Aedon 3/2024, Margheri Biagi, La natura dell’ordine di riduzione in pristino

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Aedon 3/2024, Margheri Biagi, La natura dell’ordine di riduzione in pristino


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La natura dell’ordine di riduzione in pristino conseguente al mancato rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma e l’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria

di Federico Margheri Biagi [*]

Sommario: 1. Evoluzione normativa e orientamenti giurisprudenziali. – 2. Sanzioni amministrative e misure a carattere ripristinatorio. – 3. Un combinato disposto “a formulazione sintetica”?. – 4. La non applicabilità retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria. – 5. Ordine di riduzione in pristino e sanzioni sostanzialmente penali.

La più recente giurisprudenza amministrativa sembra orientarsi in modo sempre più convinto nel senso della qualificazione dell’ordine di riduzione in pristino conseguente al diniego dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria quale misura amministrativa di carattere senz’altro ripristinatorio. Dalla asserita natura “non sanzionatoria” dell’ordine di riduzione in pristino la giurisprudenza prevalente trae conseguenze di rilievo, in particolare per quanto concerne l’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica postuma previsto ex artt. 146, co. 4 e 167, co. 4 e 5 del d.lg. n. 42 del 2004, c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio. L’orientamento giurisprudenziale dominante sembra criticabile alla luce di una più rigorosa applicazione dei concetti di sanzione amministrativa in senso tecnico e di sanzione sostanzialmente penale all’ordine di riduzione in pristino adottato in reazione ad un abuso paesaggistico. L’articolo mira a dimostrare che il corretto inquadramento tipologico dell’istituto ne richiede la qualificazione quale misura prevalentemente sanzionatoria e comunque sostanzialmente penale. Da ciò verranno tratte le opportune conseguenze per quanto concerne l’impossibilità di fare applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

Parole chiave: divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria; retroattività; ordine di ripristino; sanzioni amministrative.

The nature of the restoration order resulting from the failure to issue a posthumous landscape permit and the retroactive application of the prohibition on amnesty landscape permits
Regarding the issue concerning the correct qualification of the order ex art. 167, co. 1, legislative decree n. 42/2004 with which the administration imposes the artifact’s restoration as it was before the illecit intervention, the most recent opinions surfacing from administrative case law seem to converge on its exclusively restorative nature. Having landed on the “non sanctioning” nature of the measure, the interpretations infer the retroactive applicability of the prohibition to issue a posthumous authorization ex art. 146, co. 4, legislative decree n. 42/2004. In light of a more attentive consideration of the underlying concepts of administrative sanction and criminal sanction, as it is defined in the Echr case law, the prevalent administrative case law seems contestable, as both are pertinent. The article aims to prove the sanctioning nature of the order, which entails the non retroactive application of the prohibition.

Keywords: prohibition of landscape authorization in amnesty; retroactivity; order of restoration; administrative sanctions.

1. Evoluzione normativa e orientamenti giurisprudenziali

1.1. Sino all’entrata in vigore del d.lg. n. 42 del 22 luglio 2004, c.d. Codice dei beni culturali e
del paesaggio (in seguito anche “Codice”) dalla disciplina dell’autorizzazione
paesaggistica non emergevano dubbi in merito alla natura dell’ordine di
riduzione in pristino conseguente al diniego dell’autorizzazione in sanatoria.

Dubbi, in una certa misura
sopravvissuti all’introduzione del Codice, hanno riguardato piuttosto il tema
della natura della sanzione amministrativa pecuniaria erogabile
dall’amministrazione in alternativa alla riduzione in pristino [1].

La questione peraltro presenta
sicuri profili di collegamento con il tema oggetto del presente lavoro,
ponendosi tuttavia “a valle del ragionamento”: la definizione della natura
sanzionatoria piuttosto che ripristinatoria dell’ordine di riduzione in
pristino conseguente all’abuso paesaggistico può incidere, se non sul
risultato, quantomeno sui contenuti del dibattito riguardante la natura della
sanzione amministrativa erogabile in luogo della misura ripristinatoria [
2].

1.2. Piuttosto è
opportuno rilevare sin da subito che per addivenire alla corretta
qualificazione del potere di riduzione in pristino è necessario preliminarmente
individuare la ratio della norma attributiva di tale potere. Il
risultato di tale operazione esegetica, per le ragioni che saranno meglio
puntualizzate in seguito (cfr. § 3), è in larga parte determinato dalla
soluzione di alcune questioni giuridiche concernenti il regime del potere
amministrativo di autorizzazione paesaggistica postuma.

A
questo proposito si deve ricordare come la giurisprudenza anteriore
all’introduzione del Codice avesse a lungo negato la sussistenza del potere di
autorizzazione paesaggistica in sanatoria, optando per l’interpretazione
letterale della legge n. 1497 del 1939, che non lo prevedeva espressamente.

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L’“overruling
è intervenuto nel 2000 tramite le sentenze pilota della Sezione VI del Consiglio
di Stato n. 5373 del 9 ottobre 2000 e n. 5851 del 31 ottobre 2000 [3].

Da
allora il collegio, nella sua costante giurisprudenza, ha ritenuto di poter
ricavare il potere di autorizzazione in sanatoria dalla previsione di cui
all’art. 15 della legge n. 1497 del 1939, che consentiva all’amministrazione di
irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria in luogo dell’ordine di
riduzione in pristino [
4].

Il
giudice amministrativo, così facendo, riconosceva la prevalenza del principio
di economia dei mezzi giuridici sul principio di tipicità degli atti amministrativi [
5]:
la soluzione esegetica, infatti, consentiva di non procedere alla demolizione
di interventi edilizi che non si ponevano in contrasto con le esigenze di
tutela del paesaggio [
6]. Quindi, nel quadro previgente, l’amministrazione,
a fronte di ipotesi di abusivismo c.d. formale, poteva limitarsi a irrogare una
sanzione pecuniaria, consentendo il mantenimento dell’opera [
7].

Tale
nuovo orientamento del giudice amministrativo è stato completamente
neutralizzato dall’intervento legislativo del 2004 [
8],
o almeno così si sarebbe dovuto ricavare dalla lettera della legge [
9].

Il
Codice, nella sua originaria formulazione, faceva assoluto divieto di
autorizzazione paesaggistica postuma, sancendo all’art. 146, comma 10, lett. c), che l’autorizzazione: “non può
essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi” [
10].
La rigidità del disposto normativo, che da un lato rifletteva le preoccupazioni
avanzate da autorevole dottrina [
11],
dall’altro ne faceva emergere di nuove: “il predetto divieto, in quanto assoluto, destava perplessità, essendo
lo stesso del tutto indipendente da considerazioni dell’interesse pubblico
effettivo e concreto” [
12].

A
complicare ulteriormente il quadro interveniva la formulazione normativa, che
appariva antinomica [
13]: se da un lato, all’art. 146,
comma 10, lett. c) del Codice, si
faceva assoluto divieto di autorizzazione postuma dall’altro, all’art. 167, si
prevedeva espressamente il potere di erogare la sanzione amministrativa pecuniaria,
ciò che sembrerebbe presupporre la sussistenza del potere di autorizzazione in
sanatoria [
14].

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Il
problema fu risolto in giurisprudenza tramite una raffinata, e forse fin troppo
sofisticata [15], soluzione esegetica: l’applicazione della sanzione pecuniaria
avrebbe consentito di evitare la riduzione in pristino senza però rimuovere il
carattere illecito dell’opera (il che ne avrebbe comunque condizionato la sorte
giuridica, specie sotto il profilo della circolazione) [
16].

Queste
criticità hanno trovato almeno in parte soluzione col correttivo al Codice del
2006 [
17].
L’importanza di quest’ultimo intervento normativo è confermata dal consolidato
orientamento del giudice amministrativo che fa coincidere la data
dell’effettiva entrata in vigore del divieto di autorizzazione in sanatoria con
quella dell’entrata in vigore del decreto correttivo [
18].

Tale
soluzione, ormai di diritto vivente, consente di ritenere che la questione
dell’applicazione retroattiva del divieto in parola riguardi le opere eseguite
prima di tale data e non già prima dell’entrata in vigore del Codice nel suo
testo originario.

Deve
inoltre segnalarsi che con la novella del 2006 il divieto di autorizzazione
postuma è stato spostato all’art. 146, comma 12 del Codice mentre l’art. 167 è
stato profondamente modificato, tramite l’inserimento al comma quattro di una
serie di fattispecie, rappresentati ipotesi di abuso minore, rispetto alle
quali sarebbe stato possibile ottenere la sanatoria dell’intervento abusivo.

Secondo
autorevole dottrina tali ipotesi avrebbero ricompreso la stragrande maggioranza
dei casi in relazione ai quali sarebbe stato plausibile accertare in concreto
la compatibilità paesaggistica postuma dell’opera [
19].
In altri termini, non si sarebbe più posto, se non in marginalissimi casi, il
problema dell’operatività del divieto in relazione a ipotesi in cui
l’autorizzazione postuma sarebbe stata in effetti concretamente rilasciabile.
La tesi, per quanto di autorevoli natali, risulta formulata in termini
piuttosto apodittici e non ha avuto seguito. In effetti sembra che a smentire
tali conclusioni intervengano già l’inesauribilità del contenzioso in materia e
il perdurante interesse della dottrina per il tema oggetto di questo lavoro.

Merita
infine chiarire che, in base a un’interpretazione rigorosa della normativa, per
ottenere il rilascio dell’autorizzazione postuma in presenza di un’ipotesi di
abuso minore ex art. 167, comma 4,
cit. era ed è tutt’ora necessario dimostrare la sanabilità dell’opera in
concreto [
20].

L’evoluzione
normativa in tema di autorizzazione postuma ha trovato il suo completamento con
la novella del 2008, di sostanziale riorganizzazione della disciplina.

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È
l’attuale art. 146, comma 4 del Codice a disporre che “fuori dai casi di cui
all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in
sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
All’art. 167, comma 4 sono invece elencate le ipotesi di abuso minore [21],
sanabili secondo la procedura descritta all’art. 167, comma 5.

La disciplina sostanziale
introdotta nel 2006 e riorganizzata nel 2008 si caratterizza quindi per la
rigida ripartizione tra le ipotesi eccezionali in cui è ammessa
l’autorizzazione postuma (art. 167, comma 4, cit.) e tutte le altre ipotesi di
abuso. Per quanto concerne le ipotesi eccezionali di sanabilità il Codice
subordina il rilascio dell’autorizzazione postuma all’accertamento della
compatibilità paesaggistica in concreto dell’opera e al pagamento di
un’indennità pecuniaria [
22] (quantificata come nel
precedente art. 164, legge n. 490 del 1999) mentre
in tutte le altre ipotesi l’amministrazione deve ordinare la riduzione in
pristino (art. 167, comma 1, d.lg. n. 42 del 2004)
sia in reazione a un abuso sostanziale che a un abuso formale [
23].

Rispetto all’attuale sistemazione
normativa deve invero rilevarsi come parte della dottrina, criticandone
l’eccessiva rigidità, ne abbia ipotizzato l’illegittimità costituzionale.

Sarebbe un fuor d’opera richiamare
per esteso tali tesi [
24] ma sembra quantomeno opportuno
segnalare come appaia maggiormente condivisibile la posizione di altra parte
della dottrina, la quale ritiene che le peculiarità della materia paesaggistica
giustifichino l’inusuale rigidità del disposto normativo, consentendo di
ricondurre l’opzione legislativa nell’ambito della ragionevolezza [
25].

Non per questo le istanze di
flessibilizzazione avanzate dalla dottrina più critica paiono meno fondate [
26] ed anzi sembra che la bontà del percorso argomentativo seguito in questo lavoro
emergerà anche dal più ampio accoglimento che assicura a tali istanze.

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1.3. All’introduzione
del divieto di autorizzazione postuma ha fatto seguito l’emersione di una serie
di questioni di regime, la più interessante e dibattuta delle quali concerne la
possibilità di farne applicazione retroattiva.

La
prima giurisprudenza amministrativa ad essersi occupata del problema l’ha
risolto in senso negativo [27].

Più in particolare, secondo un
primo orientamento del giudice amministrativo di primo grado, sarebbe stato
possibile accogliere la tesi dell’irretroattività del divieto sulla scorta del
semplice riferimento alla natura sostanziale della sopravvenienza normativa [
28].

Il Consiglio di Stato è
successivamente pervenuto alle medesime conclusioni spostando l’attenzione
sulla natura della normativa sostanziale introdotta, rilevando come il divieto
in esame debba essere collegato a un inasprimento del trattamento
sanzionatorio, rispetto al quale opera il principio di irretroattività [
29].
In tale occasione, tuttavia, il collegio non ha effettuato alcun riferimento ai
criteri Engel, rimarcando anzi la natura amministrativa della sanzione in
parola.

Il quadro giurisprudenziale è
mutato in senso opposto a partire dalla sentenza della sesta Sezione del Consiglio
di Stato, n. 5245 del 6 settembre 2018. Si tratta della “sentenza pilota” [
30] che ha fondato l’orientamento, consolidatissimo, seguito anche dalla più
recente giurisprudenza amministrativa [
31].

