Dai giovani per i giovani: come i ‘social brand’ conquistano la gen z

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Oggi più che mai lanciare un brand non significa solo vendere prodotti, ma raccontare una storia autentica e di valore. Lo storytelling – forse uno dei termini più inflazionati nel fashion system – rimane ancora un’arma potente, che se supportata da una comunicazione efficace e al passo con i tempi può fare breccia nei desideri dei giovani consumatori, in particolare quelli della tanto discussa Gen Z. Una generazione che, secondo recenti studi, si è ‘disinnamorata’ del lusso. Ma anche una generazione che non si accontenta di comprare un semplice prodotto e che vuole invece identificarsi in un messaggio, sentendosi parte del pezzo di storia che sta acquistando.

QUESTIONE DI COMMUNITY

Proprio questo desiderio di appartenenza è il segreto dietro il successo, economico quanto social, dei ‘brand di nuova generazione’. Label capaci – rispolverando un fenomeno figlio degli anni ‘80-90 – di riunire intere community intorno a un’identità condivisa. Questi progetti, spesso nati online poco prima o durante la pandemia, si distinguono per un approccio alternativo: bypassano in alcuni casi canali tradizionali come il wholesale o attività come l’advertising, puntano tutto su e-commerce agili, strategie social, dove spesso il capo fa solo da ‘contorno’, e l’immagine dei founder stessi (in molti casi già giovani content creator) come primi ambassador del marchio. Tra i protagonisti di questa scena emergente, con un forte radicamento in Europa e una particolare ‘vivacità’ nel mercato spagnolo, spiccano nomi come i barcellonesi TwoJeys e Nude Project, i madrileni Eme Studios e Scuffers, e gli italiani FiveFourFive e Garment Workshop. Alle loro spalle i numeri non sono piccoli: per dare un’idea del business di due player, il brand di fashion jewelry e apparel fondato nel 2019 dai 27enni Biel Juste Calduch e Joan Margarit ha archiviato – riportava The Business of Fashion – 4,5 milioni di euro nel 2022 e una crescita a +60% nel 2023, anno che li ha visti approdare a Londra per inaugurare il primo punto vendita al di fuori della Spagna. Quest’anno hanno invece festeggiato gli opening di Amsterdam e Parigi.

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Guardando all’Italia, FiveFourFive, il brand di streetwear accessibile e made in Italy lanciato quattro anni fa dal content creator Luca Santeramo, ha raggiunto nel 2023 un fatturato di circa 4,8 milioni con una crescita record – come segnalava Il Sole 24 Ore – di oltre l’800 per cento. Ora il brand punta a chiudere il 2024 con un fatturato vicino ai 6 milioni di euro e a consolidare un seguito che, sommando i profili Instagram @sante e @fivefourfive, conta quasi 500mila follower. “Il centro del progetto è sempre stato Luca (Santeramo, ndr). Quando il brand è stato fondato lui aveva già un’importante presenza social, che allora contava 80mila follower, uno zoccolo duro di seguaci che è stato fondamentale per iniziare il progetto – spiega a Pambianco Magazine Marco Amodio, general manager di FiveFourFive -. Ad oggi molta della nostra forza proviene proprio da lì: i ragazzi che vengono ai nostri eventi (che come nell’inaugurazione del recente pop-up di Roma raccolgono letteralmente file di giovanissimi in coda persino dalla notte, ndr) vedono Luca come un punto di riferimento. Un idolo raggiungibile, partito con un sogno nella sua cameretta e un budget di 1.500 euro dopo il lancio del primo merch”. A far crescere quel sogno, che si concretizzerà ancora di più con l’apertura nel 2025 di un primo punto vendita a Milano, sono stati proprio ‘i ragazzi’, catturati dai continui drop del marchio. “La cosa più affascinante è proprio questa: il senso di community che siamo riusciti a creare – prosegue il manager -.Vediamo che i ragazzi, che hanno circa dai 17 ai 27 anni, hanno voglia di incontrarsi. Vogliono sentirsi parte del brand e avere dei valori al di fuori di quello che è il singolo capo. Il prodotto deve ovviamente essere bello, ricercato e di qualità, però da solo non funziona. Ci vuole un racconto da comunicare”.

MIGLIOR TEMPISMO, MENO CANALI

A rendere particolare la casistica dell’azienda, come per la maggior parte dei marchi citati, sono anche le scelte di non voler entrare nel canale wholesale e di non fare adv: “Da parte di alcuni showroom c’è stato più volte l’interesse. Ci sono tanti brand nati con la nostra stessa filosofia che poi hanno approcciato il wholesale e hanno dovuto alzare il prezzo. Noi – precisa Amodio – non abbiamo mai voluto entrare nel wholesale – e penso che non lo faremo mai – proprio per questo motivo, perché il direct to consumer ci permette di stabilire il pricing e di non snaturare il brand, senza correre il rischio che qualcuno lo racconti male. Preferiamo una crescita più lenta, aprire i nostri store, in maniera, diciamo, autonoma. Crediamo che questo dia più forza a tutto il progetto. Rispetto all’advertising non ne abbiamo mai avuto bisogno. Nel senso che il nostro prodotto finisce veramente in fretta, quindi è qualcosa su cui non investiamo. Non ci appartiene e non ci piace neanche troppo per il momento. Preferiamo investire il budget di un adv per realizzare delle campagne e delle experience fatte meglio”.

Non solo aggregazione, valori e una buona comunicazione, a dare l’ultima spinta al successo di questi marchi dalla creatività prettamente street è stato anche il recente scricchiolio del luxury streetwear, che, esploso nel 2017 ma preso dal generale aumento dei prezzi del settore (complici felpe logate che superano i 700 euro), ha perso appeal – proprio come dimostrano le problematiche finanziarie dei gruppi che li raccolgono. “Parte della riuscita è dovuta anche dal tempismo – conclude Amodio -. Circa un anno prima dell’arresto (del trend dello streetwear di lusso, ndr) abbiamo capito che il nostro potenziale cliente non avrebbe più avuto intenzione di spendere così tanti soldi per un abbigliamento di questo tipo, che alla fine sono casualwear e streetwear ma con prezzi ormai insostenibili”.



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