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di Matteo Castagna

LA LEGGE NATURALE È LA LEGGE ETERNA COLTA DALLA RAZIONALITÀ UMANA

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Francesco M. Civili, giurista del Centro Studi Livatino, ha scritto un interessante articolo in merito al giusnaturalismo, che, se non accuratamente spiegato, potrebbe trarre nell’inganno protestante, anche i fedeli cattolici più in buona fede, ma meno avvezzi a determinate distinzioni teologico-dottrinali.

Quando parliamo di giusnaturalismo, “intendiamo una dottrina politico-filosofica che afferma l’esistenza di una legge morale, su cui il diritto positivo deve fondarsi per essere considerato legittimo”. Gli studiosi distinguono ben tre tradizioni del diritto naturale. La prima è quella del cosiddetto “giusnaturalismo classico”, che include autori greci, latini e cristiani (dai Padri della Chiesa fino all’età umanistico-rinascimentale); la seconda è quella del “giusnaturalismo moderno”, che inizia con autori quali Ugo Grozio e Thomas Hobbes e termina circa agli inizi dell’Ottocento. La terza tradizione è quella del “giusnaturalismo contemporaneo”, ovvero quello del filosofo tedesco Jürgen Habermas, teorico della cosiddetta Diskursethik o Etica del discorso.

La prima tradizione interessa tendenzialmente filosofi e giuristi di orientamento cattolico, la seconda è propria di ambienti liberali, la terza attira studiosi appartenenti a scuole di pensiero differenti (hegelo-marxiani, modernisti progressisti e conservatori etc.).

Quanto a noi cattolici, possiamo, e, forse, dobbiamo riferirci a San Tommaso d’Aquino (1225-1274), che ha sviluppato un’originale e sistematica dottrina del diritto naturale, senza prendere in considerazione il giusnaturalismo quale dottrina a sé stante. La Prima Secundae della Summa Theologiae è la sezione in cui San Tommaso espone la dottrina del diritto naturale.

Nel Libro V dell’Etica Nicomachea, Aristotele dedica poche righe al diritto naturale, distinguendo tra il “giusto naturale” e il “giusto legale”.

Il diritto naturale trova la piena manifestazione nella comunità civile, poiché l’essere umano è animale sociale. Un dettaglio interessante, però, è che Aristotele considera il diritto naturale mutevole: «presso di noi [mortali] ci sono cose che, pur avendo anche la caratteristica di essere per natura, ciononostante sono del tutto mutevoli». Il dott. Civili, a questo punto, spiega molto bene che questo passaggio, ritenuto ambiguo, viene commentato dall’Aquinate, così da fornire la giusta interpretazione: (…) “le affermazioni di Aristotele andrebbero interpretate distinguendo i precetti primari e quelli secondari della legge naturale. I primi sono da considerare immutabili e universali, mentre i secondi sono regole naturali che vengono percepite in maniera diversa a seconda del contesto culturale e geografico.

I precetti primari sono i doveri conosciuti immediatamente attraverso quella che i Padri della Chiesa chiamavano “synderesis”, ossia il sentimento morale della coscienza umana, che permette di distinguere il bene dal male, e il primo precetto primario (“si deve fare il bene ed evitare il male”) è considerato alla stregua del principio di non-contraddizione. Tuttavia, nel momento stesso in cui i precetti primari si applicano alla realtà diveniente, vengono generati i precetti secondari, che sono soggetti al mutamento.

Per dimostrare questa seconda specie di doveri naturali, San Tommaso riprende una testimonianza, raccontata nel De bello Gallico di Giulio Cesare, secondo cui i popoli germanici consideravano reato il furto soltanto quando era praticato all’interno della propria tribù, mentre era lecito derubare membri di altri clan. Evidentemente, questa concezione del furto non era contemplata dal diritto romano.