Il Consiglio di Stato, in tale
occasione, ha ritenuto di qualificare l’ordine di riduzione in pristino
conseguente al mancato rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma quale
di natura “ripristinatoria”, traendone la non applicabilità, sia all’ordine che
al divieto di autorizzazione in sanatoria, che ne è la scaturigine, del “regime
proprio delle sanzioni amministrative in senso stretto” e quindi del principio
di irretroattività.

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La successiva giurisprudenza del Consiglio
di Stato ha variamente argomentato nel segno della fondatezza della soluzione
proposta. In particolare, si è costantemente collegata l’operatività del
principio di retroattività alla natura di illecito permanente dell’abuso
edilizio, che è tale in quanto “si pone in perdurante contrasto con le norme
tese al governo del territorio e alla tutela del paesaggio, sino al momento in
cui non venga ripristinata la situazione preesistente” [32].

In questo senso, l’attività
provvedimentale volta alla riduzione in pristino è stata definita “di
amministrazione attiva”, essendo tesa a ripristinare la situazione di fatto,
sottraendola allo stato di illiceità permanente. Su queste basi si è
giustificata l’applicazione del principio del tempus regit actum, al
fine di consentire la “immediata applicabilità del regime più efficace ai fini
della realizzazione della tutela” [
33].

Talvolta il Consiglio di Stato ha
fatto ricorso ad argomenti che paiono già icto oculi di minor solidità,
ma che consentono di offrire un’ancor più compiuta contestualizzazione
all’oggetto di questo lavoro.

Si intende in particolare far
riferimento ad una recente pronunzia [
34] in cui il Collegio, affrontando la questione dell’applicazione retroattiva
dell’ordine di riduzione in pristino in obiter dictum, ha
apoditticamente affermato che eventuali considerazioni in merito
all’affidamento maturato dal privato non sarebbero state determinanti al fine
di individuare il regime dell’ordine amministrativo di riduzione in pristino.

Il Consiglio di Stato sembra aver
argomentato sulla scorta di un implicito riferimento al principio del “versari
in re illicita
”: l’affidamento sarebbe stato irrilevante in quanto avente
ad oggetto la sanatoria di una situazione di abuso [
35].

Ma in questo caso la questione
sembra presentare caratteri di maggior complessità: il principio di
affidamento, a ben vedere, si pone in contrasto col principio del tempus
regit actum
, quale usualmente trova applicazione in relazione al sindacato
di legittimità sui provvedimenti amministrativi, sicché a risolvere il
conflitto nel senso della prevalenza dell’uno o dell’altro dei principi
dovrebbero essere considerazioni ulteriori, che coinvolgono la corretta
individuazione della natura delle misure amministrative di reazione all’abuso
paesaggistico e dunque del regime giuridico loro applicabile. Col prosieguo di
questo contributo, che in tale analisi trova il suo scopo precipuo, si porterà
quindi a una soluzione sistematicamente corretta anche il problema del rapporto
tra tali principi.

In questo senso il procedere
argomentativo si presenta ribaltato rispetto a quello che pare essere stato
accolto dal Collegio nella richiamata pronunzia: sarà l’analisi del diritto
positivo a fare emergere quale sia l’effettivo bilanciamento tra i principi
previsto dal legislatore, non sarà l’apodittica affermazione della prevalenza o
della soccombenza di uno dei due principi a imporre una specifica
interpretazione della legge. Quindi, se al termine di questo lavoro si riterrà
possibile fare applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione in
sanatoria ciò vorrà dire che il principio ordinamentale prevalente, quale
emerge dal diritto positivo, sarà quello del tempus regit actum, risultando
soccombente il legittimo affidamento del privato. Se invece il divieto di
autorizzazione postuma non risulterà applicabile in via retroattiva sarà vero
il contrario.

2. Sanzioni amministrative e misure a carattere
ripristinatorio

2.1. Con questo
lavoro si intende affrontare due ordini di problemi esegetici.
Il primo, di carattere più
generale, attiene alla corretta qualificazione dell’ordine di riduzione in
pristino quale consegue al diniego di autorizzazione paesaggistica in
sanatoria. Si intende, cioè, stabilire se tale istituto debba essere ricondotto
al genus delle misure amministrative di carattere meramente
ripristinatorio, a quello delle sanzioni amministrative in senso stretto [
36] o, ancora, a quello delle misure sostanzialmente penali.

Dalla soluzione di questo primo
problema interpretativo derivano rilevanti conseguenze giuridiche, scaturenti
dal diverso atteggiarsi delle garanzie ordinamentali riconosciute al privato
che sia soggetto all’esercizio di un potere pubblico riconducibile ad una di
tali diverse categorie. In particolare, risulterà necessario determinare se
trovi applicazione il principio di irretroattività quale vige in materia di sanzioni
amministrative [
37] e (sostanzialmente) penali [38].
In altri termini, si dovrà comprendere se il divieto di autorizzazione
paesaggistica postuma risulti inapplicabile in senso retroattivo in conseguenza
della qualificazione quale misura di carattere sanzionatorio dell’ordine di
riduzione in pristino che segue alla sua applicazione.

Quest’ultima questione,
estremamente attuale, ha causato un acceso dibattito dottrinale, non privo di
aspetti di rilevante autonomia e ulteriore complessità rispetto a quello emerso
in relazione al quesito “pregiudiziale” anteriormente rappresentato.

2.2. Per una più
chiara enucleazione di tale primo problema esegetico sembra necessario
richiamare preliminarmente le categorie giuridiche cui si intende fare
riferimento, nonché i risultati dell’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale
che hanno maggiormente interessato la loro elaborazione e quella dei relativi
regimi giuridici.

In
questo senso, nell’ottica di comprendere a quale delle due famiglie di
provvedimenti possa appartenere l’ordine di riduzione in pristino, è opportuno
delineare in modo puntuale i concetti di sanzione amministrativa in senso
stretto e di misura amministrativa ripristinatoria.

In
dottrina si sono nel tempo affermate due distinte sistematiche della sanzione
amministrativa, le quali invero mantengono il proprio autonomo valore classificatorio.

La
prima “tipologia” è quella di tradizione zanobiniana [
39] in base alla quale la sanzione amministrativa “in senso stretto” deve essere
intesa come “pena in senso tecnico” [
40] e cioè quale istituto di funzione general e special preventiva che non può
essere “assimila[to] a strumenti principalmente diretti a conservare o a
ripristinare interessi sostanziali lesi dall’infrazione” [
41].
Sussisterebbe, cioè, una netta distinzione tra ciò che è sanzione
amministrativa e quindi anche pena, e ciò che non è qualificabile come tale, in
quanto ha carattere risarcitorio o ripristinatorio [
42].

La
sistematica alternativa invece prende le mosse dall’accoglimento di una nozione
di sanzione amministrativa di tipo “ampio”, definita dalla presenza di due
elementi: l’incidenza sfavorevole rispetto a un interesse del destinatario e la
relazione con la violazione di un precetto da parte del consociato [
43].
In quest’ottica le misure amministrative di carattere punitivo, ripristinatorio
e risarcitorio, vengono inquadrate all’interno della medesima famiglia, quella,
appunto, delle “sanzioni amministrative”.

Come
è stato autorevolmente evidenziato in dottrina il ricorso a questo secondo
modello tipologico non porta necessariamente a sminuire l’autonomia concettuale
di ciascuna delle sottocategorie di sanzioni appena elencate, autonomia che
anzi “ha ricevuto i maggiori riconoscimenti proprio nell’ambito
dell’orientamento in esame” [
44].

Entrambe
le sistematiche conservano dunque una propria dignità teorica.

Ciò
non toglie che paia più opportuno fare riferimento al concetto di sanzione
amministrativa intendendola “in senso stretto” e cioè come pena in senso
tecnico.

Tale
soluzione trova infatti un più solido fondamento di diritto positivo: come
sottolinea la più autorevole dottrina [
45],
l’ambito di applicazione della legge n. 689 del 1981 non comprende le misure di
carattere ripristinatorio bensì solo i provvedimenti sanzionatori in senso
stretto.

Inoltre,
prendendo le mosse da questa impostazione teorica, sembra che si possa
pervenire agevolmente all’individuazione di quei “caratteri” eventuali del
provvedimento amministrativo che, se presenti, ne determinano la natura
sanzionatoria in senso proprio sul piano del diritto interno.

2.3. È dunque
necessario sottolineare quali siano quegli elementi che accomunano e quelli che
consentono di distinguere le sanzioni amministrative in senso tecnico dalle
misure amministrative di carattere ripristinatorio.

Il
riferimento è innanzitutto al carattere dell’afflittività. Tra le misure
amministrative di carattere afflittivo [
46] si possono annoverare sia le misure di carattere sanzionatorio che quelle di
carattere risarcitorio/ripristinatorio, nonché le misure di carattere c.d.
preventivo [
47].Sono diversi i criteri che consentono di distinguere
tali diversi tipi di misura amministrativa.

Le
misure di carattere preventivo differiscono dalle misure sanzionatorie e
ripristinatorie in quanto le prime operano in un’ottica prospettica, mentre le
seconde in un’ottica retrospettiva, di reazione rispetto alla commissione di un
illecito [
48].

Le
sanzioni amministrative e le misure di carattere ripristinatorio, che sono
accumunate sia dalla natura afflittiva sia dalla loro funzione di reazione
all’illecito, sono invece tra di loro distinguibili sulle basi del differente
scopo perseguito dalla norma attributiva del potere [
49]. Le
sanzioni amministrative in senso tecnico operano quali pene [
50] e cioè gravano sul privato con funzione general e special preventiva [51],
di repressione dei comportamenti illeciti: hanno come scopo precipuo
l’identificazione e la punizione degli autori” [
52] dell’illecito.

Le
misure di carattere ripristinatorio, al contrario, operano per reintegrare il
bene giuridico offeso dalla violazione della legge, mirando “al mero ripristino
dello status quo ante rispetto alla commissione dell’illecito” [
53].
In ultima analisi dunque, merita ribadire, la distinzione tra sanzioni
amministrative e misure amministrative di carattere ripristinatorio può essere
operata solo per mezzo della corretta individuazione dello scopo perseguito
dalla norma attributiva del potere.

2.4. Come anticipato, dall’esatta
qualificazione del potere amministrativo esercitato dipende la corretta
individuazione delle garanzie ordinamentali riconosciute al privato soggetto al
suo esercizio.

Come
è chiaro il sistema delle garanzie maggiormente pregnanti è previsto per far
fronte all’esercizio del potere sanzionatorio e trova oggi dimora nella legge n.
689 del 1981. Ai nostri fini, in particolare, l’art. 1, legge 689 del 1981
prevede espressamente che i principi di legalità e irretroattività trovino
applicazione in materia di sanzioni amministrative: “nessuno può essere
assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima della commissione della violazione”.

Si
tratta quindi di comprendere se l’ordine di riduzione in pristino conseguente
al mancato rilascio dell’autorizzazione postuma sia qualificabile quale misura
ripristinatoria o quale misura sanzionatoria: nel primo caso si potrebbe
ritenere applicabile anche alle opere effettuate prima dell’entrata in vigore
del divieto [
54], nel secondo caso, in forza dell’art. 1, legge 689,
cit. ciò risulterebbe impossibile.

Poiché,
come si è detto, la natura sanzionatoria o meno di una misura amministrativa è
determinata dallo scopo perseguito dalla norma attributiva del potere, si
comprende perché risulti tanto complesso addivenire alla corretta
qualificazione dell’ordine di riduzione in pristino in materia paesaggistica: i
risultati di un’analisi al riguardo risultano in ampia parte determinati dalla
non facile esegesi della disciplina dell’autorizzazione paesaggistica postuma.

3. Un combinato disposto “a formulazione sintetica”?

3.1. In dottrina
l’ordine di riduzione in pristino viene usualmente qualificato quale “misura di
esecuzione”: in quanto tale rientrerebbe nel genus delle misure
amministrative di carattere senz’altro ripristinatorio [
55].

Come
si è anticipato, la più recente giurisprudenza amministrativa aderisce senza
riserve a tale ricostruzione, argomentando variamente nel segno della sua
fondatezza (cfr. § 1.3).

A
questo proposito è particolarmente interessante il riferimento operato in
giurisprudenza alla disciplina dell’abuso edilizio “puro”: il Consiglio di
Stato ha talvolta richiamato la natura permanente dell’abuso edilizio per
sostenere, tramite un parallelismo, la funzione eminentemente ripristinatoria
dell’ordine di riduzione in pristino anche quando venga emanato in relazione a
ipotesi di abusivismo paesaggistico [
56].

Deve
peraltro rilevarsi come l’autorevole dottrina richiamata a inizio paragrafo
riconosca correttamente la natura che usualmente riveste l’ordine di riduzione
in pristino. Ma le statuizioni di ordine generale non sempre rimangono
condivisibili ad una più attenta analisi, che prenda in considerazione le
specificità di talune ipotesi. Per questa ragione talune generalizzazioni,
accettabili in dottrina [
57], sembrano aver condotto la
consolidata giurisprudenza amministrativa a incappare in significativi errori
esegetici.

