La fragilità del piano Ue per salvare la democrazia dai social

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Il cuore tecnico della lotta europea contro la manipolazione online ha un indirizzo preciso e si trova lontano dai palazzi di Bruxelles. In un anonimo edificio amministrativo di Siviglia opera il Centro Europeo per la Trasparenza Algoritmica, il braccio operativo del Digital Services Act (Dsa) nella battaglia per il controllo degli algoritmi social. Questo laboratorio specializzato, che lavora in stretta sinergia con la Direzione Generale Connect della Commissione europea, rappresenta l’esperimento più ambizioso mai tentato nel controllo delle piattaforme digitali. La sua missione è quella di tradurre in codice e procedure tecniche la volontà politica europea di regolamentare lo spazio digitale, introducendo un nuovo modello di supervisione delle piattaforme social.

Proprio in questo centro è stata recentemente attivata una task force di circa trenta funzionari altamente specializzati, schierati dalla Commissione europea per aprire le scatole nere dei social network e monitorare le prossime elezioni in Germania e altri appuntamenti elettorali cruciali nel vecchio continente.

Come riporta Politico, questi tecnici avranno il compito di verificare se piattaforme come X o TikTok favoriranno indebitamente, attraverso il proprio algoritmo, alcuni partiti o candidati. Nonostante le dimensioni relativamente contenute del team, i poteri di cui dispongono questi tecnici sono considerevoli: non solo possono scandagliare i sistemi di raccomandazione dei contenuti per individuare eventuali moltiplicatori di potenza: ovvero strumenti algoritmici che potrebbero favorire alcuni utenti rispetto ad altri. Ma hanno anche l’autorità di richiedere l’accesso diretto ai server delle piattaforme e alle loro comunicazioni interne, penetrando così nel sancta sanctorum dell’architettura digitale contemporanea. Tutto un arsenale di strumenti tecnici che, tuttavia, potrebbe rivelarsi inadeguato, dal momento che, mentre l’Unione europea affina le sue armi analitiche, il vero conflitto tra Europa e social network si sta già spostando su un terreno completamente diverso: più politico che tecnico.

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La pressione delle Big Tech
Secondo il Financial Times, colossi come Meta e Google stanno intensificando le pressioni sull’amministrazione Trump per contrastare le regole europee, giudicate troppo censorie. «Aspettatevi una guerra commerciale lanciata da Trump contro l’Ue per chiedere che abbandoni le sue norme sulla moderazione dei contenuti dei social media», ha avvertito Gérard Araud, ex ambasciatore francese negli Stati Uniti.

In questo contesto, a Bruxelles cresce il timore che Ursula von der Leyen possa essere tentata di fare concessioni sulla sovranità digitale dell’Unione Europea per evitare uno scontro commerciale con Washington. Il suo silenzio di fronte alle azioni destabilizzanti di Elon Musk, proprietario di X, che avrebbero minato alcune democrazie europee, e al presunto supporto dello stesso Musk al partito di estrema destra AfD in Germania, è visto da molti come un segnale preoccupante.

Tuttavia, il caso Musk è solo la punta dell’iceberg di un più ampio cambiamento politico, che si è delineato con la fine del mandato del duo Thierry Breton-Margrethe Vestager, i quali hanno adottato nella scorsa legislatura europea una linea rigorosa nei confronti delle Big Tech, puntando su una regolamentazione stringente per limitare il loro potere di mercato e garantire trasparenza, equità e tutela dei diritti digitali nell’Unione Europea: il Centro Europeo per la Trasparenza Algoritmica, fu proprio un idea di Breton.

Negli ultimi giorni è trapelata la notizia che la Commissione Europea ha rallentato o sospeso alcune indagini avviate contro i giganti tecnologici americani nell’ambito del Digital Services Act (Dsa) e del Digital Markets Act (Dma). Fonti citate dal Financial Times riportano che sarebbero in corso revisioni delle analisi su Meta e X in base al Dsa e su Meta, Amazon, Google e Apple in relazione al Dma. L’indagine su X, per ora, ha una portata limitata. Ufficialmente, Bruxelles giustifica questo rallentamento come un processo di verifica tecnica per valutare lo stato delle indagini, sostenendo che l’eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca non influirà sul lavoro. «La protezione di elezioni libere e giuste è un pilastro fondamentale delle nostre democrazie», ha detto a Linkiesta Thomas Regnier, portavoce della Commissione Europea. «Sotto il Digital services act, le Grandi Piattaforme Online (VLOPs) devono valutare e mitigare i rischi sistemici legati ai loro servizi, inclusi quelli per i processi elettorali e il dibattito civico».