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Per S. Tommaso d’Aquino, l’agire umano si costituisce di due principi, uno interno e l’altro esterno: il primo è la virtù, che rappresenta le eccellenze della natura umana (la sapienza, il coraggio, la temperanza etc.) ed è il fine verso cui l’uomo tende per realizzare il proprio essere. Il secondo è la legge, che guida l’agire umano verso il suo fine ed è orientata al bene comune.

Riguardo alle caratteristiche generali della “legge”, San Tommaso scrive: «[…] Si può sintetizzare la definizione della legge, la quale non è altro che un comando della ragione, ordinato al bene comune, promulgato da chi ne è incaricato da una collettività». Tuttavia, la legge non è una, ma ce ne sono di diverse “species”.

In ordine gerarchico, il primo tipo di legge è la “legge eterna” (lex aeterna) ed è quella che regge tutto l’universo, creato da Dio. Tale legge non è accessibile a nessuna creatura se non a Dio, che coincide con essa. Quando la legge eterna ha a che fare con le creature razionali (gli esseri umani), essa si manifesta alla loro ragione come “legge naturale” (lex naturalis): «la legge naturale non è altro che la partecipazione della legge eterna nella creatura razionale».

La legge naturale è quindi la legge eterna, colta dalla razionalità umana: «Gli uomini hanno dunque la possibilità di accedere alla legge di natura tramite il loro lume altrettanto naturale e possono utilizzare il ragionamento pratico […] per applicare tale legge ai casi particolari». Come già detto prima, i precetti primari della legge naturale sono considerati doveri universali e immutabili e sono le seguenti massime: “si deve fare il bene ed evitare il male”, “non si deve fare torto/male a nessuno”, “si deve anelare alla verità”, “si deve essere riconoscenti per i benefici ricevuti” o “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.

Tali precetti, spiega sempre il dott. Francesco Civili, sono il minimo indispensabile per la convivenza tra gli uomini e permangono anche nelle società umane, poiché l’essere umano è per natura animale sociale, ma, a contatto con la realtà mutevole, generano precetti naturali secondari che possono essere interpretati in maniera diversa dalle varie popolazioni – come, ad esempio, la massima di “non rubare”. È chiaro che, essendo la natura umana mutevole e corrotta dal peccato originale, non basta solo la legge naturale per una retta convivenza tra gli uomini, pertanto è necessaria un’altra legge che abbia potere coercitivo, ossia la legge positiva.

La legge positiva è definita da Tommaso d’Aquino come “legge umana” (lex humana), che ha la funzione di vietare i vizi più gravi (furto, omicidio etc.) e promuovere le virtù più importanti nella convivenza comunitaria (il bene comune, l’altruismo etc.). Si badi bene che Tommaso non intende assolutamente far coincidere la moralità umana con la legge positiva, come invece, erroneamente, tenterà di fare una certa letteratura pseudo-cattolica successiva, appellandosi a lui: «parte della successiva tradizione del pensiero cattolico ha spesso tentato di far coincidere l’ambito generale della moralità con quello della legislazione positiva».

Il legislatore, infatti, deve limitarsi a promuovere leggi generali, al fine di orientare la società al bene comune, e i precetti primari della legge naturale gli sono d’aiuto in questo: ad esempio, l’enunciato normativo “si deve fare il bene ed evitare il male” gli permette di discernere tra leggi giuste ed ingiuste. Quando il legislatore tradisce l’obiettivo del bene comune per interessi personali, i sudditi hanno diritto di resistenza, rifiutandosi di seguire le leggi: «se nasce un caso in cui l’osservanza di tale legge è dannosa al bene comune, allora essa non va osservata». Lo stesso vale quando la legge va contro Dio: «le leggi possono essere ingiuste perché contrarie al bene divino: come le leggi dei tiranni che portano all’idolatria o a qualsiasi altra cosa contraria alla legge divina».

