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DEBITO A 3 MILA MILIARDI?
È SOSTENIBILE, MA FATALISMO
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E IMMOBILISMO SONO PERICOLOSI.
LA STABILITÀ È UTILE SOLO SE
NON È TIRARE A CAMPARE
3.000.000.000.000. Il debito pubblico italiano ha raggiunto e superato la fatidica soglia, non solo psicologica, dei tremila miliardi. Oltre 50 mila euro a testa per ciascun cittadino della Repubblica. È il sesto più grande del mondo in valore assoluto – ma Francia e Gran Bretagna sono di poco sopra, possiamo “ambire” al quarto posto – e il nono in raffronto al pil (il nostro è al 135,5%), ma va considerato che in questa classifica l’unica economia confrontabile con la nostra è quella del Giappone (secondo con il 255%), mentre non lo sono quelle del Sudan (256%), Libano (195%), Singapore (168%), Eritrea (164%), Grecia (162%), Argentina (155%) e Venezuela (146%). I due terzi di questo debito, che ovviamente parte dall’Unità d’Italia, li abbiamo fatti negli ultimi tre decenni, dal 1994 (che non casualmente è l’anno di nascita della cosiddetta Seconda Repubblica) ad oggi. L’ultimo terzo, da 2mila a 3mila miliardi, lo abbiamo accumulato dal 2012 in soli 13 anni con una progressione media annua di 77 miliardi. Il costo di questo fardello ovviamente varia con il variare dei tassi, ma da tempo è ormai sopra la soglia dei 100 miliardi all’anno e per il 2024 saremo a 125 miliardi, destinati a calare di 21 miliardi complessivi nel triennio 2025-2027 sempre che la Bce riduca i tassi e la congiuntura mondiale lo consenta.
Come si vede, un peso enorme. Eppure, nei giorni scorsi, alla notizia del raggiungimento di questo maledetto traguardo non solo non si è levata alcuna voce di allarme, ma si è assistito ad un diffuso spargimento di giudizi tranquillizzanti se non addirittura minimizzanti. Tanto da parte della politica, opposizioni silenti comprese, quanto dei media e persino di qualche economista di vaglia. Gli “argomenti ansiolitici” sono sostanzialmente quattro. Tre di natura tecnico-economica: quello che conta è il rapporto percentuale con la ricchezza prodotta, e dal picco raggiunto nel periodo Covid di 154,3% del pil quel rapporto è sceso di 18,8 punti; lo spread viaggia intorno ai 112 punti, e solo che dall’inizio dell’anno è calato del 21%; ormai da diversi trimestri, l’andamento della nostra economia è migliore di quello che fanno registrare Germania e Francia. E il quarto è di natura politica: la stabilità assicurata dal governo Meloni paga. Insomma, niente paura, il nostro debito è perfettamente sostenibile e l’Italia non corre alcun pericolo sui mercati finanziari. Ma è davvero così? Non proprio. Vediamo nel dettaglio.
È vero, il dato che conta di più non è quello del valore assoluto del debito ma quello del rapporto percentuale con il pil. Gli Stati Uniti hanno uno stock di debito oltre dieci volte superiore al nostro: 33 mila miliardi di dollari, che, a politiche invariate, è destinato a superare i 40 mila miliardi già l’anno prossimo. Ma in rapporto al pil, questi numeri corrispondono al 122% e al 131%, percentuali inferiori, anche se non di molto, alle nostre. Inoltre, nel rapporto debito-pil occorre valutare se è troppo il numeratore o poco il denominatore. Nel caso italiano, sono vere entrambe le cose: abbiamo un debito eccessivo a fronte di un prodotto interno lordo inferiore alle necessità e possibilità. Questo significa che non abbiamo fatto troppo debito, ma anche e soprattutto che lo abbiamo usato male, perché non ha contribuito a generare pil in modo proporzionato, essendo stato utilizzato prevalentemente per coprire spesa corrente improduttiva anziché per sostenere gli investimenti. E anche la contrazione di quasi 19 punti del rapporto debito-pil oggi sbandierata, è frutto di due mega operazioni assistenziali come il reddito di cittadinanza e il superbonus – che il governo Meloni ha fatto bene a smantellare, pur non senza errori e contraddizioni – che hanno sì generato pil, la prima sostenendo i consumi e la seconda spingendo l’edilizia, andando ad alzare il denominatore del rapporto con il debito, ma si è trattato di pil drogato, per sua natura momentaneo e non destinato ad autoriprodursi.
Quanto allo spread, bene che sia calato. Ma resta comunque troppo alto. Per due motivi. Il primo è comparativo: solo Ungheria (450) e Repubblica Ceca (170) li hanno più alti, mentre Francia e Grecia (sì, avete letto bene, gli ellenici) sono a 80 punti, quasi un terzo di meno, la Spagna (66) è quasi la metà e il Portogall0 (45) il 60% di meno. Per non parlare della Danimarca che è a meno 30, cioè i suoi titoli di Stato sono considerati dai mercati finanziari più affidabili di quelli tedeschi (visto che ciascun spread è misurato in relazione ai Bund). E qui scatta il secondo motivo: gli spread sono tutti scesi perché è la Germania ad essere in crisi, economica e politica. È di queste ore la conferma che per il secondo anno consecutivo l’economia tedesca è in recessione: -0,3% nel 2023, -0,2% l’anno scorso. E non si tratta di una difficoltà congiunturale, ma strutturale: ad essere in crisi è il modello di sviluppo, basato sull’energia importata a basso costo dalla Russia, sul decentramento produttivo a est e sull’export verso l’Asia. Fattori che sono saltati senza che la politica, vedova della Große Koalition, sia stata capace di immaginare e predisporre un modello alternativo. Questo significa che sugli spread ha inciso prima di tutto l’indebolimento dei Bund, poi l’andamento, buono o cattivo che fosse, dei titoli del debito dei vari paesi. Dunque, per capire la vera tendenza del nostro spread occorre misurare la variazione tra Btp e Bund in relazione a quella fatta registrare dagli altri. E, come si è visto, la distanza che ci separa da quasi tutti gli altri paesi europei è a nostro sfavore, e pure in modo crescente. Specie da coloro che, come il Portogallo, hanno fatto vere ed efficaci politiche di contenimento di deficit e debito e contemporaneamente di sostegno allo sviluppo dell’economia reale.