3.2. Per poter
chiarire in che cosa consista l’errore giurisprudenziale sembra innanzitutto
opportuno individuare quegli elementi di peculiarità che connotano il divieto
di autorizzazione paesaggistica in sanatoria e il regime giuridico connesso.

Dal quadro normativo
precedentemente disegnato (cfr. § 1) emerge come il divieto di autorizzazione
postuma di cui all’art. 146, comma 4, cit. operi indistintamente sia in
presenza di un pregiudizio attuale al bene paesaggio sia nelle ipotesi in cui
tale pregiudizio è assente. Quindi l’applicazione del divieto “fossilizza” la
situazione di abuso, rendendolo insanabile, e impedendo contestualmente di
qualificarlo quale abuso “sostanziale” piuttosto che “formale” [
58].
L’art. 167, comma 1, cit. sembrerebbe poi prevedere, nella sua portata
letterale, il potere/dovere dell’amministrazione di ordinare la riduzione in
pristino in entrambi i casi.

Quanto interessa in questa sede
segnalare è che la normativa di repressione dell’abuso paesaggistico appena
richiamata presenta caratteri di evidente specificità e difformità rispetto
alla disciplina generale di repressione dell’abusivismo edilizio.

In materia edilizia la misura
ripristinatoria viene da sempre applicata solo in relazione a ipotesi di abuso
sostanziale, essendo possibile sanare le ipotesi di abusivismo formale tramite
l’accertamento di conformità [
59].

Proprio ciò sembra giustificare la
qualificazione dei poteri pubblici diretti alla demolizione dell’abuso edilizio
come di carattere prevalentemente ripristinatorio [
60]. La misura
amministrativa risulta infatti funzionale alla rimozione di un intervento
abusivo che causa un concreto, attuale
e perdurante (appunto, permanente) pregiudizio ai pubblici interessi tutelati
dalla disciplina paesaggistica, urbanistica ed edilizia.

Ma allora, essendo che la riduzione
in pristino ex 167, comma 1, cit. è
applicabile anche alle ipotesi di abusivismo formale [
61],
se ne deve escludere l’affinità rispetto alle misure amministrative di reazione
all’abusivismo edilizio, generalmente pensate per rapportarsi a ipotesi di
abusivismo sostanziale [
62].

È proprio questa differenza
strutturale tra l’ordine di riduzione in pristino “edilizio” e “paesaggistico”
che permette in prima istanza di dubitare della natura propriamente
ripristinatoria di quest’ultimo.

La soluzione sembra invero
confortata dalle innumerevoli occasioni in cui in dottrina si è più [
63] o meno [64] consapevolmente ammessa la natura sostanzialmente deterrente e lo scopo general
e special preventivo dell’ordine in parola, e da quelle in cui parte della
giurisprudenza ha fatto altrettanto, salvo poi non trarne le dovute conclusioni [
65].
Per queste ragioni sembra difficilmente dubitabile che l’ordine di riduzione in
pristino conseguente al diniego dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria
abbia natura di sanzione amministrativa in senso stretto.

3.3. Ma questo
primo approdo esegetico merita qualche ulteriore puntualizzazione, derivante
dal fatto che l’ordine di riduzione in pristino può essere adottato a fronte di
ipotesi di abusivismo non solo formale, ma anche sostanziale.

L’ordine in parola infatti verrebbe
ad avere un connotato pienamente e nitidamente sanzionatorio solo se venisse
adottato esclusivamente per reagire all’abusivismo formale. Il fatto che invece
venga adottato per far fronte sia a ipotesi di abusivismo formale che
sostanziale induce a ritenere che la disciplina di cui all’art. 146, comma 4 e
167, commi 1, 2 e 5, cit. risulti più articolata di quanto non appaia icto oculi.

Tale normativa sembra prevedere una
sola misura di reazione ordinamentale, l’ordine di riduzione in pristino, a cui
sono però riconducibili due distinte vesti giuridiche. In altri termini, si
potrebbe trattare di un combinato disposto “a formulazione sintetica” da cui
emergono due diverse fattispecie normative: una di carattere (prevalentemente)
ripristinatorio, ideata per far fronte alle ipotesi di abusivismo c.d.
sostanziale, e una di carattere sanzionatorio, che trova attuazione a fronte di
un abuso c.d. formale [
66].

Da quanto
si è argomentato infatti emerge come il regime del divieto di autorizzazione
postuma sia volto a tutelare il bene paesaggio non solo in via diretta ma anche
indirettamente, reprimendo una più vasta gamma di comportamenti illeciti, non
necessariamente connessi a un vulnus attuale al bene paesaggio.

La soluzione esegetica prospettata
sembra dunque essere la più rispettosa del tenore letterale della legge, in
quanto consente di dare pieno riconoscimento ai diversi scopi espressi dalla
norma attributiva del potere, ricavando la corretta qualificazione giuridica
dell’istituto preposto dall’ordinamento al loro perseguimento.

4. La non applicabilità retroattiva
del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria

4.1. Sembra ora
possibile trarre le conseguenze di regime che discendono dal ragionamento sin
qui svolto, offrendo una prima soluzione al secondo dei problemi esegetici
oggetto di questo lavoro (cfr. 2.1), si intende cioè comprendere se sia
possibile fare applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione
paesaggistica postuma.

Pare
opportuno premettere alcune considerazioni in merito alla stretta connessione
che intercorre tra il mancato rilascio dell’autorizzazione postuma e l’ordine
di riduzione in pristino.

Deve
in particolare rilevarsi come il divieto di autorizzazione in sanatoria, che è
ad oggi biunivocamente connesso al diniego dell’autorizzazione postuma (salvo
per quanto concerne i casi marginali di cui all’art. 167, comma 4, cit. [
67]),
risulta pure biunivocamente connesso all’adozione dell’ordine di riduzione in
pristino che consegue a tale diniego.

È
vero infatti che con l’introduzione del divieto di autorizzazione postuma
l’innovazione normativa ha riguardato la sola impossibilità di procedere alla “sanatoria”
delle ipotesi di abusivismo formale (in quanto gli abusi sostanziali non sono
mai stati “sanabili”), ma tale innovazione di regime ha comportato pure che,
sul piano pratico, l’amministrazione non sia più tenuta ad accertare
l’effettiva consistenza dell’abuso al fine di optare per il diniego
dell’autorizzazione postuma. Quindi è corretto affermare che ad oggi
l’amministrazione può adottare il provvedimento di diniego sulla scorta del
semplice riferimento al divieto di autorizzazione postuma, senza dover indagare
la concreta lesività dell’intervento, sicché il diniego può essere motivato con
esclusivo riferimento alla sussistenza del divieto e l’ordine di riduzione in
pristino può essere motivato tramite l’esclusivo riferimento all’intervenuto
diniego.

Proprio
il rapporto di strettissima correlazione che si è appena delineato sembra
rendere possibile la determinazione dell’ambito di applicazione temporale del
divieto di autorizzazione postuma avendo riguardo all’ambito di applicazione
temporale dell’ordine di riduzione in pristino, che ne è conseguenza indiretta
ma necessaria. In altri termini, si dovrebbe ritenere possibile applicare in
via retroattiva il divieto di autorizzazione postuma solo qualora l’ordine di
riduzione in pristino, di cui è la certa scaturigine, risultasse applicabile
retroattivamente.

Deve
peraltro segnalarsi come di recente il Consiglio di Stato, con la sent. n. 1573
del 2024, abbia invece tentato di risolvere la questione relativa
all’applicazione del divieto di autorizzazione in sanatoria “a monte”,
prescindendo da qualsivoglia considerazione intorno alla natura delle misure
amministrative di reazione all’abuso connesso al suo mancato rilascio.

Prima di entrare nel merito della
questione si deve tuttavia puntualizzare che il Collegio, argomentando in tal
senso, non ha direttamente optato per la retroattività del divieto di
autorizzazione postuma (ciò che invece ha fatto in obiter dictum), ma
l’ha surrettiziamente ammessa per tramite del rigetto dei motivi di gravame
sollevati da parte appellante. Nondimeno, l’effetto della decisione sul punto è
stato quello di riconoscere la retroattività del divieto di autorizzazione
postuma sulla scorta del mero riferimento alla disciplina sostanziale che lo
impone.

Una motivazione un poco più
esaustiva sarebbe stata quantomai opportuna, se non altro alla luce della
risalente giurisprudenza in materia di applicazione retroattiva del divieto in
parola che, sempre tentando di risolvere la questione “a monte”, giunse a
conclusioni di segno opposto. Così il Tar Emilia Romagna nel 2016: “considerato
che, prima dell’entrata in vigore del Codice, non si dubitava del potere dell’Amministrazione
di rilasciare ex post l’autorizzazione
paesaggistica, essendo stato il relativo divieto imposto solo con il predetto
provvedimento normativo, gli abusi commessi prima dell’operatività del suddetto
divieto si ritiene debbano essere definiti avendo riguardo alla disciplina
applicabile ratione temporis, la quale ammetteva la possibilità di
valutare la compatibilità paesaggistica dell’intervento, anche ex post [
68].

Più in generale, si è già
dimostrato in questo paragrafo perché non sembri convincente l’idea per cui il
ragionamento intorno alla retroattività del divieto di autorizzazione postuma
possa affrancarsi da considerazioni intorno alla natura delle misure
amministrative di reazione all’abuso conseguente al suo mancato rilascio. Un’opinione
questa che sembra essere confortata proprio dalla recente e consolidata
giurisprudenza amministrativa [
69] che, discostandosi dalle isolate e risalenti pronunzie testé richiamate, nonché
dall’isolato orientamento espresso dalla recentissima sentenza del Consiglio di
Stato n. 1573 del 2024, non ha mai scisso le proprie considerazioni intorno
alla retroattività del divieto da quelle intorno alla natura delle misure
amministrative conseguenti all’accertamento dell’abuso paesaggistico [
70].

Invero anche i principi generali in
materia di rimozione degli abusi edilizi sembrerebbero suggerire la medesima
soluzione: se è pacifico che la rimozione dell’abuso edilizio è per
l’amministrazione doverosa [
71] ciò significa che già impugnando il solo provvedimento di diniego
dell’autorizzazione postuma il privato impugnerebbe un “atto presupposto”
strettamente connesso al successivo (e teoricamente inevitabile) ordine di
demolizione. Se ne dovrebbe trarre l’attualità dell’interesse a dolersi delle
conseguenze nefaste che il diniego di autorizzazione postuma produce
immediatamente nella propria sfera giuridica, essendo causa della futura,
inevitabile, demolizione: una decisione del giudice al riguardo sembrerebbe
corrispondere a un sindacato esaustivo in ordine al già esercitato potere di
diniego dell’autorizzazione, che non sconfina nel sindacato su di un potere
amministrativo non ancora esercitato [
72].

Si
deve peraltro ricordare come in passato già fosse emerso un orientamento
giurisprudenziale che riteneva possibile scindere il discorso intorno alla
sanatoria dell’abuso da quello relativo alle sanzioni previste per l’illecito
commesso [
73]. Si tratta dell’orientamento già richiamato secondo
cui, nel periodo intercorso tra l’approvazione del Codice e l’entrata in vigore
del correttivo del 2006, sarebbe stato possibile irrogare la sanzione
pecuniaria in alternativa alla riduzione in pristino, senza però rimuovere
l’illiceità dell’intervento.

Il
principio sotteso a tale soluzione, già definita da parte della dottrina “fin
troppo sofisticata” [
74], appare di ancor più difficile
e artificiosa applicazione al contesto attuale e cioè in relazione
all’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica
postuma.

Per
tutte queste ragioni sembra agevole discostarsi dal recente, isolato
orientamento espresso dal Consiglio di Stato nella pronunzia appena analizzata,
e pare invece necessario ribadire il principio per cui la strettissima
connessione che intercorre tra il divieto di autorizzazione in sanatoria e
l’ordine di riduzione in pristino consente di discorrere del loro regime
amministrativo in via unitaria.

Ma
allora, se è vero quanto si è argomentato nel paragrafo precedente (cfr. § 3), si
deve concludere che il divieto di autorizzazione in sanatoria non possa trovare
applicazione retroattiva quando l’ordine di riduzione in pristino viene emanato
a fronte di ipotesi di mero abusivismo formale, in quanto in tali ipotesi
l’ordine assume natura di sanzione in senso stretto.

4.2. Deve
peraltro puntualizzarsi che il problema dell’applicazione retroattiva del
divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria viene a riguardare proprio
e soltanto le ipotesi di abusivismo formale. È infatti chiaro che a fronte di
un abuso sostanziale non sarebbe possibile procedere alla sanatoria,
indipendentemente dalla sussistenza del divieto. Per cui, per quello che
concerne gli interventi sostanzialmente abusivi anteriori all’entrata in vigore
del divieto, si dovrebbe predicare comunque la necessità di procedere con l’ordine
di riduzione in pristino.

A
questo proposito è opportuno evidenziare come l’intrinseca insanabilità degli
abusi sostanziali discenda direttamente dalla reale natura della “sanatoria” di
cui si tratta, che consta nel rilascio postumo di un’autorizzazione: alla
mancanza dei presupposti previsti dalla legge non può che far seguito un
diniego, sicché l’intervento, illecito, non potrà mai dirsi “sanato” (recte “autorizzato in via postuma”).

