A che punto siamo con l’Intelligenza Artificiale (IA) generativa? Una domanda più che lecita, date le enorme aspettative sul futuro e la quantità di risorse messe in gioco, su un tema però che presenta molte sfaccettature diverse. In questo articolo ne toccheremo tre:
- come vedono il futuro prossimo e meno prossimo quelli che potremmo definire i “due profeti” dell’IA generativa” – Sam Altman (CEO di OpenAI) e Jensen Huang (CEO di Nvidia) – e quali le aspirazioni e preoccupazioni che si intravedono nei loro “ispirati” interventi quasi giornalieri
- come le potenzialità in termini di produttività e di efficienza che dovrebbero accompagnare lo sviluppo e la diffusione dell’IA vengono viste con crescente preoccupazione dal mondo del lavoro e iniziano a ispirare forme di neo-luddismo
- come la proliferazione dei data center necessari per la messa a punto e l’utilizzo dei modelli di IA generativa e la loro “fame” di energia elettrica stiano portando soprattutto negli US (con il favore della presidenza entrante) a un rilancio dei combustibili fossili, del gas naturale in particolare: non risultando sufficienti gli investimenti delle big tech nelle energie solare ed eolica e nei nuovi reattori nucleari.
Come vedono il futuro dell’IA generativa i suoi “due profeti” Altman e Huang
Quando il 30 novembre 2022, Sam Altman – nella veste di CEO di OpenAI (una nonprofit di cui era stato cofondatore e CEO sin dalla nascita 7 anni prima) – presentò al mondo ChatGPT, inaugurando l’era dell’IA generativa, Nvidia (nata 19 anni prima con Jenseng Huang fra i cofondatori) capitalizzava 420 miliardi circa. A poco più di 2 anni di distanza OpenAI è stata valutata, nell’ultimo round di finanziamento, 157 miliardi. Mentre Nvidia – che ha visto le sue vendite di GPU-graphics processing units esplodere perché ritenute essenziali nella messa a punto dei modelli IA – ha una capitalizzazione a metà gennaio superiore [Fig. 1] a 3,2 trilioni di $, dopo avere addirittura per breve tempo superato a inizio novembre i 3,6 trilioni.
Nvidia, lo dico ovviamente scherzando, dovrebbe riconoscere a OpenAI e al suo CEO Sam Altman una sorta di provvigione per il suo successo. Anche perché Sam Altman non ha ancora trovato un business model che gli permetta almeno di avere ricavi superiori alle perdite (3,7 contro 5 miliardi di dollari nel 2024 la stima riportata da FT) e ha un disperato bisogno di nuovi finanziamenti, che permettano a OpenAI di mettere finalmente a punto – con i promessi livelli di performance – GPT 5 (in fase di tormentato sviluppo con il cosiddetto progetto Orion) e di mantenere così le distanze rispetto ad agguerriti competitori quali Anthropic (che ha come maggior finanziatore Amazon), Alphabet-Google e Meta (unica operante con modelli “open source”).
Per raccogliere nuovi finanziamenti a un livello di valutazione sempre più alto, pur continuando a perdere, non passa quasi giorno in cui Sam Altman non ci racconti quanto OpenAI sia sempre più prossima al traguardo della “superintelligenza”:
- un concetto che gode ovviamente di grande fascino presso il pubblico, che fa intravedere (almeno per il momento) possibilità di enormi profitti al mondo finanziario e che nel contempo ha il grande pregio – lo dico ironicamente – di non essere misurabile (in assenza di un criterio condiviso di misurazione) e quindi di lasciare spazio ad annunci più o meno roboanti,
- un concetto che ha allo stesso tempo importanti ricadute sui legami fra OpenAI e Microsoft, che ha versato nella prima (una nonprofit che solo ora dovrebbe cambiare natura) ben 13 miliardi di dollari, a fronte di una serie di diritti di sfruttamento dei modelli di IA che termineranno nel momento del conseguimento della superintelligenza stessa.
Il controverso passaggio da nonprofit a profit, fortemente voluto da Altman, è il passo indispensabile per attrarre nuovi capitali: lo si è visto in occasione dell’ultimo round di finanziamenti, che verrebbero addirittura revocati se tale passaggio non fosse portato a termine entro una data prefissata. Nel contempo Altman sta cercando di mettere sul mercato prodotti “corporate”, quali in primo luogo i cosiddetti “agentic AI” (“advanced AI systems that autonomously take actions, adapt in real-time, and, solve multi-step problems based on context and objectives”), che mostrino le concrete potenzialità economico-finanziarie dell’IA stessa. E con gli accordi stretti con Apple per introdurre l’IA negli iPhone punta a incrementare il numero dei suoi clienti anche fra i “privati”.
