Oliviero Toscani, cavallo pazzo. In un paese di morti viventi, io voglio ricordarlo da vivo

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Esaurita l’ondata di necrologi e dichiarazioni postume di grande stima e amicizia verso una persona che è appena venuta a mancare e di cui, possibilmente, si è parlato male fino al giorno prima, come è uso comune in Italia, io Oliviero voglio ricordarlo da vivo. Perché anche ora che non c’è più resta per me una delle persone più vive che abbia conosciuto in questo paese di morti viventi. Un generoso, che non si risparmiava mai in nulla, né sul lavoro né tantomeno nelle sue passioni e nell’amicizia. Un vortice umano che si ricaricava nella tenuta di campagna che si era costruito fin dagli anni 70 a Casale Marittimo in provincia di Pisa, dove tra l’altro coltivava la sua grande passione: i cavalli. Non erano cavalli qualsiasi, ma Appaloosa, quelli dei pellerossa nei film western.

E, come nei film western, diventammo amici dopo una simbolica scazzottata, alla fine di una lunga intervista che gli feci per Playboy più di trent’anni fa. Qualche tempo addietro, avevo firmato una campagna pubblicitaria che invitava a boicottare Benetton e aveva fatto anche abbastanza clamore. Il casus belli fu un’affissione con dei corpi tatuati con la scritta “HIV-Positive”. I sieropositivi si sentirono additati come “untori” e una loro associazione internazionale (Positifs) volle rispondere a sua volta con una campagna che invitava a boicottare Benetton. L’azione fu firmata da Nautilus, la prima agenzia virtuale italiana di pubblicità interamente dedicata al non profit. Terminata l’intervista, decisi di rischiare rivelando a Toscani che dietro a Nautilus c’ero io. “Quindi sei stato tu!” esclamò, “Che gran figlio di puttana…” e fece finta di darmi un cazzotto ridendo. Da allora con Oliviero è iniziato uno scambio che è durato negli anni.

Le reazioni per il suo lavoro se le aspettava sempre, ma non se ne curava minimamente, lui seguiva la sua strada rompendo tutte le staccionate della pubblicità e del marketing, come un cavallo selvaggio. Le sue campagne furono anche denunciate e condannate dalla massima autorità pubblicitaria italiana, lo IAP, mentre all’estero erano fatte oggetto di studi e venivano premiate. Tanto, Oliviero continuava imperterrito. Proclamò guerra alla congregazione dei pubblicitari e disse che stava preparando un processo di Norimberga per i crimini che avevano commesso. Già mi immaginavo il mite Paolo Landi, direttore delle relazioni esterne del gruppo Benetton, nei panni di Simon Wiesenthal. Che cosa rimproverava Oliviero ai pubblicitari? La mancanza di coraggio. Una volta mi disse che non aveva mai sopportato fare le cose quando sono “sicure”, perché quando lo sono vuol dire che manca la creatività.

Diceva: “Mi piace viaggiare su campi minati, fare cose in cui a volte non dico che ho paura ma mi chiedo ‘chissà se è giusto oppure sbagliato’… Ma in fondo non mi interessa neanche saperlo! Faccio cose che sono ai limiti forse della mia stessa etica”. Oliviero estendeva questo credo a un manifesto politico: per lui la rivoluzione dev’essere soltanto del pensiero, e dev’essere costante. Diceva: “Bisogna avere un pensiero costantemente rivoluzionario, bisogna rimettere in discussione tutto quello che si è fatto la volta prima, e non fare mai i ‘test’ delle cose prima di farle, come sono abituati i pubblicitari. Anzi, dovrebbe essere il contrario: bisognerebbe testare il lavoro dopo, e non aver mai paura di sbagliare. Il vero sbaglio è non fare niente”. La verità è che Oliviero era un istintivo. Perfino le sue più grandi provocazioni erano, per dirla in termini fotografici, nient’altro che delle istantanee, frutto di un intuito creativo e di un tempismo che non sbagliava mai.

In diversi momenti ho avuto il privilegio di condividere le sue fulminanti intuizioni sul mondo, sulla vita, sulla politica e la sua allegria contagiosa. Come quando parlammo delle “seghe mentali” (come le chiamava lui) che si facevano semiotici, sociologi della comunicazione, critici d’arte, intorno alle sue campagne, definendole “sociali”. “Ma io non faccio pubblicità sociale!” esclamò fingendosi indignato, “io faccio pubblicità asociale!”. E giù a ridere.

Oppure quella volta che fummo chiamati entrambi, l’uno all’insaputa dell’altro, da un collaboratore di Beppe Grillo che ci coinvolse in un grande brainstorming collettivo per decidere il nome del suo nuovo Movimento. Al telefono, chiesi come intendevano procedere. Mi fu risposto che le mie idee sarebbero state messe insieme a quelle di studenti, docenti universitari, attivisti, pensionati e casalinghe e poi gli spunti migliori sarebbero stati selezionati e combinati fra loro, si sarebbe fatta una seconda scrematura e così via fino alla soluzione definitiva.

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Risposi: “Ma non si lavora così: dovete chiamare solo dei professionisti. Non si può lavorare con un’intera assemblea di gente qualsiasi, ne esce fuori solo un casino”.

“Noi lavoriamo così, per noi siamo tutti uguali e mettiamo insieme le nostre idee per decidere sempre insieme e all’unanimità qual è la migliore”, disse al telefono il coordinatore grillino. “Comunque abbiamo coinvolto anche Oliviero Toscani”.

Chiamai Oliviero al telefono: “Senti ma per caso quelli di Grillo ti hanno chiesto una consulenza?”

“Sì, per scegliere il nome di un nuovo movimento che peraltro ha già un marchio con cinque stelle. Movimento Cinque Stelle, boh… Ma tu come lo sai?”

“Perché hanno chiamato anche me. E cosa gli hai detto?”

“Ho detto: ‘Ma che cos’è? Un albergo?’”

“Esattamente la stessa cosa che ho detto io”.

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“E quello insisteva a spiegare che le stelle erano i cinque punti del programma…”

“E chi potrebbe capirlo?», dissi.

“Appunto. Diceva che avrebbero preso in considerazione anche altre indicazioni, ma tutti ormai si stavano orientando verso quello perché ‘a Grillo piace tanto’ …”

“Ecco, qui io gli ho risposto: “Ma allora perché mi avete chiamato?””

“È esattamente quello che gli ho risposto anch’io!”, esclamò Oliviero.

Ridemmo.

“Guarda, preferisco starmene qui in campagna con i miei cavalli, piuttosto che aiutare certa gente a farsi una campagna, oltretutto gratis”, concluse.

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I cavalli erano la sua “famiglia allargata”. Aveva cominciato regalando a sua figlia un cavallo destinato al macello. Fino a quel momento non aveva mai pensato di possedere un cavallo. Poi girando per gli Stati Uniti comprò una puledra del ’74. In breve arrivò ad averne una cinquantina. Mi disse: “Sono come una collezione di quadri che tengo per il piacere della famiglia e qualcuno lo vendo ad altri collezionisti di cavalli. I primi li ho comprati negli Stati Uniti per avere certe linee di sangue: molti di loro sono diventati dei campioni laggiù. Tanto che negli Usa pensano che questo sia veramente il mio mestiere… o forse è veramente il mio mestiere?”.

D’altra parte era nato nell’anno del Cavallo, secondo l’oroscopo cinese. Un segno impetuoso, caratterizzato da una costante ricerca della libertà, dell’anticonformismo. Sarà per questo che è sempre stato difficile stargli dietro.



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