I dubbi sull’effettiva applicazione per i pm

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L’approvazione in “prima lettura” da parte della Camera dei Deputati del disegno di legge costituzionale per la modifica di alcuni articoli della nostra Carta fondamentale finalizzata ad introdurre la cosiddetta separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, ha incontrato, com’era scontato, l’opposizione della  corporazione dei magistrati italiani: espressa sonoramente per bocca del loro presidente in uscita, Giuseppe Santalucia, uomo che si caratterizza per inscalfibili convincimenti, che ripete con consuete recitazioni.

Ed uso questo termine consapevole che può essere poco gradito, perché non trovo di meglio per definire un argomentare, che argomentare non mi pare essere, fatto com’è di mere affermazioni, connotanti concetti fumosi, mai realmente definiti, men che mai riscontrati nella realtà dell’esperienza, l’unica che ha valore quando si tratti di cose umane e quando sia esaminata con l’ausilio di categorie di giudizio ben forgiate, appunto sull’esperienza maturata nel tempo.

Le ragioni di cui si servono i magistrati italiani nella loro rappresentanza associativa – non individualmente presi, perché lì le differenze esistono eccome – sono sempre le medesime: che il pubblico ministero, separato dall’ordine dei giudici, perderebbe la ‘cultura della giurisdizione’ e diventerebbe un superpoliziotto; che il Governo bieco intenderebbe mettere le mani sul titolare della pubblica accusa, farne un proprio segugio, avere così nelle mani chi potrebbe accusare politici e rendere questi ultimi i veri principidel Paese.

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Un quadro di sintesi davvero preoccupante, se corrispondesse a qualcosa di realistico; non sembrerebbe, ma questo non possiamo in astratto smentirlo con certezza, dato che non l’abbiamo ancor visto all’opera; e le differenze culturali, istituzionali, storiche che distinguono ogni Paese dagli altri, rendono sin troppo azzardate comparazioni superficiali, andrebbero piuttosto condotte indagini attente per ricavare indicazioni precise da confronti e parallelismi.

E se proprio volessimo azzardare, beh un Paese a noi molto vicino per cultura ed istituzioni, la Francia, ha un pubblico ministero sotto il controllo del ministro della Giustizia ma ha anche visto perseguire e condannare un suo ex presidente della Repubblica per reati comuni. Torniamo ad una verifica più analitica degli argomenti usati dall’ANM per gridare allo spreco di Costituzione che si starebbe consumando. Pubblico ministero allontanato dalla ‘cultura della giurisdizione’. Che vuol dire? Di solito non viene chiarito, proverò a farlo io.

Dovrebbe significare che l’appartenente alla giurisdizione dovrebbe essere terzo, distante dagli interessi, irriguardoso d’ogni condizionamento, foss’anche della sua appartenenza ai ranghi dello Stato: dato che lo Stato ne assicura l’indipendenza e lo pagherebbe per ciò. Bene, cosa c’entritutto ciò con chi è chiamato dapprima ad investigare – essendo il dominus della polizia giudiziaria (ed è gelosissimo di questo potere) – proprio a tal fine? Com’è immaginabile che costui possa mantenersi terzo ed oggettivante, quando deve seguire con fiuto felino ogni o pur minimo indizio per mettersi sulle tracce dell’autore del crimine o da lui supposto tale?

Si trova quel che si cerca, insegna un adagio che circola tra gli storici. Come può credersi – e pretendersi – che chi deve trovare prove a carico di qualcuno, ricorrendo a mezzi investigativi invasivi quanto lo sanno essere le odierne diavolerie tecnologie, e deve assumere una postura di sospetto, sollecitare la propria capacità immaginativa per configurare scenari credibili che diano forma ad una responsabilità, valorizzare in certa prospettiva ogni elemento a disposizione, possa poi coltivare la ‘cultura della giurisdizione’ che, tutt’all’opposto, ha il compito d’esaminare freddamente il materiale che le viene fornito nel processo sulla scorta delle indagini nel fuoco dialettico di accusa e difesa?

Il giudicare impone d’essere dall’esterno osservatore vigile, l’investigare di porsi all’interno della vicenda con agire fattivo ed attivo, nel perseguimento di un’ipotesi più o meno fondatamente maturata. Insomma, due mondi incompatibili. Come pure, cosa ci dice il rischio del ‘superpoliziotto’ sventolato qual drappo rosso dinanzi alla pubblica opinione? A parte che bisogna sempre assumere un atteggiamento vigile dinanzi alle parole ad effetto, mai definite.

Ma se proprio ci si volesse porre all’ascolto, allora bisognerebbe sapere che il pubblico ministero è – già ora – il capo della polizia giudiziaria, vale a dire che la coordina lui e ordina ad essa cosa fare e come sviluppare le indagini, insomma impartisce le opportune istruzioni, quando non partecipa anche in prima persona alle relative operazioni. È lecito già ora chiamarlo ‘superpoliziotto’?

Se sì, come certamente è, almeno nell’ora esplicitato significato che sembra ben accomodarsi nel lemma, allora il problema nemmeno si propone: perché superpoliziotto il nostro P. M. è e dunque è anche bene venga regolato per tale, nel senso che non sia nella medesima corporazione dei giudici, dato che è ben noto come primo effetto d’ogni corporazione – di tutte, giudici compresi, dato che anch’essi uomini sono – sia lo sviluppare spirito di corpo, o d’appartenenza che si dica. Quanto al fatto che l’attuale riforma ponga i pm sotto il potere esecutivo, il rischio, ahimè, è il contrario e va vigilato: che cioè si sentano più forti, forti del loro autonomo Consiglio superiore.

Ma le riforme non si fanno mai tutte in una volta e nessuna è perfetta, maestra resta sempre l’esperienza. Per parte mia, la funzione del titolare dell’azione penale è politica, per cui di ciò si dovrebbe tenere conto nella selezione e nella regolazione dello status dei relativi rappresentanti. Le riforme, si diceva, han da essere graduali, perché devono procedere sotto il lume dei fatti che mostrano sempre e comunque qual è la realtà: solo, ci vuol del tempo perché questa sia ben chiara e visibile e possano trarsi le doverose conseguenze. Siamo al primo passo, credo nella giusta direzione, con tutti i dubbi delle cose esistenziali. E le obiezioni che vengono sollevate aiutano a credere che non si sta sbagliando.

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