Certo, è poi vero che la distanza che strutturalmente ci separa dalle due economie continentali più forti, quella tedesca e quella francese, si è accorciata. Per esempio, dal 2020 Roma ha recuperato su Berlino oltre 5 punti di pil complessivi e su Parigi quasi 3 punti. Ma le distanze accumulate dall’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo restano pesantemente a nostro sfavore. Inoltre, il mezzo punto di crescita con cui dovremmo aver chiuso il 2024 è la metà di quanto preventivato. E questo nonostante gli sbandierati effetti del Pnrr (e qui i casi sono due: o abbiamo speso meno di quel si dice, o abbiamo speso male) e la coda del superbonus. A soffrire è il manifatturiero: la produzione industriale è in calo da 22 mesi, e per il solo 2024 è previsto un calo di un punto e mezzo, soprattutto a causa di un export che non tira più come prima sia per la crisi della Germania sia per i venti di guerra che spirano ovunque. Una crescita asfittica che ci riporta nella maledetta tendenza degli “zero virgola” e rischia di rendere impraticabili gli obiettivi per il 2025, condannandoci nuovamente alla stagnazione permanente. D’altra parte, se il Fondo Monetario stima per l’economia planetaria nel quinquennio ’25-’29 una tendenza modesta – tutta giocata sul numero tre: dinamica del pil mondiale, degli scambi commerciali e dei prezzi al consumo – è grasso che cola che il nostro paese non ripiombi in recessione, visto il peso che (non) ha nello scenario internazionale. E questo al netto degli effetti, che ancora non possiamo conoscere, della “trumpeconomics”, e in particolare dell’uso indiscriminato dei dazi.
E crescita dello “zero virgola” vuol dire impatto negativo sui conti pubblici, sul cui riequilibrio sono stati presi impegni vincolanti in sede europea nell’ambito del nuovo patto di stabilità. Per questo, tornando al debito e alla sua sostenibilità, sarebbe bene accantonare l’ottimismo malriposto e l’ancor più pericoloso fatalismo che sembra aver conquistato tanto i palazzi romani quanto i consigli di amministrazione delle imprese, e usare l’effetto emotivo che suscita quel numero con dodici zeri dopo il 3 per spiegare al Paese che è indispensabile un’operazione di rientro di natura straordinaria. I cui termini sono stati spiegati mille volte, e altrettante volte lasciati cadere nel vuoto della perniciosa atarassia che ci pervade. Dalla quale non aiuta a scuotersi lo stucchevole ritornello che risuona da qualche tempo sulla meravigliosa “stabilità italiana” assicurata dalla “potente” presidente del Consiglio, e che peraltro fa da pendant all’altrettanto insopportabile coro di denigrazione preventiva e preconcetta elevato nei confronti di Giorgia Meloni.
Si tratta di una cattiva postura nazionale che sta in cima alla classifica delle purtroppo tante che mi affliggono in questa fase storica. Perché non deriva solo dalla vulgata esclusivamente elettorale della classe politica, cui pur riluttante ho fatto il callo, ma riguarda – dolorosamente – anche un discreto numero di opinionisti, di cui non faccio il nome per carità di patria, che pure non avrebbero alcun bisogno di lasciarsi andare a simili atteggiamenti di acquiescenza. Partiamo dal presupposto che la stabilità è sì un valore, ma che diventa davvero tale solo se produce dinamicità, trasformazione, sviluppo, non se è sinonimo di immobilismo o, peggio, di tendenza a galleggiare per tirare a campare. Detto questo, Meloni è sicuramente un fattore di stabilità. Ma dalla continuità che assicura, l’Italia ha tratto e trae la forza, morale prima ancora che pratica, per scrollarsi di dosso i tanti fattori paralizzanti – politici, istituzionali, economici, sociali, culturali – che negli ultimi tre decenni l’hanno resa un paese in declino strutturale? Oppure è e resta ferma, preda di quella sindrome che il Censis ha efficacemente definito “continuità nella medietà”? Perché se, come tanti segnali ci inducono a pensare, siamo intrappolati “in quella linea di galleggiamento che ci impedisce di incorrere in capitomboli rovinosi nelle fasi recessive ma anche di compiere scalate eroiche nei cicli positivi” (come recita l’ultimo rapporto Censis), il compito di una leadership è quello di usare il potere acquisito, e la sua continuità nel tempo, per svegliare il paese dal sonnambulismo (altra definizione deritiana) che lo rende amorfo, impermeabile ai cambiamenti. Non farlo significa condannare il Paese all’immobilismo, e quindi a perpetuare il suo lento ma inesorabile declino, ma anche condannare la leadership politica stessa ad un rapido e penoso crepuscolo. Come? Per esempio, affrontando una volta per tutte il nodo del debito, senza nascondere la testa sotto la sabbia. Prima Meloni ci vorrà seriamente riflettere, e meglio sarà per tutti.
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