da grande’ avrei voluto fare l’elettricista o il falegname, per l’inclinazione alla manualità. Ora, un pizzico di ‘sogno’ c’è, in quanto in quello che faccio rivedo quello che immaginavo. Ma soprattutto ci sono state varie opportunità, le famose sliding doors, quelle capaci di cambiare il corso del tuo destino. Io ero nel posto giusto al momento giusto: le opportunità che ho saputo cogliere mi hanno portato dove sono ora. Suonavo il flauto traverso ma sapevo che non sarei mai diventato un musicista, ma ero certo che tutta la mia vita sarebbe stata circondata dalla musica”. Com’è avvenuto l’incontro con Andrea Bocelli?

“Era il 1998: Bocelli era venuto nei nostri uffici di Bologna con il suo manager, cercava l’opportunità di esibirsi non solo nel mondo pop ma anche in quello della lirica. Il primo evento che ho fatto con lui è del 1999, quando ha cantato il ‘Werther’ al Michigan Opera Theater di Detroit. Poi ho lavorato per lui su altri progetti: il Metropolitan Opera di New York, Zurigo, Vienna e tanti altri. Io ero ancora un ‘garzone di bottega’: operavo dietro le quinte ma ovviamente chi gli presentava le proposte era il mio capo. Solo successivamente, quando ho lasciato l’agenzia dopo 14 anni, Bocelli ha imparato che in realtà dietro a tutta quella organizzazione c’ero anche io: nel 2011 è nato così il nostro rapporto, prima più in sordina per diventare sempre più stretto e personale. Quando mi sono trasferito a Los Angeles, alla ‘World Entertainment Company’, tra i miei primi progetti c’è l’inaugurazione di una mostra su Bocelli al Grammy Museum e in contemporanea abbiamo lanciato la ‘Andrea Bocelli Foundation’ a Beverly Hills, alla presenza di oltre 600 celebrità”.

Il 2000 è un anno di svolta

“Mi sono trasferito a New York, ho fondato la mia società, la ‘White Owl Tribe’ (nome che ho scelto insieme a mia figlia Alice, oggi 16enne, vista la nostra comune passione per Harry Potter) e inizia ufficialmente la mia collaborazione con Andrea Bocelli come coordinatore artistico: seguo i suoi spettacoli in giro per il mondo, imbastisco il programma musicale, seleziono chi canta per lui, quello che è l’impatto visivo di coro e orchestra nel contesto del concerto”. Qual è il suo rapporto con Carpi?

“Rappresenta le mie radici, la città in cui sono nato e cresciuto fino ai 22 anni. Ma la Carpi che conoscevo io non c’è più, è cambiata come è naturale che sia, quindi il mio rapporto è ‘strano’: torno volentieri, ogni 3/4 mesi, per stare con mia sorella Vanda, gli amici, ma al tempo stesso non la sento più mia, e quasi sono io fuori luogo. ‘Casa’ per me è l’America, non Carpi. Poi magari tornerò in via Brennero ad invecchiare: nel frattempo dopo la Florida, da un anno mi sono trasferito in un posto molto tranquillo nel North Carolina, un luogo che tanto mi ricorda la ‘vecchia’ America dei film che venivano proiettati al Modernissimo”.

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L’America, la recente nomina a coordinatore artistico generale per i settori musica, danza e prosa del Festival La Versiliana di Pietrasanta: le manca un riconoscimento dalla sua città? Nemo propheta in Patria?

“Non ho mai cercato riconoscimenti perché sono felice di quello che faccio, ho dimostrato a me stesso di esserne capace e non ho bisogno di altro. Mi reputo fortunato. Lavoro in produzione, sono abituato a stare dietro le quinte: il palcoscenico è per chi fa lo spettacolo e quando l’artista viene applaudito, una parte è anche per noi che stiamo dietro e siamo già felici”. Un rimpianto?

“Non avere imparato a suonare il pianoforte al Conservatorio”. E un sogno?

“Non rida: viaggiare ma non per lavoro, bensì per andare a vedere quello che desidero, come ad esempio la Foresta di bambù a Kyoto”.



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