Marocco, stato di diffamazione | il manifesto

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La diffamazione a mezzo stampa è diventato un tema all’ordine del giorno in Marocco, soprattutto dopo che ha colpito il presidente dell’Associazione marocchina per i Diritti umani, Aziz Ghali, “reo” di aver parlato della questione del Sahara Occidentale, rilanciando la posizione ufficiale delle Nazioni Unite, certamente diversa da quella del Marocco, che è il Paese occupante. Una vasta campagna di diffamazione nei suoi confronti è stata accompagnata da una mobilitazione di “troll” online e siti vicini al potere, che l’hanno accusato di tradimento con minacce mirate al suo ruolo di difensore dei diritti umani e alla sua incolumità fisica.

La Commissione marocchina a sostegno dei detenuti politici ha dichiarato che queste aggressioni sono una conseguenza diretta delle posizioni coraggiose di Ghali nel denunciare la corruzione e sostenere costantemente i detenuti arbitrariamente incarcerati e gli oppressi.

IL FENOMENO della diffamazione in Marocco e nel Sahara Occidentale è diventato un problema crescente che minaccia gravemente la società civile. Si è trasformato in uno strumento repressivo fuori controllo, utilizzato dalle autorità per mettere a tacere le voci dissidenti e screditare le figure pubbliche più influenti. Dal 2013, sono stati creati migliaia di siti web e account sui social media, molti dei quali sono direttamente o indirettamente collegati agli apparati di sicurezza.

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Queste piattaforme non offrono contenuti giornalistici obiettivi, ma attaccano chiunque osi criticare lo Stato o affrontare argomenti sensibili come la famiglia reale o la questione del Sahara Occidentale, definito territorio occupato dalle Nazioni Unite, come ha recentemente confermato la Corte di giustizia europea con l’ultima sentenza sugli accordi commerciali tra l’Unione europea e il Marocco.

Le campagne diffamatorie includono accuse di tradimento volte a silenziare i critici e spesso si concludono con pene severe, come nel caso dei detenuti di “Gdeim Izik”, 19 attivisti e giornalisti saharawi che dal 2010 stanno scontando condanne fino all’ergastolo, per aver partecipato a una protesta pacifica durata 38 giorni.

QUESTA PERSECUZIONE sistematica fa parte di una politica pianificata e implementata con mano di ferro dagli apparati di sicurezza marocchini che controllano le istituzioni statali. Un esempio significativo è il caso del giornalista Soulaiman Raissouni, una delle voci audaci che infastidivano il potere con le sue posizioni critiche. Raissouni è stato oggetto di campagne diffamatorie continue volte a distruggere la sua immagine e minare la sua credibilità come giornalista, noto per aver denunciato casi di corruzione. Queste campagne si sono concluse con la sua incarcerazione per cinque anni, ed è stato recentemente rilasciato a seguito della concessione della grazia del re. Tuttavia, appena uscito dal carcere, ha affrontato una nuova ondata di diffamazione e ha dichiarato in un’intervista al quotidiano spagnolo L’indipendente di sentirsi in pericolo, sottolineando che la libertà di espressione in Marocco rimane a rischio. Raissouni ha anche denunciato che i media vicini al regime sono tornati a minacciarlo di arresto per le sue opinioni, in un evidente proseguimento della politica di censura.

In un rapporto di Human Rights Watch di due anni fa, intitolato “Fiq Fiq” (espressione marocchina che significa «Ti colpiranno comunque»), l’organizzazione ha evidenziato il tipo di le tattiche utilizzate dalle autorità marocchine per mettere a tacere i dissidenti.

IL RAPPORTO RIVELA che il governo marocchino ha adottato una serie di mezzi sistematici per perseguire gli oppositori, tra cui il coinvolgimento di 20 attivisti e giornalisti in 8 casi distinti, che hanno portato a 12 procedimenti legali. Gli attacchi condotti dai media vicini agli apparati di sicurezza fanno parte di una strategia chiara. Secondo il rapporto, le autorità marocchine affermano di applicare le leggi penali in modo imparziale, ma in realtà violano una lunga lista di diritti, tra cui il diritto alla privacy, alla salute, alla sicurezza fisica, alla proprietà e a un giusto processo.
Inoltre, hanno minimizzato crimini gravi come lo stupro, la corruzione e lo spionaggio, dimostrando un chiaro abuso di potere.

Il fenomeno della diffamazione non si è limitato a colpire Soulaiman Raissouni, ma ha interessato decine di giornalisti e attivisti, tra cui Omar Radi e Taoufik Bouachrine. Il giornalismo indipendente in Marocco è diventato il bersaglio principale delle politiche repressive, che mirano a soffocare le voci che difendono i diritti umani e la libertà.

IL GIORNALISTA ALI ANOUZLA ha descritto questo fenomeno in un suo articolo come «giornalismo di diffamazione e bullismo», sottolineando che non si tratta di pratiche isolate di siti o giornali non professionali, ma di una politica integrata adottata da media sostenuti dalle autorità. Questi media operano sistematicamente per screditare gli oppositori e diffondere falsità, riducendo la fiducia del pubblico nella stampa e minando i valori di professionalità e deontologia che dovrebbero caratterizzare il giornalismo.

È emerso inoltre che gli apparati di sicurezza marocchini non si limitano ai metodi tradizionali di diffamazione, ma hanno sviluppato notevolmente le loro capacità utilizzando tecniche di spionaggio digitale. L’acquisto da parte del Marocco del programma di spionaggio israeliano “Pegasus” ha rafforzato il controllo sui giornalisti e sugli attivisti. Secondo un’indagine di Amnesty International, le autorità marocchine hanno utilizzato questo programma per violare i telefoni di migliaia di persone in Marocco e all’estero, inclusi funzionari internazionali come il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez. Questi strumenti digitali non sono stati utilizzati solo per la sorveglianza, ma anche per raccogliere dati personali sfruttati successivamente in campagne diffamatorie o per fare pressione sulle vittime e costringerle al silenzio.

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ALL’INTERNO DEL PAESE, la società civile rimane intrappolata tra campagne diffamatorie e una repressione sistematica. La situazione attuale ricorda molto il periodo degli “Anni di piombo” che ha caratterizzato il regno di Hassan II, nonostante le speranze suscitate dall’ascesa al trono di Mohammed VI nel 1999. Il nuovo corso, che avrebbe dovuto segnare una rottura con il passato, non ha portato a un cambiamento significativo nel campo dei diritti umani e della libertà di espressione. Al contrario, si è assistito a un’escalation nelle tecniche di repressione, con l’introduzione di strumenti avanzati per controllare l’opinione pubblica e reprimere gli oppositori.

Giornalisti e attivisti per i diritti umani in Marocco e nel Sahara Occidentale si trovano dunque tra l’incudine della diffamazione e il martello della repressione. Molti di loro sono stati costretti a lasciare il paese in cerca di protezione in Europa e in altri paesi. Tra loro, l’autore di questo articolo, che da tre anni attende di ottenere protezione internazionale, con la speranza che si realizzi nel prossimo futuro.

* Attivista per i diritti umani e giornalista saharawi



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