Il Forum economico di Davos alla prova mondo in guerra

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“L’apoliticità non esiste. Tutto è politica“. Anche l’economia. Negli ultimi anni, con buona pace della vecchia retorica della globalizzazione, anche gli interpreti del World Economic Forum hanno dovuto rendersene conto. A tal proposito, sarà interessante capire quanto di questa novità sarà espressa nell’edizione 2025 dal titolo “Collaborazione nell’età dell’intelligenza”, che inizia oggi a Davos, nelle Alpi svizzere, per durare fino al 24 gennaio.

L’edizione 2025 di Davos vedrà presenziare, da remoto, il neoeletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump, sarà partecipata da leader del calibro di Javier Milei, Presidente dell’Argentina, Olaf Scholz, Cancelliere Federale della Germania, Muhammad Yunus, Consigliere capo del Governo del Bangladesh e già vincitore del Nobel della Pace, Matamela Cyril Ramaphosa, Presidente del Sudafrica e Pedro Sánchez, Primo Ministro della Spagna. Oltre a loro, un’ampia sfilza di studiosi, accademici e celebrità, dal politologo Niall Ferguson a David Beckham.

Al centro dei dialoghi, il nuovo, importante paradigma del primato generalizzato della sicurezza nazionale sulla prosperità che sta condizionando lo sviluppo del pianeta in senso differente dalla tradizionale narrazione di Davos, centrata su una lettura positivista della globalizzazione. Questo conferma l’attualità della citazione di apertura, tratta da un romanzo del 1924 di Thomas Mann, “La montagna incantata”. 

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“La montagna incantata” racconta il presente

Non è una scelta letteraria casuale, la nostra. Il romanzo parla al mondo d’oggi. Mann lo ambienta a Davos, simbolo della Zauberberg che dà il nome al testo. La montagna era il simbolo dell’isolamento dell’uomo del tempo presente. Mann parlava del mondo di ieri per riferirsi a quello di domani. Il suo romanzo è ambientato a Davos, ridotta serena in un mondo assediato da guerre, pandemie, rivalità. Un’isola felice prossima a sprofondare. Mann parlava a un’Europa che aveva ben in mente il 1914 pensando a quelle che Johan Huizinga avrebbe definito le “nebbie del domani” (Schatten von morgen): l’epoca dei totalitarismi e della seconda guerra mondiale.

Cento anni dopo, il libro di Mann parla al giorno d’oggi. Parla all’élite di Davos, agli apprendisti stregoni della globalizzazione sdoganata in tutta la sua forza dopo la Grande Guerra. I quali pensavano, tra gli Anni Novanta e Duemila, di plasmare sull’espansione dei mercati e dell’economia un futuro di convergenza, ovviamente occidentalocentrica, dei sistemi principali del pianeta. Davos e il Wef di Klaus Schwab, think tank cantore della globalizzazione più lirica mai pensata, erano i simboli di questa narrazione.

Davos e Thomas Mann: un libro profetico, cento anni dopo

Lo scorso anno, nel centenario del libro di Mann e nel trentacinquesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, il Wef si è trovato di fronte alla necessità di rivedere molte certezze del passato. La realtà è che alla prova del mondo in guerra il contesto in cui la recente Davos si è svolta è stato di grande preoccupazione. Lo scorso anno la dicotomia è stata accesa e questo ha reso, giocoforza, Davos più interssante. “Viva la libertad, carrajo!”, sentenziava Javier Milei al termine del suo vangelo libertario davanti alla platea di Davos. “Multilateralismo e cooperazione”, hanno provato a promuovere i vertici della Commissione Europea in un vertice in cui, invece, la parola chiave è stata “conflitto”. 

Dopo la pandemia di Covid-19 il conflitto tra Israele e Hamas giunto recentemente a un cessate il fuoco, la “guerra grande” del Medio Oriente, il conflitto in Ucraina hanno distrutto le certezze della pace a cui l’Occidente aveva, grossomodo, fatto finta di credere. I conflitti economici e tecnologici plasmano le relazioni tra i tre imperi: gli Usa da un lato, la Cina, con il riluttante orso russo al seguito, dall’altra. E la conflittualità serpeggia latente anche nelle democrazie. L’anno elettorale più vasto della storia, il 2024, ha visto un’ondata globale di sconfitte dei leader in carica, dal Regno Unito agli Usa, ha visto elezioni conflittuali in Romania e Georgia, ha prodotto la caduta diretta o indiretta e l’indebolimento di tre leader del G7 (i dimissionari Scholz e Justin Trudeau, il dimezzato Emmanuel Macron). Sotto gli occhi di tutti sono le disuguaglianze in volo in Europa, la rivolta della periferia rurale che colpisce Paesi storicamente stabili come Olanda e Germania. Dopo la rivolta populista del 2016-2018 e la pandemia, nuovi segnali di scosse all’ordine internazionale.

