Il ritorno verso nord. E da Rafah i camion con gli aiuti «Non è il momento di celebrare, ma di piangere vicini» Sbucano le divise di Hamas, sui pick up tirati a lucido
Di: Davide Frattini – Corriere della Sera
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L’anziano palestinese tiene in braccio il generatore, i cavi penzolanti come le arterie di un cuore da trapiantare. È pesante da portare quanto il pensiero che la casa dove installarlo non esiste più. Eppure, il pulsare dell’elettricità può garantire la sopravvivenza nel buio del nord di Gaza dove gli abitanti stanno ritornando disorientati dall’assenza dei vecchi riferimenti: la moschea, il forno del panettiere, gli incroci tra le strade, le vie in salita adesso spianate. Di corsa, saltando sulle stampelle, al passo strascicato di chi in questi 471 giorni di guerra è già stato sfollato dalla propria abitazione, dall’appartamento di un amico, da una scuola trasformata in ricovero, dalle tende accampate lungo la spiaggia. Con le povere cose sulle spalle, i ricordi in un sacchetto di plastica, a migliaia attraversano la famigliarità della distruzione — questo conflitto è stato il più lungo tra i cinque maggiori combattuti da Israele contro Hamas a partire dal 2007 — in un territorio che di famigliare non ha più nulla: sono i volti dei vicini ritrovati, i sorrisi mesti tra i superstiti, a creare un paesaggio umano in mezzo ai palazzi accartocciati. Le Nazioni Unite calcolano sia stato danneggiato o distrutto l’85 per cento degli edifici, i resti di cemento visibili dal kibbutz israeliano Kfar Aza come guglie in rovina sull’orizzonte.
Quasi 47 mila morti
La polvere è ovunque, la sabbia si è ripresa tutto, il verde è stato arato dai cingolati dei carrarmati per seminare la morte e raccogliere quella «vittoria totale» propagandata dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Il bianco dei pick up su cui sfilano i miliziani jihadisti — mostrato nelle immagini che arrivano da Gaza — abbaglia l’aria color ocra e viene da chiedersi dove abbiano trovato l’acqua per tirarli a lucido, mentre la popolazione assetata si accalca da mesi a recuperare qualche litro nei secchi di plastica, come possano passare trionfanti tra lo sfacelo di un’offensiva ordinata dopo la mattanza del 7 ottobre 2023, i massacri pianificati dal loro capo Yahya Sinwar — eliminato il 16 ottobre dell’anno scorso — che la sera prima degli assalti in Israele si preoccupava di rendere confortevole il bunker sotterraneo, di portarci lo schermo gigante al plasma e i viveri. Gli altri lasciati di sopra a morire, i palestinesi uccisi in questi sedici mesi sono quasi 47 mila.
La voce di Ahmed
«Non è il momento di celebrare — dice Ahmed Abu Ayham da Khan Younis, la città dov’è nato e da dove è dovuto scappare —. Dobbiamo abbracciarci e piangere». In tanti esultano assieme ai paramilitari con i passamontagna neri, le bandiere verdi del gruppo a sventolare nella fuliggine salmastra. Ma a festeggiarli sono molti meno del novembre di due anni fa al primo scambio di prigionieri.
Gli ultimi attacchi
Beit Hanoun, Beit Lahia, Jabalya. L’esercito ha intensificato i bombardamenti sulle zone a nord fino alle ultime ore, i portavoce dichiarano di aver ammazzato «3 mila terroristi dall’inizio della nuova operazione lo scorso ottobre». Almeno la terza da queste parti perché la strategia per il dopo — la volontà di impedire all’Autorità Palestinese di prendersi il controllo del territorio imposta dal premier Netanyahu — ha permesso ad Hamas di riorganizzarsi costringendo i generali a tornare in quadranti «ripuliti». Adesso sono le ruspe dell’organizzazione fondamentalista che spadroneggia su Gaza dal 2007 — quando l’ha sottratta con un golpe armato al presidente Abu Mazen — a smuovere le macerie. E sono i suoi poliziotti a dirigere l’esodo dei disperati.
Ancora un drone
«È bello avere solo il cielo sopra la testa», commenta un palestinese. Almeno un drone sorvola ancora i 363 chilometri quadrati, da lassù il rumore incessante da tagliaerba non assorda ma riesce a soffocare il silenzio, i pensieri, la tristezza anche quando le bombe non esplodono più. Gli egiziani, tra i mediatori dell’intesa, annunciano che i 280 camion con gli aiuti sono entrati nella Striscia quindici minuti dopo l’inizio della tregua. Hanno fretta e con loro i leader del Qatar: non vogliono lasciare tempo ai fondamentalisti di rimettere in piedi l’amministrazione civile, di dimostrare agli oltre due milioni di abitanti che dipendono sempre da loro.
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