il futuro degli Usa parte dai ghiacci dell’Artico

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Il 2025 si è aperto con una serie di dichiarazioni del Presidente Eletto degli Stati Uniti Donald Trump riguardo all’orientamento futuro della politica estera americana, ed in particolare
relativamente all’interessamento degli Stati Uniti per il territorio della Groenlandia (isola di proprietà della Danimarca), peraltro già manifestato prima di Natale.

Alla domanda di un cronista che chiedeva al Presidente Eletto se escludesse l’utilizzo della forza militare per raggiungere l’obiettivo di un maggiore coordinamento con i territori menzionati, Trump ha risposto che non poteva escludere alcuna eventualità, innescando una serie di reazioni in Europa e nel resto del mondo.

Seppure con uno stile assertivo, la risposta di Trump rivela un pensiero in realtà ricorrente nella trama dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’isola danese. Lo stesso Presidente americano aveva
manifestato interesse per l’acquisizione della Groenlandia già nel 2019, ma ben prima di quella circostanza vi furono altri due tentativi di acquisizione passati alla storia.

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Nel 1867 fu il Segretario di Stato William H. Seward, dopo aver acquistato l’Alaska dalla Russia, ad avviare delle trattative con la Danimarca, che si conclusero in un nulla di fatto. Poco meno di un
secolo dopo, al termine della seconda guerra mondiale, la Presidenza Truman offrì alla Danimarca 100 milioni di dollari, ricevendo un rifiuto. La Danimarca stipulò contestualmente un trattato con gli americani che consentì la costruzione sull’isola della base di Thule, una delle più imponenti basi aeree a stelle e strisce.

Oltre ai tentativi di acquisto che si sono susseguiti nel passato, il legame di questa vicenda con la storia passa anche da una possibile connessione ideologica, sottolineata sia dal New York Times
in America che dal Financial Times in Europa, tra la politica estera immaginata da Trump e la cosiddetta Dottrina Monroe, ovvero il pensiero modellato a partire da James Monroe, Presidente
degli Stati Uniti fino al 1825.

Sebbene collocata in un contesto completamente diverso, caratterizzato dalla rivalità tra Stati Uniti ed imperi coloniali europei, la logica di Monroe trova dei parallelismi con l’orientamento attuale di Trump.

Considerando lo spettro completo delle ultime dichiarazioni del Presidente Eletto, notiamo come, accanto all’interesse per la Groenlandia, sia stato espresso l’auspicio di una maggiore intensità di
relazioni con riferimento al canale di Panama (a sud degli USA) ed al territorio del Canada (a nord degli USA). La sensazione è che venga evocata una zona d’influenza lungo buona parte
dell’emisfero occidentale del globo, considerato dagli Stati Uniti come il proprio “cortile di casa”, entro il perimetro del quale non possano verificarsi interferenze di potenze straniere: un concetto
molto simile a quanto aveva in mente Monroe.

La storia non si ripete mai per identità perfette (nel caso di Monroe le “potenze straniere” erano i paesi dell’Europa colonizzatrice, oggi probabilmente Cina, Russia ed i loro alleati) ma i parallelismi sembrano evidenti.
Il filo rosso che lega le vicende dei giorni nostri a quelle del passato sembra quindi sempre più chiaro, ma quali sono nel concreto le ragioni che stanno alla base dell’interesse americano per la
Groenlandia?

Le ragioni sono principalmente tre, legate a doppio filo allo scioglimento dei ghiacci (dovuto al cambiamento climatico) ed all’acuirsi delle rivalità tra Stati Uniti da un lato e Cina (e Russia)
dall’altro.