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Tuttavia, è importante chiedersi come il diritto positivo derivi da quello naturale e l’Aquinate individua due modi nella Sententia libri Ethicorum, rifacendosi alla Retorica di Cicerone. Il primo modo avviene quando un precetto naturale secondario diventa legge positiva, «p. es., dal principio che non bisogna danneggiare ingiustamente nessuno segue la conclusione che non bisogna rubare, e anche questa norma fa parte del diritto naturale»; il secondo, invece, è «quello della determinazione, […] p. es., che il ladro vada punito è un giusto naturale; ma che vada punito con questa pena oppure con quella è stabilito dalla legge positiva».

Questa distinzione viene ribadita anche nella Summa Theologiae. Da questi due modi, attraverso cui le norme positive derivano dalla legge naturale, emergono due diversi tipi di diritto positivo: dal primo modo, il “diritto delle genti” (o jus gentium) e, dal secondo, il “diritto civile” (o jus civile). Il diritto delle genti è riconosciuto in tutte le nazioni, «p. es., che bisogna rispettare i patti che gli ambasciatori godono di immunità anche presso i nemici e altri principi di questo genere»; al contrario, il diritto civile è su misura di un determinato regno, impero o repubblica.

Infine, il genio di San Tommaso individua un quarto tipo di legge, ossia la legge divina (o lex divina): si tratta della legge «promulgata positivamente da Dio e comunicata attraverso le Scritture (Antico e Nuovo Testamento)». Questo tipo di norma serve per orientare la moralità dell’uomo verso il suo fine ultimo (la beatitudo, ossia l’eterna beatitudine) e arriva lì, dove la legge positiva non può arrivare, poiché la funzione di quest’ultima è solo quella di regolamentare i rapporti sociali.

La legge divina, infatti, proibisce vizi e promuove virtù, di cui il diritto positivo non si occupa. Sulla linea della tradizione teologica, l’Aquinate distingue tra la “legge veterotestamentaria”, che riguarda «soprattutto il bene sensibile e terreno» e si fonda «sul timore delle pene», e la “legge neotestamentaria”, che è incentrata sul bene «intelligibile e celeste» e trova fondamento nell’amore, «infuso nel cuore degli uomini attraverso la grazia di Cristo».

Per il protestante Ugo Grozio, poiché l’uomo è un animale sociale, è per sua natura portato a relazionarsi coi propri simili, anche se gli egoismi e gli interessi individuali sono causa di conflitti. Gli uomini devono quindi darsi delle leggi per poter vivere insieme. Essi istituiscono tra loro un patto, rinunciando a una parte dei poteri che ciascuno ha, in quanto essere libero in natura. L’obiettivo di questo patto è l’utile, quale forma necessaria di benessere diffuso tra tutti gli uomini. Questa deriva utilitaristica è cattolicamente immorale.

Il filosofo tedesco Jürgen Habermas critica il metodo del “conoscere oggettivante”. Questo lo ha condotto sulla via della fondazione di una nuova ragione comunicativa, che ritiene possa liberare l’umanità dal principio di autorità. Egli considera solo il paradigma conoscitivo intersoggettivo quale elemento fondativo di una nuova ragione comunicativa, che possa andare al di là di un astratto paradigma della soggettività, di cui peraltro sollecita l’abbandono. Sostiene la Teoria neomarxista di Francoforte e la comunicazione libera da qualsiasi condizionamento di potere, per cui l’agire comunicativo indica la possibilità di un’unione sociale non coercitiva, basata sul criterio di riconoscimento intersoggettivo non violento, orientato all’intesa ed alla democrazia deliberativa, non rappresentativa.

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Si tratta di elementi di matrice hegeliana che ritroviamo in alcuni movimenti, cosiddetti “del dissenso”, ma funzionali al Sistema, nati dopo il 2020, con la scusa dell’opposizione ai vaccini contro il Covid-19, animati da soggetti, spesso neomarxisti o beoti destroidi, che, parlando di Dio in astratto, o non parlandone proprio, utilizzano questa tecnica comunicativa giusnaturalista contemporanea, per ottenere una claque di like sui social o di fans in TV, di spettatori alle conferenze o di lettori. Non fatevi ingannare dai lupi travestiti da agnelli, né da cialtroni conclamati che non hanno mai prodotto nulla nella vita!



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