Quindi
certamente si deve ammettere che il principio di applicazione retroattiva delle
misure amministrative di carattere ripristinatorio, pacificamente riconosciuto
in giurisprudenza e dottrina, troverebbe applicazione soltanto quando l’ordine
di riduzione in pristino rientra effettivamente in tale genus e cioè con solo riguardo ai casi in cui l’ordine viene
adottato a fronte di un abuso paesaggistico sostanziale, ma queste ultime
considerazioni, alla luce della intrinseca “insanabilità” degli abusi sostanziali,
risultano, per le ragioni anzidette, superflue.

Un’ulteriore
puntualizzazione deve riguardare la già richiamata inutilità della distinzione
tra abusi formali o sostanziali ai fini della riduzione in pristino (sempre che
l’abuso non sia riconducibile al novero di cui all’art. 167, comma 4, cit.).

Merita
chiarire infatti che, malgrado l’amministrazione possa non procedere
all’accertamento dell’effettiva consistenza abusiva dell’intervento (in quanto
ciò risulterebbe inutile, stante la necessità di procedere in ogni caso alla
riduzione in pristino ex art. 167, comma 1, cit.), quest’ultimo è sempre
astrattamente qualificabile come sostanzialmente o formalmente abusivo. Quindi
resta fermo il fatto che l’introduzione del divieto di autorizzazione postuma
ha modificato la sorte giuridica delle sole opere che sarebbero astrattamente
qualificabili come formalmente abusive, mentre per quello che concerne le opere
sostanzialmente abusive nulla è cambiato in merito alla necessità di provvedere
con la riduzione in pristino.

Ricapitolando
quindi, si deve ritenere che quando l’ordine di riduzione in pristino incide su
una situazione di abuso formale debba essere qualificato quale sanzione
amministrativa in senso tecnico, trovando dunque applicazione il principio di
irretroattività di cui all’art. 1, legge n. 689 del 1981. Ciò impedisce di
predicare l’efficacia retroattiva anche del divieto di autorizzazione in
sanatoria (la cui introduzione ha modificato il solo regime amministrativo di
reazione all’abusivismo formale), che dell’ordine di riduzione in pristino,
come si è visto, è l’effettiva scaturigine.

4.3. Sembra opportuno
accennare brevemente anche alle conseguenze procedimentali di questa
ricostruzione.

Infatti,
per gli interventi effettuati prima del 24 marzo 2006, sembra si dovrebbe
consentire l’attivazione del procedimento di cui all’art. 167, comma 5, cit. al
fine di verificare la concreta consistenza dell’abuso (per verificare, cioè, se
si tratti di abuso sostanziale o formale) e ciò sebbene ci si trovi all’infuori
delle ipotesi di cui all’art. 167, comma 4, cit.

Infatti,
da quanto argomentato nel corso di questo paragrafo, si ricava la necessità,
per quanto concerne gli abusi anteriori all’entrata in vigore del correttivo
del 2006, di determinarne l’effettiva natura, al fine di comprendere se l’opera
debba essere demolita, in quanto sostanzialmente abusiva, o possa essere
sanata, in quanto il divieto di autorizzazione postuma degli abusi formali non
può trovare applicazione retroattiva.

Stante
la mancata previsione di un procedimento ad hoc sembra ragionevole
avvalersi, in via di analogia legis, del procedimento descritto dal
legislatore, col medesimo scopo (ma in relazione alle sole ipotesi di cui
all’art. 167, comma 4, cit.), all’art. 167, comma 5 del Codice.

Dunque
se all’esito di tale procedimento venisse accertata la sussistenza di un abuso
sostanziale si dovrebbe ritenere senz’altro praticabile la riduzione in
pristino in quanto l’opera sarebbe intrinsecamente insanabile (il che peraltro esclude
alla radice l’operatività del divieto di sanatoria). Al contrario, nel caso cui
venisse accertata la sussistenza di un mero abuso formale, non si potrebbe fare
applicazione della più rigorosa disciplina sanzionatoria ad oggi in vigore,
dovendosi ritenere ammissibile la sanatoria dell’abuso a fronte del pagamento
di una sanzione pecuniaria [
75].

4.4. Una volta
chiarito quale sia il percorso esegetico più persuasivo al fine di ricostruire
il regime del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria si può
accennare alla possibilità di delinearne uno alternativo, che potrebbe essere
visto con favore alla luce di talune critiche operate in dottrina in merito
alla possibilità stessa di utilizzare l’ordine di riduzione in pristino in
reazione ad ipotesi di mero abusivismo formale [
76].

Deve
peraltro segnalarsi che la giurisprudenza amministrativa di primo grado ha in
passato manifestato un orientamento minoritario affine a tali istanze: il
giudice amministrativo ha ritenuto che ove “non sussista alcun danno
ambientale, o addirittura sia possibile ottenere un guadagno ambientale con
l’assunzione da parte del trasgressore di specifiche obbligazioni
nell’interesse del vincolo paesistico, non vi sono ragioni per escludere
un’autorizzazione paesistica rilasciata in via successiva” [
77].
Quest’ultima tesi giurisprudenziale, sicuramente affascinante, risulta
difficilmente condivisibile a causa dell’evidente contrasto col tenore
letterale della legge [
78].

Invero, se si volesse ammettere la
correttezza della premessa [
79] per cui l’ordine di riduzione in pristino sarebbe misura prevista dal
legislatore per reagire alle sole ipotesi di insanabilità corrispondenti a
situazioni di abusivismo sostanziale, si dovrebbe conseguentemente riconoscere
la sussistenza di una lacuna legislativa per quanto concerne la disciplina
sanzionatoria prevista per far fronte alle ipotesi di abusivismo “formale
maggiore” (cioè riguardante la realizzazione non autorizzata di un intervento
estraneo al novero di cui all’art. 167, comma 4, cit.) [
80].
Tali ultimi interventi risulterebbero insanabili, in quanto non rientranti tra
le ipotesi di cui all’art. 167, comma 4, cit. ma non sarebbero sanzionabili
tramite la riduzione in pristino, come da premessa.

Né sembra plausibile prospettare
l’applicazione in via analogica alle ipotesi di “abusivismo formale maggiore”
della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 167, comma 5, cit., in
quanto si tratterebbe di applicazione analogica in malam partem [
81].

Dal quadro così delineato
deriverebbe una situazione in cui le ipotesi di abuso “maggiore formale”
risulterebbero insanabili, ma anche non sanzionabili [
82] mentre gli abusi “minori formali” sarebbero sanabili ma dietro pagamento di
sanzione pecuniaria. Il percorso esegetico, già estremamente artificioso,
condurrebbe a risultati di pura irrazionalità giuridica sicché deve ritenersi
senz’altro impraticabile in base al criterio dell’interpretazione
costituzionalmente conforme.

4.5. L’analisi
del problema giuridico non può però ritenersi esaurita senza prima aver preso
in considerazione alcune pregnanti opposizioni in passato avanzate da
autorevole dottrina rispetto alla possibilità di ammettere l’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria.

L’opzione
interpretativa proposta (cfr. § 4.1 e 4.2) aprirebbe la porta a un ampliamento
delle ipotesi di abuso sanabili, per mezzo di un’applicazione estensiva del
principio di irretroattività al divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

Per
queste ragioni è necessario superare le opposizioni di principio che potrebbero
essere sollevate avverso tale risultato ermeneutico.

È
noto in particolare come il Carpentieri [
83],
in vista dell’adozione del Codice e con il chiaro intento di stimolare un
intervento legislativo sul punto, abbia inteso criticare aspramente quello che
era il consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato nel
senso dell’ammissibilità dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria. L’Autore
riteneva infatti che i sofisticati argomenti giurisprudenziali che sostenevano
tale risultato esegetico mirassero a celare la sostanziale applicazione
analogica alla materia paesaggistica dell’accertamento di conformità previsto
in materia edilizia. Un risultato interpretativo questo, nell’opinione dell’A.,
aberrante: le radicali differenze intercorrenti tra le due discipline ne
avrebbero impedito qualsiasi forma di assimilazione.

In
particolare, mentre l’accertamento di conformità viene rilasciato al termine di
una valutazione di carattere vincolato, il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica avrebbe presupposto una valutazione di carattere discrezionale.
Il punto sarebbe stato cruciale, in quanto “il differimento del controllo
autorizzatorio ex post ha una sua comprensibile giustificazione solo
allorquando – come avviene per l’accertamento di conformità nell’edilizia –
tale controllo si riduca a un riscontro interamente vincolato di conformità del
progetto alle determinazioni dettagliate e autoesecutive del piano urbanistico.
Ma non ha alcun senso allorché – come invece accade per la materia
paesaggistica – la pianificazione (il piano paesaggistico) non ha – di regola –
i contenuti di dettaglio ed esecutivi propri dello strumento urbanistico e il
controllo si caratterizza dunque per l’ampia discrezionalità della scelta
amministrativa” [
84].

Ma
già l’A. ammetteva che “naturalmente questo discorso potrà cambiare (e dovrà
essere aggiornato) se e quando dovesse andare a regime e ricevere effettiva
applicazione il nuovo modello prefigurato nel nuovo codice dei beni culturali e
del paesaggio, modello che si basa su piani ricchi di contenuti prescrittivi
includenti vincoli ‘vestiti’, cioè capaci di regolare in modo puntuale l’uso
compatibile del territorio” [
85].

Ad
oggi appunto si ha buon gioco nell’argomentare che il “discorso” del
Carpentieri possa ritenersi in buona parte superato, stante il sempre più
valorizzato predominio della componente tecnica sulla componente di valutazione
discrezionale [
86] nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica.

In
questo senso di recente si è riconosciuto come “quella dell’autorizzazione
risulta essere una valutazione finalizzata a garantire una ponderazione
adeguata di tutte le circostanze rilevanti di natura tecnico-fattuale, le quali
qualificano la decisione finale dell’amministrazione non tanto come un giudizio
“soggettivo-assertivo”, ma propriamente come una reale valutazione “tecnico-discrezionale”
ancorata a parametri obiettivi e verificabili” [
87].

Il
superamento dei propri stessi argomenti, che lo stesso Carpentieri prefigurava,
sembra oggi sempre più solidamente argomentabile [
88].
Deve peraltro ricordarsi come la tesi dell’A. fosse ben nota al giudice
amministrativo, il quale pure ritenne di pervenire a diverse conclusioni
argomentative, peraltro accolte con favore da altra parte della dottrina [
89].
Deve quindi concludersi che nulla osti, sul piano dei principi,
all’applicazione estensiva del principio di irretroattività e dunque all’ampliamento
delle ipotesi suscettibili di sanatoria.

Del
Carpentieri deve invece ispirare il metodo e cioè l’attenzione alla puntuale
individuazione delle differenze sostanziali che intercorrono tra la disciplina
di contrasto all’abusivismo paesaggistico e urbanistico/edilizio, proprio
quanto ha condotto a ritenere che l’ordine di riduzione in pristino in materia
paesaggistica possa presentare natura sanzionatoria, ciò che invece non sembra
predicabile in materia urbanistico-edilizia (cfr. § 3.2).

5. Ordine di riduzione in pristino e
sanzioni sostanzialmente penali

5.1. Sin qui, al fine di determinare
quale sia il regime applicabile all’ordine di riduzione in pristino conseguente
al diniego di autorizzazione paesaggistica postuma, abbiamo cercato di operare
la più corretta qualificazione della misura sul piano del puro ordinamento
interno.

Non sfugge tuttavia che in materia
di sanzioni amministrative e misure ripristinatorie importanti principi e
regole sono stati enucleati anche dalla Corte di Strasburgo nell’elaborazione
della sua propria e autonoma [
90] nozione di sanzione sostanzialmente penale [91].

Tale nozione è strumentale a
consentire l’estensione delle garanzie riconosciute in materia penalistica
anche a fronte dell’applicazione di misure e sanzioni formalmente non
qualificate come penali [
92]. Per quanto di nostro
interesse, in particolare, il discorso coinvolge l’applicazione del principio
di irretroattività.

5.2. È in base ai c.d. criteri Engel
che, secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU sull’interpretazione
dell’art. 7 della Convenzione [
93], una misura può essere qualificata
quale sostanzialmente penale. Tali criteri sono: la qualificazione giuridica
della misura, la natura della misura e il grado di severità della sanzione [
94].
I criteri, come è noto, trovano applicazione in via alternativa, non solo
cumulativa.

Per evidenti ragioni ai fini della
presente trattazione rivestono particolare interesse il secondo e il terzo dei
criteri Engel, in quanto consentono, prescindendo dalla qualificazione formale
della misura/sanzione, di riconoscerne la natura sostanzialmente penale. Sembra
invero che l’ordine di riduzione in pristino, per come si atteggia in relazione
alle ipotesi di abusivismo paesaggistico, risponda per certi profili ad
entrambi [
95].

Il criterio della natura della
misura si riferisce, in particolare, alla sua funzione: allo scopo
repressivo/preventivo del provvedimento corrisponderebbe la natura penalistica
dello stesso, mentre uno scopo risarcitorio/ripristinatorio consentirebbe di
ritenere altrimenti [
96].