Addio alla globalizzazione “Flatlandia”

Uno dei più celebri aforismi attribuiti a Mann recita: “La critica è l’origine del progresso e della civiltà”. L’autore de La Montagna incantata ci invita dunque alla critica costruttiva nella scalata alla montagna di Davos. Guardiamo al contesto globale. Il mito dell’uomo di Davos, poliglotta e liquido interprete della globalizzazione, formato Flatlandia del sogno liberale degli Anni Novanta, in cui le uniche due dimensioni globali accettabili erano mercato e liberaldemocrazia, è ormai un ricordo.

Nonostante ciò, il ridotto sulle Alpi svizzere, dove il think tank di Klaus Schwab riunisce ogni anno manager, decisori politici, opinion leader e scienziati, persiste. Tuttavia, nel corso degli anni, l’élite riunita dal World Economic Forum  sembra allontanarsi dal cosmopolitismo, dedicandosi a riflessioni meno “positiviste” sul futuro della globalizzazione. Il Financial Times sottolineava, due anni fa, la somiglianza del mondo de “La Montagna Incantata” con i nostri tempi. Conscio che il lungo periodo di pace, prosperità e integrazione economica globale stia giungendo al termine, la testata della City di Londra disegnava uno scenario simile a quanto accaduto nel 1914.

L’interregno mondiale visto da Davos

E in effetti oggigiorno viviamo un’era di interregno, come descritto da Lucio Caracciolo nel suo saggio “La pace è finita”. Nel ventennio delle emergenze, dalla tragedia dell’11 settembre alla pandemia di Covid, la globalizzazione si è trasformata. Il mondo vecchio, il sogno del paradiso neoliberale tutto democrazia e mercato, è tramontato. Ma, come in ogni interregno, il nuovo ordine deve ancora emergere. L’opzione della Flatlandia governata dall’economia, che hanno spesso promosso a Davos nuovi cantori dell’ordine globale come star mediatiche, miliardari-filantropi e attivisti, ha perso terreno a favore del ritorno del primato della politica.

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Negli ultimi anni, Davos è diventata la capitale del ritorno della politica nel mondo globalizzato. Xi Jinping, Narendra Modi e Jair Bolsonaro hanno globalizzato l’agenda di Davos, rappresentando Paesi non più “in via di sviluppo”. Milei si è lo scorso anno inserito nel canovaccio assieme al Ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian, durissimo nelle sue uscite contro Israele. A fare da molla la pandemia, che ha spinto il forum di Schwab a interrogarsi sul futuro della globalizzazione, mentre la guerra russo-ucraina ha politicizzato l’edizione 2022 e quella 2023, in senso critico nei confronti di Mosca.

Montagna incantata o torre d’avorio?

Nel mondo, la realtà cancellava dal 2020 in avanti il sogno degli uomini di Davos. Le imprese, guidate spesso dai governi, hanno cambiato rotta, passando da strategie di supply chain “just in time” a strategie “just in case”. Emergenze sanitarie globali, eventi meteorologici estremi e attacchi informatici minacciano l’infrastruttura dell’economia moderna.  L’invasione russa dell’Ucraina ha accelerato questo risveglio e dimostrato che l’impensabile può accadere, portando la più grande guerra europea dal 1945 a meno di mille miglia dai lussuosi hotel di Davos.

Lo scorso anno, inoltre, la crisi del Mar Rosso, dopo la guerra in Medio Oriente, ha mostrato quanto siano fragili le arterie vitali del commercio internazionale. Davos è passata da toni lirici a toni più compassati, ma la linea guida del Wef e di Schwab resta positivista sulla possibilità di rafforzare la globalizzazione. Ora, per gli anni a venire, si porrà la domanda se Davos continuerà a essere la “Montagna Incantata” in cui le crisi vengono discusse o se la cittadina svizzera inizierà a sostenere la retorica della de-globalizzazione. In ogni caso, il centro alpino, un tempo torre d’avorio, si è già accorto di non poter continuare a parlare a sé stesso. Anche l’élite per eccellenza, per necessità legate alla sfida di capire un mondo in evoluzione, è costretta ad avvicinarsi timidamente alla realtà di un mondo in cambiamento. In cui è sempre più difficile trovare le giuste coordinate. Un suggerimento: il Wef 2025 parte lo stesso giorno in cui a Washington si insedia il Trump 2.0. E questa coincidenza parla di nuove rotte politiche che nella Zuberberg non si potranno ignorare.

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