Dietro questa posizione ufficiale, però, si nascondono paure politiche. Diversi funzionari ammettono che c’è una riluttanza a intraprendere azioni decise contro le grandi piattaforme statunitensi per non rischiare di scatenare la reazione americana. «Agiamo con cautela per evitare tensioni con Washington», ha confidato una fonte al Mattinale europeo. In questo clima di tensione crescente, il Parlamento europeo si prepara a un dibattito cruciale. Martedì 21 gennaio, l’aula di Strasburgo ospiterà una discussione sull’applicazione del Digital Services Act che si preannuncia come cartina di tornasole della capacità europea di difendere la propria sovranità digitale. Il confronto arriva appena un mese dopo il dibattito del 17 dicembre sulla disinformazione nelle elezioni europee, quando i deputati avevano alzato i toni esortando la Commissione “ad applicare attivamente il DSA e a imporre sanzioni alle piattaforme che violano le norme dell’UE”. Una richiesta di fermezza che ora, alla luce delle pressioni americane, rischia di rimanere lettera morta.

Insomma, quello che si sta profilando all’orizzonte è uno scontro economico e di valori tra due visioni opposte del web e della sfera pubblica. Con l’Europa che cerca di affermare la sua sovranità digitale a colpi di regolamenti e la Silicon Valley che si appella alla «libertà di espressione» e all’inviolabilità del proprio modello di business. Ma la sensazione è che, al di là di task force hi-tech e arsenali normativi, la vera battaglia si giocherà sempre più sul piano politico. Un piano su cui l’Europa, divisa e sotto pressione, non sembra ancora del tutto attrezzata a combattere. Mentre i giganti del web, con le spalle coperte dalla superpotenza americana, sono già partiti all’attacco. Per non parlare dell’elefante nella stanza cinese.

Il caso Romania
Basterà davvero stipare in un palazzo in Andalusia una frotta di nerd per impedire la manipolazione delle elezioni in Europa attraverso i social network? C’è chi ne dubita. In Romania, lo scorso novembre la Corte Costituzionale ha annullato il ballottaggio presidenziale dopo la vittoria a sorpresa del candidato nazionalista e filorusso Calin Georgescu, la cui campagna elettorale si è svolta principalmente sulla piattaforma cinese TikTok. Una vittoria costruita non tanto sui contenuti quanto sugli ecosistemi virali. Per questo motivo la Commissione Ue ha aperto un’indagine formale su TikTok per possibili violazioni del Digital Services Act (Dsa), ma la trasparenza tecnica perseguita dall’Unione europea è un miraggio quando gli algoritmi di AI generativa creano contenuti in tempo reale, modificando dinamicamente le loro strategie di targeting.

Come spiega a Linkiesta Walter Quattrociocchi, esperto di disinformazione online, il caso romeno solleva questioni fondamentali sulla nostra comprensione delle dinamiche social. «La decisione di annullare le elezioni si basa sull’assunto che le informazioni manipolino l’opinione pubblica, ma cosa succede se questa premessa non è vera? Diversi risultati scientifici sembrano indicare che l’influenza delle campagne di disinformazione è spesso sovrastimata», afferma l’esperto. Il problema, secondo gli studiosi, è che stiamo forse sopravvalutando la capacità dei social media di influenzare le opinioni degli elettori. Quattrociocchi chiarisce infatti che «le piattaforme social non favoriscono la persuasione, ma la polarizzazione. Nessuno cambia idea sui social; le persone si allineano a narrative che confermano le proprie credenze preesistenti, rafforzando le proprie posizioni piuttosto che metterle in discussione».

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Ecco che gli strumenti tradizionali di contrasto alla disinformazione mostrano tutti i loro limiti. Quattrociocchi avverte che «le politiche di moderazione sono probabilmente ininfluenti sui processi di massa». Il nocciolo della questione va ricercato più in profondità: «Il problema è sistemico e radicato nel modello di business delle piattaforme, che premia l’engagement a scapito dell’informazione di qualità».

La soluzione, secondo gli esperti, richiede un ripensamento radicale dell’approccio al problema. Quattrociocchi suggerisce di «servono strumenti di prebunking per anticipare e disinnescare la disinformazione, anziché limitarsi al debunking a posteriori». Ancora più importante è «investire in alfabetizzazione digitale per rendere gli utenti più consapevoli delle dinamiche sociali online». Il rischio concreto è che l’eccesso di regolamentazione finisca per minare proprio quei processi democratici che si vorrebbero proteggere. La vicenda rumena potrebbe essere solo l’inizio di una serie di controversie che metteranno alla prova la capacità dell’Europa di bilanciare la tutela dei processi elettorali con il rispetto della volontà popolare.



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