Abbiamo già avuto occasione di
evidenziare come l’ordine di riduzione in pristino sembri presentare senz’altro
una prevalente funzione general e special preventiva, quantomeno nelle ipotesi
in cui viene adottato in reazione a un mero abuso formale.

Già sol per questo, a rigore, si
dovrebbe ritenere che in tali casi l’ordine di riduzione in pristino venga ad
assumere natura sostanzialmente penale, risultando con ciò impossibile la sua
applicazione retroattiva. Il divieto di autorizzazione paesaggistica in
sanatoria, per le ragioni precedentemente esposte (cfr. § 4.), seguirebbe la
medesima sorte. Ancora più interessante l’applicazione del terzo dei c.d. Engel
criteria
, quello della severità della sanzione. In questo caso sembra che
il criterio venga soddisfatto non solo con riferimento alle ipotesi di ordine
di riduzione conseguente a un abuso formale, ma anche a un abuso sostanziale.
La portata afflittiva della misura amministrativa sembra in entrambi i casi
sufficiente a consentire di qualificarla come di natura sostanzialmente penale.

Come è stato correttamente
affermato in dottrina “la misura ripristinatoria soggiace alla regola aurea
della proporzionalità, e, se la sorpassa, trasmodando in sanzioni afflittive,
non è tanto illegittima o indebita (…) quanto resta per ciò stesso vincolata
ai relativi principi, e alle “garanzie minime”, prima tra queste
l’irretroattività. La cui violazione ne comporta l’illegittimità” [
97].

La statuizione richiede qualche
ulteriore precisazione. In precedenza si è infatti rimarcato come
l’afflittività non possa essere ritenuta un valido criterio per distinguere,
sul piano del diritto interno, le misure ripristinatorie dalle sanzioni
amministrative in senso tecnico [
98] (cfr. § 2.3).

Ma tale criterio, al contrario,
opera come fondamentale strumento di discernimento in base ai principi Cedu: la
categoria delle sanzioni sostanzialmente penali, elaborata dalla Corte di
Strasburgo, opera in senso trasversale rispetto alla tipologia internistica
fondante sulla distinzione tra sanzioni amministrative in senso tecnico e
misure amministrative ripristinatorie.

In altri termini, si deve ritenere
che anche quelle misure amministrative che mancano di una funzione
repressiva/preventiva e che quindi non sono correttamente qualificabili quali
sanzioni amministrative in senso tecnico, possano comunque rientrare nel novero
delle sanzioni sostanzialmente penali nei termini e per i fini ricavabili dalla
giurisprudenza Cedu.

Deve oggi ritenersi pacifico che “secondo
una regola già esplicitata nel caso Engel (…) e in seguito sempre ripetuta e
quindi ormai indubbiamente radicata, una misura (che faccia seguito alla
commissione di un illecito) deve dirsi penale ove anche presenti un contenuto e
delle finalità non punitive in senso stretto, ma, ad esempio ripristinatorie e
di cura in concreto dell’interesse pubblico. Ciò purché si caratterizzi – quale
presupposto in sé sufficiente di riconduzione alla sfera del penale – per una
significativa gravità di stampo penalistico” [
99].

Per queste ragioni, ribadiamo, si
dovrebbe ritenere che l’ordine di riduzione in pristino debba essere
qualificato quale misura sostanzialmente penale anche quando abbia carattere
ripristinatorio e cioè quando viene adottato per reagire a un abuso
sostanziale.

Quanto sin qui si è sostenuto in
merito all’applicazione del criterio della “gravità” consente di rispondere al
primo dei quesiti oggetto dell’analisi che stiamo conducendo: ci si è chiesti, in primis, quale sia la natura
dell’ordine di riduzione in pristino conseguente al diniego dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria. In questo senso si è dimostrato come, alla luce
della giurisprudenza Cedu, l’ordine in parola andrebbe sempre considerato
misura amministrativa sostanzialmente penale, indipendentemente dal fatto che
venga adottato per reagire a ipotesi di abusivismo formale o sostanziale.

Quanto preme in questa sede
specificare è invece la limitata significatività che tali conclusioni rivestono
nell’ottica di rispondere al secondo quesito in trattazione e cioè quello
riguardante l’applicazione retroattiva del divieto di autorizzazione
paesaggistica in sanatoria. Infatti, come si è già evidenziato (cfr. § 4.2), il
divieto di autorizzazione postuma modifica il regime amministrativo di reazione
al solo abusivismo formale, poiché per quanto concerne l’abusivismo
sostanziale, ora come allora, risulta impossibile provvedere con la “sanatoria”
e di contro è necessario addivenire alla riduzione in pristino.

Non presentandosi una mutazione di
regime per quanto concerne la repressione dell’abusivismo sostanziale, non si
pone nemmeno il problema dell’applicazione retroattiva del divieto di
autorizzazione postuma e del correlato ordine di riduzione in pristino. Dunque,
l’ordine di riduzione in pristino conseguente al diniego di autorizzazione in
sanatoria riveste sempre natura sostanzialmente penale, ma ciò incide solo
sull’ambito di applicazione temporale del regime amministrativo di reazione
all’abusivismo formale.

Per quanto riguarda tali ipotesi,
infatti, la stretta connessione che intercorre tra la sopravvenuta introduzione
del divieto e l’adozione dell’ordine di riduzione in pristino (cfr. 4.2) consente
di predicare la non applicabilità retroattiva di entrambi, garantendo al
contrario la sopravvivenza del regime sanzionatorio più mite previgente.

5.3. Il tema è stato affrontato anche
dal giudice amministrativo: la granitica giurisprudenza del Consiglio di Stato,
a partire dalla sentenza pilota della Sezione VI, n. 5245 del 2018, richiamata
anche nelle pronunzie più recenti [
100], accoglie una soluzione di segno
opposto rispetto a quella appena rappresentata. In tale occasione il Consiglio
di Stato non ha riscontrato la sussistenza di alcuno dei tre criteri Engel.

In
relazione al primo criterio, quello della qualificazione formale, nulla
quaestio
.

Per
quanto riguarda il secondo indice invece, la natura della sanzione alla luce
della sua funzione punitiva/deterrente, il Collegio ha ritenuto che lo scopo
dell’ordine di riduzione in pristino fosse “nelle intenzioni del legislatore
esclusivamente quello di tutelare la pubblica funzione” ricordando come “occupandosi
di sanzioni amministrative, la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo
ha escluso che si configurino come “penali”, nel significato convenzionale del
termine, quelle misure che soddisfano generiche pretese risarcitorie o che sono
essenzialmente dirette a ripristinare la situazione di legalità restaurando
l’interesse pubblico leso”.

Nemmeno
il terzo indice, che valorizza la gravità del sacrificio imposto, avrebbe poi
trovato riscontro nel caso concreto, in quanto la controversia concerneva la “demolizione
di una porzione assai limitata dell’immobile preesistente”, sicché appariva
assente quel connotato di “speciale” gravità, necessario affinché l’ordine di
riduzione in pristino risultasse assimilabile, sul piano dell’afflittività, a
una sanzione penale.

La
posizione del Collegio sembra prestare il fianco a non poche osservazioni
critiche. Per quanto concerne l’applicazione del secondo dei criteri Engel deve
innanzitutto rilevarsi la non condivisibilità della statuizione del Collegio
per cui l’ordine di riduzione in pristino sarebbe misura di scopo eminentemente
ripristinatorio, in quanto funzionalizzata alla mera “restaurazione”
dell’interesse pubblico particolare tutelato dall’amministrazione.

A
questo proposito si è già ampiamente argomentato come, quantomeno in relazione
ai casi in cui l’ordine di riduzione in pristino viene adottato a fronte di
ipotesi di mero abusivismo formale, se ne debba riconoscere la funzione
esclusivamente repressiva/preventiva. Di ciò il giudice amministrativo sembra
non avvedersi.

Sotto
altro profilo la pronunzia, esponendosi in modo così tranchant sul
punto, sembra quasi alludere al fatto che la natura ripristinatoria della
misura sia in grado, in linea generale, di escluderne la natura sostanzialmente
penale, ciò che, come si è già avuto occasione di rilevare (cfr. § 5.2), è
negato dalla costante giurisprudenza Cedu.

Diverse
note critiche riguardano anche l’asserita inapplicabilità del terzo dei criteri
Engel.

Il
Collegio, con la sentenza n. 5245 del 2018, come si è già detto, ha ritenuto che
il terzo criterio non potesse trovare applicazione in quanto la misura, nel
caso concreto, sarebbe stata priva di connotati di speciale gravità [
101].

A
questo proposito non può non suscitare qualche riflessione già il fatto che il Consiglio
di Stato, in più occasioni, abbia ritenuto inapplicabile il terzo criterio per
le medesime ragioni di ordine pratico a suo tempo rilevate nella sentenza n.
5245 del 2018 [
102]. Tale operazione di pedissequo richiamo sembrerebbe
presupporre una perfetta corrispondenza tra le situazioni di fatto dedotte in
giudizio, che però il Consiglio di Stato, nelle pronunzie più recenti, non ha
affatto argomentato.

In
secondo luogo sembra quantomeno dubbio che si possa escludere la sussistenza di
uno degli Engel criteria avendo riguardo al mero atteggiarsi della
sanzione nel caso concreto.

Non
sembra plausibile che la natura penale della sanzione debba essere verificata “caso
per caso”, ciò che parrebbe porsi in radicale contrasto con le fondamentali
esigenze di certezza, prevedibilità e conoscibilità proprie del diritto penale.

Merita
infine ricordare che in base alla giurisprudenza Cedu il carattere della
particolare afflittività consente di qualificare la misura come di natura
sostanzialmente penale indipendentemente dalla sua riconducibilità sul piano
del diritto interno al novero delle sanzioni amministrative in senso tecnico.
Il giudice amministrativo nella sua costante giurisprudenza non nega
espressamente il principio, ma nei fatti non ne fa applicazione, per lo più
avvalendosi del medesimo schema argomentativo di cui alla sentenza 5245 del
2018.

5.4. Riprendendo le fila del discorso,
si deve dunque ritenere che la corretta applicazione degli Engel criteria conduca alla qualificazione dell’ordine di riduzione in pristino quale misura
amministrativa di natura sempre e comunque sostanzialmente penale.

Da tale premessa, a ben vedere, si
possono trarre le medesime conclusioni già predicate sul piano del diritto
interno in merito al regime intertemporale del divieto di autorizzazione
paesaggistica in sanatoria.

Si è già rilevato come l’analisi
puntuale della normativa contenuta agli artt. 146 e 167 del Codice consenta di
ricavarne un “combinato disposto a formulazione sintetica”: all’ordine di
riduzione in pristino andrebbe riconosciuta una “doppia natura”, sanzionatoria
quando consegue a un’ipotesi di abuso formale, prevalentemente ripristinatoria
quando viene adottato per fronteggiare ipotesi di abusivismo sostanziale. La
corretta qualificazione dell’ordine in parola ha consentito, in forza della
stretta connessione che intercorre tra i due istituti (cfr. § 4.1), di
risolvere alcune questioni di regime concernenti il divieto di autorizzazione
paesaggistica in sanatoria.

A questo proposito si è
puntualizzato che l’introduzione del divieto ha modificato la sola sorte degli
interventi formalmente abusivi, imponendone la riduzione in pristino, mentre
per gli interventi sostanzialmente abusivi la riduzione in pristino è sempre
stata inevitabile in quanto non sono mai stati “autorizzabili via postuma”.

Perciò dall’analisi del diritto
interno si è ricavato che il divieto di autorizzazione paesaggistica postuma e
il connesso ordine di riduzione in pristino non possono trovare applicazione
retroattiva agli interventi formalmente abusivi effettuati prima del 2006 (cfr.
§ 1.2), mentre per quanto concerne gli interventi sostanzialmente abusivi
qualsivoglia considerazione al riguardo risulta un fuor d’opera, in quanto tali
opere risultano intrinsecamente insanabili sicché il divieto di autorizzazione in sanatoria non può trovare
applicazione e dunque il relativo regime amministrativo non è mutato nel tempo.

Proprio quest’ultima considerazione
consente di riconoscere una perfetta simmetria tra i risultati argomentativi
raggiunti sul piano del diritto Cedu e interno. È vero infatti che l’ordine di
riduzione in pristino, nell’ordinamento interno, riveste carattere senz’altro
sanzionatorio solo quando viene adottato a fronte di un abuso formale, mentre
in base alla giurisprudenza Cedu riveste sempre natura sostanzialmente penale e
quindi non risulterebbe in nessun caso applicabile in via retroattiva,
tuttavia, come si è già ricordato, l’introduzione del divieto di autorizzazione
in sanatoria ha modificato il solo regime amministrativo di reazione
all’abusivismo formale sicché solo in relazione a tali ipotesi si pone un
problema di applicabilità retroattiva.

Quindi anche alla luce dei principi
Cedu è corretto affermare che il divieto di autorizzazione paesaggistica
postuma non risulta applicabile in senso retroattivo, come non può trovare
applicazione retroattiva l’ordine di riduzione in pristino dell’opera
formalmente abusiva, che ne è necessaria conseguenza.