In primo luogo risulta chiave la presenza di ingenti risorse naturali. L’isola danese detiene secondo l’UE 25 dei 34 minerali considerati “materie prime essenziali”, tra le quali alcune delle cosiddette “terre rare”. Minerali di cui abbiamo bisogno per sostenere la produzione di componenti tecnologici indispensabili per affrontare la doppia transizione digitale ed ecologica, ed il cui consumo è destinato ad aumentare in maniera esponenziale a fronte di un’offerta limitata e largamente in mano alla Cina. Inoltre, secondo le stime dello US Geological Survey, la Groenlandia sarebbe ricca di petrolio (si stimano oltre 17,5 miliardi di barili) e gas naturale (si stima il 25% del totale globale).

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Il sottosuolo dell’isola nasconde quindi un’enorme quantità di risorse non ancora sfruttate, la cui estrazione potrebbe diventare più agevole con lo scioglimento dei ghiacci e conferirebbe un
vantaggio competitivo non indifferente alla superpotenza che ne detenesse il controllo.

In secondo luogo, sempre in conseguenza del cambiamento climatico, i mari dell’Artico diventeranno rotte commerciali di facile navigazione. Si stima che i tempi di percorrenza tra Asia ed Europa saranno dimezzati. Non solo: si andrebbe materializzando un’alternativa alle rotte che transitano per il Mar Rosso, attualmente sotto il controllo statunitense, con tutte le implicazioni del caso.

In ultimo luogo, la Groenlandia è parte di un’area rilevante da un punto di vista geopolitico, trovandosi in prossimità dell’America settentrionale ma essendo facilmente raggiungibile, soprattutto in prospettiva, dal blocco eurasiatico. Le implicazioni sulla sicurezza degli Stati Uniti sono quindi evidenti e destinate a crescere, sia per la maggiore assertività delle potenze rivali dell’America, sia per la maggiore navigabilità prospettica di un’area sino ad oggi di difficile percorrenza.

D’altro canto, anche prima del cambiamento climatico e dell’emergere degli attuali assetti geopolitici, l’area in questione era considerata un tassello fondamentale per la sicurezza americana: la Groenlandia fu velocemente occupata dagli Stati Uniti quando la Danimarca cadde sotto il controllo nazista durante la seconda guerra mondiale e poco dopo il termine del conflitto divenne sede dell’imponente base americana di Thule.

Risorse naturali, rotte commerciali, implicazioni per la difesa: lo scioglimento dei ghiacci porterà quindi la competizione tra superpotenze in prossimità dell’Artico. Le dichiarazioni di Trump, che
possiamo condividere o meno nei toni, trovano un’interpretazione molto razionale. Il futuro passa anche dalla Groenlandia.

Alessandro Somaschini

 

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Alessandro Somaschini*, bergamasco, classe 1984, è Vice Presidente Nazionale dei Giovani Imprenditori di Confindustria, Membro del Consiglio Nazionale per la Cooperazione allo Sviluppo presso il Ministero degli Affari Esteri (MAECI) e Membro del Gruppo Tecnico Internazionalizzazione di Confindustria.

È inoltre Membro della Task Force Trade & Investment del B20 – Brasile 2024, engagement group ufficiale della comunità imprenditoriale presso il G20, Membro del Comitato Esecutivo di YES for Europe e Presidente della delegazione italiana della G20 Young Entrepreneurs Alliance, oltre ad essere Consigliere di Amministrazione di diverse aziende bergamasche.
In passato è stato Membro di Task Force all’interno del B20 nelle edizioni organizzate in Italia (2021), Indonesia (2022) e India (2023), ed in precedenza ha ricoperto le cariche di Membro del
Comitato Esecutivo dell’Associazione Italiana dei Costruttori di Organi di Trasmissione (ASSIOT) e di Vice Presidente del Gruppo Giovani Imprenditori di Confindustria Bergamo.
È stato Consigliere di Amministrazione di Somaschini Automotive ed Executive Vice President di Somaschini North America, lavorando negli Stati Uniti nel settore della componentistica meccanica.
Ha cominciato la sua carriera a Roma nel settore Aerospazio e Difesa all’interno del Gruppo Finmeccanica (oggi Leonardo), dopo essersi laureato con lode in International Management presso l’Università Bocconi di Milano.

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