 

Note

[*] Federico Margheri Biagi, dottorando di ricerca in
studi giuspubblicistici presso l’Università di Roma Tor Vergata, Via Cracovia
50, 00133 Roma,
federicomargheri@gmail.com.

[1] Il
Cons. St. in sede consultiva (Cons. Stato, Comm. spec., parere n. 5 del
9.5.1977) aveva inizialmente ritenuto, nel tacere della legge, che l’indennità
di cui all’art. 15, legge 1497 del 1939, al pari dell’ordine di riduzione in
pristino, avesse natura fondamentalmente risarcitoria.

La giurisprudenza maggioritaria, tuttavia, si è quasi
da subito espressa in senso opposto (tra la giurisprudenza minoritaria di segno
contrario cfr., ex pluribus, Tar Lazio, II-bis, n. 3370 del
20.4.2002), con un orientamento poi rimasto stabile sino all’entrata in vigore
del Codice: il Cons. St. ha a lungo ritenuto che quella prevista dall’art. 15,
cit. (e poi dall’art. 164 della legge n. 490 del 1999) fosse una sanzione
pecuniaria in senso stretto, posta a presidio della legalità formale e
sostanziale in materia di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. Di
conseguenza, il privato autore dell’abuso sarebbe stato tenuto a versarla anche
a fronte del rilascio dell’autorizzazione postuma e cioè anche in caso
sanatoria di un mero abuso formale (cfr., ex
pluribus
, Cons. Stato, VI, n. 5851 del 2000, cit.; Cons. Stato, VI, n. 5373
del 2000, cit.; Cons. Stato, VI, n. 3184 del 2.6.2000).

La soluzione ha trovato stabile accoglimento in
dottrina e in giurisprudenza, cfr. M.A. Sandulli, Commento all’art. 167, in Codice
dei beni culturali e del paesaggio
, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano,
2019, pag. 1448 ss.

[2] Al
contrario, tale dibattito non ha la capacità di incidere sui termini della
diatriba inerente alla natura dell’ordine di riduzione in pristino.

[3] Cfr., ex pluribus, Cons. St., VI, n. 6007 del
8.11.2000; Cons. St., VI, n. 6130 del 16 novembre 2000.

[4] Anche
in seguito all’abrogazione della legge n. 497 del 1939 il potere di irrogazione
della sanzione pecuniaria è sopravvissuto all’art. 164 della legge n. 490 del
1999 e ciò ha consentito, per un certo periodo di tempo, di ritenere la
soluzione esegetica ancora attuale.

[5] Deve
invero segnalarsi che peraltro, in termini teoria generale, sembra possibile
dubitare che il contrasto tra i due principi realmente sussistesse. In questo
senso si veda G. Morbidelli, Il principio di legalità e i c.d. poteri
impliciti
, in Atti del LIII convegno di studi di scienza
dell’amministrazione. Il principio di legalità nel diritto amministrativo che
cambia
, Milano, 2008, pag. 239 ss.; in particolare ivi pag. 239: “Sono
invece da ascrivere alla categoria [dei poteri impliciti] i provvedimenti a
sanatoria di comportamenti realizzati senza titolo, che hanno determinato la
realizzazione di una res”; ma cfr.
anche M.A. Sandulli, Commento all’art. 167, cit., pag. 1453 “l’ammissibilità
dell’autorizzazione paesistica “in sanatoria” è stata affermata in ragione
della generale compatibilità della “sanatoria” con l’istituto
dell’autorizzazione amministrativa”.

[6] In
altri termini la giurisprudenza prevalente riservava la misura della riduzione
in pristino alle sole ipotesi di abuso c.d. sostanziale, cfr. A. Padalino
Morrichini, I beni paesaggistici: sanzioni penali e amministrative, in Il
Codice dei beni culturali e del paesaggio tra teoria e prassi
, (a cura di) V.
Piergigli e A.L. Maccari, Milano, 2006, pag. 761 ss. L’orientamento è stato
accolto con alterna fortuna in dottrina: cfr., per un’aspra quanto autorevole
critica, P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, in Urb. app., n. 4 del 2004, pag. 384 ss.; in senso favorevole cfr., in
dottrina più recente, A. Calegari, Osservazioni critiche in merito al
divieto di rilasciare l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria sancito
dall’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio
, in Riv.
giur. urb.
, 2008, 1-2, pag. 192 ss.

[7] Nel
senso del complessivo “equilibrio” della precedente disciplina cfr. A. Padalino
Morrichini, I beni paesaggistici: sanzioni penali e amministrative, cit.,
pag. 766.

[8] Cfr.
A. Angiuli, Commento all’articolo 146, in Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura
di) A. Angiuli e V. Caputi Jambrenghi, Torino, 2005, pag. 389.

[9] Salvo
quanto si dirà in seguito sull’interessante ma minoritario e superato
orientamento giurisprudenziale e dottrinale che sarà meglio analizzato in §
4.4.

[10] Cfr.
D. Sandroni, Commento all’art. 146,
in Il codice dei beni cultuali e del
paesaggio. Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42
, Milano, 2005, pag.
669 ss., in particolare pag. 682 ss.

[11] Cfr. P. Carpentieri, L’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria
, cit., pag. 384 ss.: l’A. argomenta variamente
nel senso del danno che sarebbe derivato alla tutela del paesaggio da un
intervento legislativo che avesse accolto l’orientamento giurisprudenziale
prevalente, nel senso del mantenimento dell’ammissibilità dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria. Il tema sarà più attentamente analizzato in § 4.5,
dove si evidenzierà come le opposizioni allora avanzate dall’Autore sembrino
non risultare più attuali (ciò che peraltro Lui stesso, già allora,
prefigurava).

[12] Cfr. M.A. Sandulli, Commento all’art. 167, cit., pag. 1455.

[13] Ibidem.

[14] Ibidem.

[15] Cfr.
P. Cerbo, Commento all’art. 167, in Il Codice dei beni culturali e
del paesaggio
, (a cura di) M. Cammelli, Bologna, 2007, pag. 691.

[16] Cfr.
M.A. Sandulli, Commento all’art. 167,
cit., pag. 1455; S. Rossi, M.V. Lumetti, Le sanzioni amministrative relative
ai beni paesaggistici
, in T. Autieri, M. De Paolis, M.V. Lumetti, S. Rossi, Commentario al codice dei beni
culturali e del paesaggio
, Santarcangelo di Romagna, 2007, pag. 443;
A. Calegari, Osservazioni critiche,
cit., pag. 197. Cfr., in giurisprudenza, Tar Puglia, Lecce, I, n. 871
del 24.2.2005.

[17] In
merito alla rimozione dell’antinomia, cfr. S. Rossi, M.V. Lumetti, Le
sanzioni amministrative relative ai beni paesaggistici
, cit., pag. 444: “Il
d.lgs. 157/2006 ha risolto queste problematiche ponendo per converso un netto
collegamento tra le due norme che quindi non si pongono più in alcun contrato
ma anzi si integrano reciprocamente: la sanzione pecuniaria, quindi, viene
irrogata solo nei casi in cui sussiste la compatibilità paesaggistica delle
opere e proprio in questi stessi e tassativi casi è possibile richiedere
l’autorizzazione in sanatoria”. Per quanto concerne la condivisibile
introduzione di ipotesi di sanabilità all’art. 167, comma 4, cfr., per
un’opinione forse fin troppo ottimistica, P. Cerbo, Commento all’art. 167, cit., pag. 692 ss.; come è stato
autorevolmente segnalato tuttavia, da parte di altra dottrina, “Non poche sono
state le critiche mosse al legislatore nell’aver tipizzato le ipotesi nelle
quali può essere accertata, a richiesta del soggetto interessato, la
compatibilità paesaggistica ex post degli interventi”, cfr. M.A.
Sandulli, Commento all’art. 167, cit., pag. 1456; ma per un commento alla
novella del 2006 cfr. anche M.R. Spasiano, Commento all’art. 146, in Codice
dei beni culturali e del paesaggio
, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano,
2019, pag. 1323 ss.

[18] Cfr., ex multis, Cons. Stato,
VI, 21.5.2009, n. 3140; Cons. Stato, VI, 22.6.2007, n. 3483; Cons. Stato, VI,
2.5.2007, n. 1917; Tar Emilia-Romagna, Bologna, n. 951 del 12.6.2009; Tar
Emilia-Romagna, Bologna n. 589 del 9.6.2016. Con quest’ultima pronunzia il Tar
aderì all’orientamento espresso dal ministero della Cultura in sede consultiva
(parere n. 9907 del 29.5.2012) in merito al regime di diritto intertemporale
applicabile al divieto in parola: “Il MIBAC osserva che il carattere innovativo
delle richiamate modifiche apportate al Codice (che non appaiono strutturate
come norme di interpretazione autentica) e la circostanza che il legislatore
abbia ritenuto di intervenire espressamente per stabilire la vigenza del
divieto durante la fase transitoria, militano nel senso di indurre l’interprete
a ritenere che il divieto di autorizzazione paesaggistica ex post sia
effettivamente entrato in vigore solo con l’emanazione del c.d. primo
correttivo al Codice”.

In dottrina cfr. P. Carpentieri, Accertamento ex post di compatibilità in tema di beni paesaggistici, in Aedon,
2019, 1, pag. 4; per un’opinione di segno contrario cfr. A. Calegari, Osservazioni
critiche
, cit., pag. 197 ss.

[19] Cfr.
P. Cerbo, Commento all’art. 167,
cit., pag. 692 ss.

[20] Per
un’analisi puntuale della questione si rimanda a E. Boscolo, L’inammissibilità dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria: riaffermazione del principio e questioni sempre
aperte
, commento a Tar Campania, Napoli, III, 24 marzo 2015, n. 1718, in Urb.
app.
, 2015, 7, pag. 838 ss.

[21] Le
ipotesi, ex art. 167, comma 4, sono: “a)
per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o
volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; b) per l’impiego di
materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori
comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della
Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”.

[22] Ex art. 167, comma 5 individuata in “una
somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione”.

[23] Sorgono
“perplessità circa la soluzione legislativa di un’ipotesi in cui è esclusa la
sanabilità di un intervento che potrebbe invece essere ritenuto compatibile con
il vincolo paesaggistico”, cfr. P. Stella Richter, Dizionario giuridico di
urbanistica ed edilizia
, Milano, 2018, pag. 23.

[24] Per
un’efficace critica cfr. A. Calegari, Osservazioni critiche, cit., pag. 204 ss. Si segnala anche R.
Leonardi, I limiti dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria
, cit. per un commento alla questione
pregiudiziale sollevata dal Tar Sicilia, Palermo ex art. 267 TFUE, con
cui è stato ipotizzato il contrasto tra la disciplina codicistica
dell’autorizzazione paesaggistica postuma e il principio di proporzionalità.

[25] Per
una riflessione intorno alle ragioni che hanno condotto all’attuale
sistemazione normativa cfr., P. Carpentieri, Accertamento ex post di
compatibilità
, cit., pag. 5
ss.

[26] Cfr.
A. Calegari, Osservazioni critiche,
cit., pag. 207 ss.: “Se è difficile – come ho detto – dimostrare
l’illegittimità costituzionale del (…) divieto introdotto dal Codice del
2004, si può nondimeno osservare che tale divieto non è certamente imposto
dalla Costituzione e neppure risponde a particolari esigenze di tutela. Al contrario
esso confligge con principi di carattere generale, che imporrebbero, a mio
avviso, una pronta ed ulteriore modifica della norma da parte del legislatore
statale, perché rispondente ad un assetto degli interessi ingiustificatamente
squilibrato a vantaggio di supposte esigenze di tutela che potrebbero
altrimenti essere soddisfatte”.

[27] Con
ciò aderendo alla tesi già avanzata, pur in forma dubitativa, dal Mibact nel
parere n. 9907 del 29.5.2012
e poi ribadita con maggior decisione nel parere n. 30815 del 16.12.2015.

[28] Cfr.
Tar Emilia-Romagna, Bologna, II, n. 589 del 2016, cit.; Tar Emilia-Romagna,
Bologna, II, n. 680 del 29.6.2016, ma cfr. ancor prima, nel senso
dell’irretroattività del divieto, Tar Lazio, II-quater, n. 5638 del
9.6.2008.

[29] Cfr.
Cons. St., VI, n. 922 del 28.2.2017.

[30] Nello
stesso senso si era già pronunciata parte della giurisprudenza amministrativa,
non affrontando tuttavia la questione dell’applicazione dei c.d. criteri Engel,
cfr. Cons. St., IV, n. 4943 del 24.11.2016. In ogni modo la giurisprudenza più
recente opera costante riferimento alla sola sentenza del Cons. St. n. 5245 del
2018.

[31] Cfr. ex pluribus, tra le più recenti, Cons. St., VI, n. 1573 del 16.2.2024; Cons.
St., II, n. 5568 del 2023, cit.; Tar Sardegna Cagliari, II, n. 86 del 5.2.2024;
Cons. St., VI, n. 3026 del 21.4.2022; Tar Toscana, Firenze, III, n. 649 del
5.5.2021 ma cfr. anche Cons. Stato, I, n. 390 del 7.2.2019 (parere). Ma già
prima della sentenza pilota cfr., in senso analogo, Cons. St., IV, n. 4943 del
24.11.2016.

[32] Cfr., ex pluribus, Cons. St., VI, n. 3026
del 2022, cit.; Tar Toscana, Firenze, III, n. 1732 del 28.10.2020, n. 1732; Tar
Toscana, Firenze, III, n. 61 del 19.1.2017; Tar Sicilia, Palermo, I, n. 1963
del 29.7.2016.

[33] Cfr., ex pluribus, Cons. St., n. 1573 del 2024, cit.; Cons. St., n. 3026 del 2022, cit.; Cons. St.,
II, n. 5568 del 2023, cit.; Tar Toscana, Firenze, III, n. 649 del 5.5.2021.

[34] Cfr. Cons. St., n. 1573 del 2024.

[35] Cfr.
Cons. St., n. 1573 del 2024: “Sotto altro profilo, non pare ravvisabile un
problema di tutela dell’affidamento, tale non potendosi considerare il fatto
che al tempo della realizzazione dell’opera si sarebbe potuto confidare nella
sanatoria dell’abuso, essendo invece pacifico che parte appellante ha dato
luogo ad una situazione illecita e, senza alcuna giustificazione, ha atteso
quasi dieci anni prima di attivarsi per chiederne la sanatoria e la verifica di
compatibilità paesaggistica”.

[36] Il
problema dell’imprecisione in cui talvolta incorrono al riguardo dottrina e
giurisprudenza non è nuovo, cfr. C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni
amministrative
, in Enc. dir., XLI, 1989, pag. 355: “appare quindi evidente l’imprecisione, non solo
terminologica, ma anche concettuale, in cui cadono la giurisprudenza e la
dottrina quando propongono di assimilare nel genus “sanzione
amministrativa” sia la sanzione amministrativa in senso stretto (cosiddetta
‘sanzione punitiva’) sia la misura amministrativa di esecuzione (cosiddetta
‘sanzione ripristinatoria’)”.

[37] Quale
riconosciuto ex art. 1, legge n. 689
del 1981.

[38] Previsto
per le sanzioni penali ex art. 25 Cost. ed ex art. 7 Cedu.

[39] Cfr.
G. Zanobini, Le sanzioni amministrative,
Torino, 1924; più di recente
ribadita da autorevole dottrina, cfr. C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione amministrativa, Milano,
1988.

[40] Cfr.
G. Zanobini, Le sanzioni amministrative,
cit., pag. 38; C.E. Paliero, A. Travi, La
sanzione amministrativa
, cit., pag. 4.

[41] Ibidem.

[42] Cfr.
E. Casetta, Sanzione amministrativa, in Dig. disc. pubbl., XII,
Torino, 1997, pag. 601 ss.: “non è sanzione la reintegrazione, in qualsiasi
forma, dello stato di cose antecedente alla trasgressione, da cui esula
qualsiasi finalità afflittiva. In queste ipotesi l’uso del termine sanzione –
non infrequente in dottrina e in giurisprudenza – deve pertanto reputarsi non
appropriato”.

[43] Cfr. ex plurimis, P. Cerbo, Le sanzioni amministrative, Milano,
1999, pag. 3.

[44] Cfr.
C.E. Paliero, A. Travi, La sanzione
amministrativa
, cit., pag. 3.

[45] Cfr. C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni
amministrative
, cit., pag. 409: “le misure ripristinatorie e le misure
alternative non costituiscono sanzioni amministrative e quindi esorbitano
dall’ambito della materia disciplinata nella legge n. 689, cit.”.

[46] Per
quanto concerne l’irrilevanza del carattere dell’afflittività al fine di
operare una distinzione tra misure ripristinatorie e sanzionatorie, cfr. C.E.
Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 354: “non ci pare
fruttuosa una ricostruzione sistematica che faccia perno sulla “finalità
afflittiva” della sanzione amministrativa per dedurre funzioni e griglia dei
principi applicabili: si confonde così con la finalità il contenuto della sanzione,
fra l’altro comune a qualsiasi strumento di coazione”.

[47] Cfr.
F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, in Il fatto illecito nel diritto amministrativo
e nel diritto penale: la garanzia della prevedibilità
, (a cura di) F.
Centonze e S. Mancorda, Milano, 2021, p. 33; F. Mazzacuva, Le pene nascoste.
Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico
,
Torino, 2017, p. 34.

[48] Cfr.
F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., pag.
31. Merita ricordare che la reazione alla violazione della legge è uno dei due
elementi che valgono a connotare la nozione di sanzione amministrativa in senso
ampio.

[49] Cfr.
C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 354 ss.;
cfr. N. Bobbio, Sanzione, in Nov. dig. it., XVI, Torino, 1969, pag. 531 ss.

[50] Cfr.
F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., in particolare pag. 31 s.

[51] Cfr., ex pluribus, P. Cerbo, Le sanzioni
amministrative
, cit., pag. 4.

[52] Cfr.
C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni amministrative, cit., pag. 355 ss.

[53] Cfr.
F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., pag. 31.

[54] Che,
in base alla consolidata giurisprudenza amministrativa, come già si è anticipato
in § 1, si deve ritenere decorra dal 24 marzo 2006, data di entrata in vigore
del d.lg. n. 157 del 2006, correttivo del Codice.

[55] Cfr., ex plurimis, C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni
amministrative
, cit., pag. 355 ss.; P. Cerbo, Le sanzioni amministrative, cit., pag. 4.

[56] Cfr., Cons. Stato, VI, n. 3026 del 2022, cit.
in tema di divieto di autorizzazione postuma, che peraltro richiama
espressamente Cons. Stato, II, n. 4154 del 31 maggio 2021, in tema di abusi
edilizi in genere. Il
Cons. St. invece nella sent. n.
1573 del 2024, cit. ha espressamente disatteso gli argomenti di parte
appellante che negava la possibilità di qualificare l’illecito paesaggistico
quale illecito permanente.

[57] Non
si tratta infatti di errori bensì di approssimazioni, che conducono a
conclusioni non scorrette ma imprecise.

[58] Parte
della dottrina ha addirittura ipotizzato che l’attuale disciplina
dell’autorizzazione paesaggistica postuma implichi l’operatività di “meccanismi
presuntivi, generali e astratti, secondo cui, al di fuori dei casi di cui
all’art. 167, comma 4, lett. a), b) e c),
non è possibile un accertamento concreto, tecnico – discrezionale, in ordine
alla compatibilità con le norme paesaggistiche di un’opera previamente non
autorizzata”, cfr. R. Leonardi, I limiti
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria tra tutela del paesaggio e del
diritto di proprietà: applicazione di misure presuntive o accertamento concreto
della compatibilità paesaggistica
, in Riv. giuridica dell’edilizia, n. 3
del 2013, pag. 476.

La tesi in verità non convince: sembra che il
legislatore abbia disegnato una disciplina che opera “come se” ci si trovasse
in presenza di un abuso sostanziale, senza però introdurre alcuna presunzione.

[59] La
previsione, un tempo contenuta all’art. 13, legge n. 47 del 1985, è poi
rifluita nell’art. 36, d.p.r. n. 380 del 2001.

[60] Cfr.
S. Scarlatelli, Sulla natura ripristinatoria delle sanzioni per abusi
edilizi
, in Urb. app., 2003, pag. 346 ss.

[61] Cfr.
B. Graziosi, Il divieto di sanatoria paesaggistica tra sopravvenienza del
vincolo e sopravvenienza del divieto
, in Urb. app., 2019, 6, pag.
768: “La sanzione demolitoria così come è oggi configurata dal sistema vigente
non è quindi intrinsecamente, e cioè sostanzialmente, restitutoria. Lo è solo nel
senso che pretende – finalisticamente – solo il corretto svolgimento del
procedimento autorizzatorio, imponendo la sua rinnovazione, ma prescinde
totalmente dalla, per così dire, materialità dello stato dei luoghi”.

[62] Si
potrebbe semmai svolgere una riflessione intorno alla funzione
(ripristinatoria, sanzionatoria o mista) dell’ordine di riduzione in pristino
per quanto concerne quelle ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 36, d.p.r. n. 380
del 2001, il diniego di permesso in sanatoria derivi esclusivamente dalla
difformità rispetto alla disciplina edilizia sostanziale vigente al momento
della realizzazione dell’intervento abusivo. Non pare tuttavia questa la sede
opportuna per dare compiuto sviluppo al discorso.

[63] Ivi,
pag. 766 ss.

[64] Cfr.
E. Boscolo, L’inammissibilità
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria
, cit., pag. 839 ove peraltro
cita espressamente la sentenza in commento: Tar Campania, Napoli, III,
24.3.2015, n. 1718. Sia l’A. che la pronunzia, pur riconoscendo “un indubbio
carattere restrittivo e di rigore sanzionatorio” alla disciplina di cui
all’art. 167, cit., hanno ritenuto comunque corretto predicare l’applicazione
retroattiva del divieto di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

[65] Si
tratta d’altronde di un errore non nuovo, cfr. C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni
amministrative
, cit., pag. 355.

[66] D’altronde
la dottrina anteriore all’entrata in vigore del Codice dava per scontato che
l’ordine di riduzione in pristino non fosse adottabile in caso di sanatoria,
proprio perché in tali ipotesi l’intervento è “compatibile con il bene protetto”,
cfr. A. Mansi, La tutela dei beni culturali e del paesaggio, Padova,
2004, pag. 603.

Deve peraltro segnalarsi come parte della
giurisprudenza, nel ritenere applicabile l’ordine di riduzione in pristino alle
ipotesi di abusivismo formale, ne abbia però riconosciuto la natura di misura
sanzionatoria, cfr., ex pluribus, Tar
Napoli, Campania, VIII, n. 1645 del 27 marzo 2017: “La necessità di difendere
al massimo livello il paesaggio impone una soluzione legislativa che, nei con
fronti degli interventi edilizi sine titulo, abbia carattere fortemente
dissuasivo se non punitivo – sanzionatorio”.

[67] Quando
ricorre un intervento riconducibile al novero del 167, comma 4, cit.
l’eventuale diniego di autorizzazione postuma non discende dall’applicazione
del divieto di cui agli artt. 146, comma 4 e 167, comma 1 cit., bensì da una
valutazione dell’amministrazione che ritiene sussistere un abuso sostanziale e
cioè un effettivo contrasto tra l’intervento e la normativa posta a tutela del
bene paesaggio.

[68] Cfr.
Tar Emilia Romagna, Bologna, n. 589 del 2016, cit.; Tar Emilia Romagna,
Bologna, n. 680 del 2016, cit.

[69] Richiamata
anche nell’obiter dictum della
sentenza del Cons. St. n.
1573 del 2024.

[70] Cfr., ex plurimis, Cons. St., IV, n. 4943
del 24.11.2016; Cons. St.,
VI, n. 5245 del 6.9.2018; Cons. St., VI, n. 3026 del 21 aprile 2022; Cons. St.,
II, n. 5568 del 6 giugno 2023; Tar Toscana, Firenze, III, n. 649 del 5 maggio 2021;
Tar Sardegna Cagliari, II, n. 86 del 5 febbraio 2024.

[71] Cfr., ex multis, R. Garofoli, G. Ferrari, Manuale di diritto
amministrativo. Parte generale e speciale
, Molfetta, 2023, pag. 1152: “L’adozione
della sanzione è in ogni caso doverosa: accertato l’abuso, la Pubblica
Amministrazione è tenuta ad emanare la relativa misura repressiva”.

[72] Vietato ex art. 34, comma 2, c.p.a.

[73] Cfr., ex pluribus, Tar Puglia, Lecce, I, n. 871 del 2005, cit. Cfr., al
riguardo, tra i molti che si sono occupati del tema, S. Rossi., M.V. Lumetti, Le
sanzioni amministrative relative ai beni paesaggistici
, cit., pag. 443: “Il
giudice amministrativo aveva ritenuto che l’eventuale applicazione della sola
sanzione pecuniaria avrebbe dovuto comunque presupporre l’accertamento da parte
dell’amministrazione preposta di una violazione rispetto alla tutela
paesaggistica ancorché evidentemente di consistenza minore (…). Pertanto, e
soprattutto, proprio in considerazione di tale diverso giudizio di fondo, la
sanzione pecuniaria di cui all’art. 167 – diversamente dall’intervento
autorizzatorio – non ne elide il carattere illecito, per cui le conseguenze
giuridiche della illegittimità delle opere non vengono sanate compromettendone
la sorte giuridica”.

[74] Cfr.
P. Cerbo, Commento all’art. 167, cit., pag. 691.

[75] In
merito all’orientamento giurisprudenziale che ammetteva tale soluzione cfr. §
1.2.

[76] In dottrina vi è stato chi, subito dopo
l’introduzione del Codice, ha definito l’applicazione della misura
ripristinatoria alle ipotesi di abuso formale “prima ancora che ingiust[a],
irrazional[e]”, auspicando e addirittura prevedendo la correzione
giurisprudenziale per via interpretativa dell’eccessivo rigore normativo, cfr.
A. Padalino Morrichini, I beni paesaggistici: sanzioni penali e
amministrative
, cit., pag. 767.

In questo senso pare possano richiamarsi anche le
considerazioni svolte in A. Crosetti, R. Ferrara, F. Fracchia, N. Olivetti
Rason, Introduzione al diritto dell’ambiente, Bari, 2018, pag. 314 s.
ove, in relazione alla qualificazione delle misure amministrative previste ex art. 167, cit. si sostiene che “se si
tratta di sanzioni amministrative, volte a punire una regola di condotta è
possibile che il pagamento sia imposto anche per illeciti meramente formali
(che non hanno prodotto alcun danno al bene tutelato); se, invece, si tratta di
una misura ripristinatoria e di una misura pecuniaria alternativa alla prima,
il presupposto di entrambe è la sussistenza di un danno materiale al bene
vincolato”.

Ma la problematicità del punto è stata rilevata anche
dalla più risalente giurisprudenza che, nell’argomentare la natura
sanzionatoria dell’indennità dovuta ex art. 164, legge n. 164 del 1999,
giungeva a tali conclusioni anche osservando che tale indennità doveva essere
pagata in “ogni ipotesi di inottemperanza agli obblighi e ordini in materia di
tutela del paesaggio stabiliti dalla legge n. 1497, senza alcuna distinzione
fra violazioni sostanziali (produttive di un danno ambientale effettivo) e
violazioni formali, sicché si tratta di misure non solo ripristinatorie, ma
anche deterrenti” cfr. Cons. St., VI, n. 6130 del 2000 e Cons. St., VI, n. 3184
del 2 giugno 2000.

[77] Cfr. ex pluribus, Tar Lombardia, Brescia, I, n. 3555 del 22 settembre 2010,
che prosegue: “La soluzione opposta sarebbe irragionevolmente gravosa per il
privato e inutile (o controproducente) per l’interesse pubblico”; Tar
Lombardia, Brescia, I, n. 317 del 19 marzo 2008: “Se non ci si ferma a
un’interpretazione letterale dell’art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del
2004 e si integra la norma col principio di proporzionalità, si può osservare
come il divieto si sanatoria paesistica abbia in realtà la funzione di impedire
all’amministrazione di trasformare ordinariamente, attraverso il giudizio di
compatibilità paesaggistica, il danno ambientale in equivalente in denaro”; Tar
Lombardia, Brescia, I, n. 2139 del 25 maggio 2010.

Dottrina minoritaria sembrava caldeggiare da tempo
tale soluzione, cfr. A. Gentile, L’autorizzazione paesaggistica nel d.l.vo.
n. 42/2004
, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza,
n. 1 del 2005, pag. 738 s.

[78] Cfr.
N. Pignatelli, L’autorizzazione paesaggistica. Profili costituzionali e
procedimentali
, Napoli, 2024, pag. 161, che correttamente evidenzia il
contrasto di tale orientamento con il principio di legalità.

[79] In
via del tutto ipotetica, in quanto la premessa non sembra condivisibile e il
citato orientamento giurisprudenziale pare criticabile.

[80] Merita
rammentare che la natura “maggiore” o “minore” dell’abuso dipende dal tipo di
intervento, non dalla gravità della lesione al bene paesaggio o dalla
sussistenza stessa della lesione. Quanto si intende dire risulterà forse più
chiaro ove si ricordi che anche per le ipotesi di cui all’art. 167, comma 4, cit.
è necessario verificare se l’autorizzazione in sanatoria sia rilasciabile in
concreto: in altri termini, è necessario verificare se l’abuso, oltre che “minore”
sia anche “formale”.

[81] Il
che si ricava dalla piana applicazione dell’art. 1, legge 689 del 1981 ed è
pacificamente riconosciuto in dottrina e giurisprudenza, cfr., ex plurimis, A. Travi, Incertezza
delle regole e sanzioni amministrative
, in Dir. amm., 2014, n. 4, pag.
630.

Non sembra peraltro possibile
aggirare l’ostacolo sostenendo che sarebbe possibile addivenire
all’applicazione del 167, comma 5 per via di mera interpretazione estensiva:
per espressa previsione legislativa infatti la norma da ultimo citata trova
applicazione alle sole ipotesi di abusivismo “minore”.

[82] La
soluzione, di per sé già irragionevole, non si discosta però molto da quanto in
passato affermato giurisprudenza nell’interpretazione del Codice prima del
correttivo del 2006. Ci si riferisce all’orientamento espresso da Tar, Puglia,
Lecce n. 4943 del 2005, che consentiva l’applicazione della sola sanzione
pecuniaria senza però ammettere la sanatoria dell’intervento.

[83] Cfr.
P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cit., pag. 384 ss., la tesi ha trovato peraltro condivisione in dottrina,
cfr., ex pluribus, A. Padalino
Morrichini, I beni paesaggistici: sanzioni penali e amministrative, cit.,
pag. 762.

[84] Le
ragioni sono numerose, cfr. P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica
in sanatoria
, cit., pag. 389 che sottolinea in particolare
come in tali situazioni “la logica del fatto compiuto comporta, di regola, la
sostanziale soccombenza e l’irrimediabile pregiudizio del bene protetto. (…)
In realtà ben potrebbe avvenire che un intervento, che non si sarebbe
autorizzato ex ante, nondimeno possa giudicarsi ex post meritevole della sola sanzione pecuniaria, o di questa e di una solo parziale
demolizione”, e ancora che “l’esame preventivo del progetto può condurre a
misure prescrittive o modali – poste a condizione dell’atto di assenso – capaci
di compatibilizzare l’intervento col vincolo”. Cfr., in senso contrario, A.
Calegari, Osservazioni critiche,
cit., pag. 200: “L’esperimento di una valutazione in un momento successivo
rispetto alla realizzazione dell’intervento non elimina il fatto che il
giudizio di compatibilità è comunque un giudizio ex ante, nel quale,
cioè, l’amministrazione è chiamata ad effettuare la sua valutazione rispetto
alla situazione precedente all’esecuzione delle opere, fermo restando che
rappresenta un preciso onere per il richiedente dimostrare la compatibilità di
quanto nel frattempo realizzato con la situazione anteriore, che egli stesso
deve innanzitutto ricostruire e documentare”; cfr., per un’interessante
soluzione de iure condendo, ivi, pag. 206: “I timori che stanno
alla base dell’introduzione del divieto possono essere, tuttavia a mio avviso
superati (ed in parte già lo sono) sul piano del procedimento, con la semplice
introduzione nella sequenza procedimentale tipica della sanatoria, di
aggravamenti che non sono presenti nel procedimento di autorizzazione
preventiva”.

[85] Cfr.
P. Carpentieri, L’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, cit., pag. 391.

[86] Cfr.
P. Cerbo, Commento all’art. 167, cit., pag. 687, che riconosceva come
già nella formulazione dell’articolo 167 successiva al 2006 “rispetto alla
precedente formulazione della disposizione la verifica circa la compatibilità dell’intervento
non autorizzato con il paesaggio non è basata più su scelte discrezionali,
bensì su valutazioni tecniche.” e ancora “in definitiva, dunque, il giudizio di
compatibilità paesaggistica di un’opera realizzata in violazione degli obblighi
posti a tutela del paesaggio non è più discrezionale; è invece – nell’ambito di
ipotesi normativamente previste – esclusivamente tecnico”.

[87] Cfr.
G. Zborowski, La disciplina dell’autorizzazione paesaggistica, in Trattato
di diritto del territorio
, (a cura di) F.G. Scoca, P. Stella Richter e P.
Urbani, Milano, 2018, vol. II, pag. 1132.

[88] D’altronde
lo stesso A. dimostra una posizione già più aperta nelle sue più recenti
pubblicazioni, cfr. P. Carpentieri, Accertamento ex post di compatibilità, cit., pag. 6 ss.

[89] Cfr.
A. Calegari, Osservazioni critiche,
cit., pag. 199.

[90] Cfr.
M. Allena, La sanzione amministrativa tra
garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della
tassatività-determinatezza e la prevedibilità
, in Federalismi.it,
2017, 4, pag. 3: “Seguendo un approccio marcatamente sostanziale la
giurisprudenza di Strasburgo ha dunque superato anche la distinzione, classica
nel nostro ordinamento, tra sanzioni in senso stretto e provvedimenti
ablatori-ripristinatori”.

[91] A.
Travi, Incertezza delle regole,
cit., pag. 634: “Negli scritti di matrice amministrativistica a cavallo
della legge del 1981, emergeva peraltro anche l’insufficienza della concezione
meno drastica che considerava le sanzioni amministrative come species di
un genus costituito insieme con le sanzioni penali, secondo uno schema
che invece oggi sembra affermarsi nella giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo”.

[92] Cfr.
F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., pag. 27.

[93] I
criteri, elaborati a partire dal caso Corte eur. dir. uomo, Plenaria, 8.6.1976, Engel and others v. the Netherlands, sono stati ribaditi e meglio precisati
nella successiva giurisprudenza Cedu, si veda in particolare la sentenza del
4.3.2014, Grande Stevens and others v. Italy.

[94] Cfr., ex plurimis, R. Giovagnoli, Manuale
di diritto penale. Parte generale
, Torino, 2023, pag. 1433; A. Cosentino, Sanzioni
amministrative e a carattere punitivo
, in Le fonti del diritto, il ruolo
della giurisprudenza e il principio di legalità
, (a cura di) G. Grasso e.a.,
pag. 243.

[95] Autorevole
dottrina ha ritenuto plausibile che la fattispecie in esame soddisfi gli Engel criteria, cfr. P. Carpentieri, Accertamento
ex post di compatibilità
, cit., pag. 7. La tesi è stata storicamente
sostenuta dal ministero della Cultura, cfr. parere Mibact n. 30185 del 2015.

[96] Cfr.
A. Cosentino, Sanzioni amministrative e a
carattere punitivo
, cit., pag. 243.

[97] Cfr.
B. Graziosi, Il divieto di sanatoria paesaggistica tra sopravvenienza del
vincolo e sopravvenienza del divieto
, cit., pag. 761. Sembra necessario
rimarcare come il riferimento all’afflittività quale criterio per determinare
la natura penale (e in questo senso “punitiva”) della sanzione, assuma senso
solo con riferimento alla nozione autonoma di “sanzione penale” elaborata dalla
giurisprudenza europea. Nell’ordinamento interno, come si è ampiamente esposto,
la sussistenza di connotati di afflittività non permette di per sé di
qualificare la misura quale sanzione amministrativa, ciò che invece è
consentito dalla funzione general e special preventiva della norma.

[98] Ciò
che risulta fondamentale per determinare l’applicabilità dei principi di cui
alla legge n. 689 del 1981, cfr., ex plurimis, C.E. Paliero, A. Travi, Sanzioni
amministrative
, cit., pag. 409: “Le misure ripristinatorie e le ‘misure
alternative’, invece, contrariamente a quanto concluso rispetto ai ‘tipi’
sanzionatori fin qui esaminati, non pongono, sensatamente, a nostro giudizio,
il problema dell’estensione nei loro confronti dei principi fissati nella legge
n. 689, cit. (…) Un tale problema non ha senso perché le misure
ripristinatorie e alternative non costituiscono sanzioni amministrative e
quindi esorbitano dall’ambito della materia disciplinata nella legge n. 689,
cit.”; F. Viganò, Garanzie penalistiche e sanzioni amministrative, cit., pag. 40.

[99] Cfr.
F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni
amministrative tra diritto nazionale ed europeo
, Torino, 2015, pag. 7; in
senso conforme cfr. M. Allena, La
sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU
, cit.,
pag. 3: “Sono state ricondotte alla “materia penale” non solo misure
chiaramente connotate da un carattere punitivo/afflittivo (quali le sanzioni
amministrative pecuniare disciplinate nel nostro paese dalla legge 24 novembre
1981, n. 689, comprese quelle irrogate dalle Autorità amministrative
indipendenti), ma altresì tutta una serie di provvedimenti nei quali è ben
percepibile un elemento di cura in concreto dell’interesse pubblico”.

[100] Cfr., ex pluribus, Cons. St., VI, n. 1573
del 2024, cit.; Cons. St., II, n. 5568 del 2023, cit.; Tar Sardegna Cagliari,
II, n. 86 del 2024, cit.; Cons. St., VI, n. 3026 del 2022, cit.; Tar Toscana,
Firenze, III, n. 649 del 2021, cit.

[101] Cfr.
Cons. St., n. 5245 del 2018, cit.:”vertendosi qui in ordine alla demolizione di
un porzione assai limitata dell’immobile preesistente (il quale conserverebbe
per il resto la sua funzionalità abitativa), appare assente quel connotato di “speciale”
gravità, necessario perché la misura che non presenta finalità deterrente e
punitiva possa essere assimilata, sul piano della sua afflittività, a una
sanzione penale o a una sanzione amministrativa”.

[102] Cfr., ex pluribus, Cons. St., VI, n. 1573 del 2024; Cons. St., n. 3026 del
2023, cit., ma cfr. anche Cons. St., II, n. 5568 del 2023, cit., in cui il
Collegio richiama genericamente l’orientamento espresso nella sentenza del Cons.
St., n. 5245 del 2018 con riguardo ai criteri Engel.

 

 

 



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