La visione di Jenseng Huang
Molto diversa la situazione dell’altro “profeta”, che oltre all’indubbia bravura ha avuto la fortuna di trovarsi con il prodotto giusto al momento giusto, con clienti per giunta (quali in primo luogo le big tech) con risorse finanziarie estremamente ampie e disponibili ad affrontare investimenti a ritorno lento e in qualche misura incerto. Huang, a differenza di Altman, non ha problemi di bilancio (ricavi e utili sono in continua crescita) né di liquidità. Deve però rassicurare i clienti-imprese e gli azionisti sul futuro in continua crescita dell’IA generativa, con le sue applicazioni (come ha evidenziato recentemente al CES) anche nel mondo fisico: nella robotica, con la messa a punto di umanoidi in grado di operare sia nel manufacturing sia nei servizi, e ancor più – in termini di cifre in gioco – nella guida autonoma, con la creazione di flotte sempre più ampie di robotaxi (una visione condivisa da Musk). Deve rassicurare inoltre gli azionisti, data l’enorme capitalizzazione (dovuta alle altrettanto enormi aspettative e al livello di multipli di cui conseguentemente gode), che
- la sua dominanza sul mercato – un quasi monopolio nelle fasce più alte – proseguirà o addirittura si rafforzerà con i nuovi microprocessori, in grado di continuare a surclassare in termini di prestazioni quelli dei concorrenti;
- il “quantum computing”, una tecnologia prevista come fortemente trasformativa in cui Nvidia è presente ma ove la concorrenza di Alphabet-Google (che ha annunciato a dicembre la messa allo stadio sperimentale di un “quantum computer” che utilizza il suo nuovo “Willow quantum chip”) si presenta come molto più insidiosa, non avrà concrete applicazioni di massa – come detto al CES – se non nel giro di un orizzonte temporale di 15-30 anni.
La reazione della Borsa allo scenario presentato da Huang al CES ne ha messo in luce il forte nervosismo (dovuto peraltro anche a una serie di altri fattori più generali quali quelli legati alla dinamica dei tassi di interesse e all’impatto delle tariffe all’import promesse da Trump): sono pesantemente cadute le quotazioni delle imprese strettamente operanti nel “quantum computing”, ma è caduta anche la quotazione di Nvidia per la genericità – non accompagnata da numeri – con cui è stato annunciato il successo “trionfale” dei nuovi chip.
Le preoccupazioni del mondo del lavoro e la possibile nascita di forme di neo-luddismo
Ciò che piace al mondo finanziario non sempre coincide – è ovviamente un eufemismo – con ciò che piace al mondo del lavoro, preoccupato da quali saranno le conseguenze sull’occupazione del diffondersi delle applicazioni dell’IA: del possibile proliferare degli “agentic AI”, del possibile diffondersi dei robot umanoidi nella produzione fisica piuttosto che nella logistica, della possibile progressiva sostituzione dei taxi con robotaxi o dell’introduzione della guida autonoma per il trasporto delle merci sulla lunga distanza, e così via. Conseguenze sull’occupazione tanto più forti quanto più tali applicazioni saranno realmente in grado di offrire i vantaggi – per le imprese, la PA e i privati – promessi da chi sta investendo massicciamente nell’IA stessa.
“The Future of Jobs Report 2025”, lo studio di fresca pubblicazione del World Economic Forum sull’evoluzione del mercato globale del lavoro, che ha riguardato quest’anno l’orizzonte temporale 2025-2030 e ha raccolto le opinioni di oltre mille capi-impresa, rappresentanti oltre 14 milioni di lavoratori, operanti in 22 settori industriali diversi in 55 differenti economie, ci mostra – ma non è una novità – che
- ci sarà un notevole ricambio nelle tipologie di lavoro richieste, con un saldo positivo (addirittura circa il doppio) fra nuovi posti creati e posti che viceversa spariscono
- un grosso problema comunque nascerà da un lato nel reperire le persone con le competenze adeguate per ricoprire le nuove posizioni e dall’altro per proteggere gli espulsi dal mondo del lavoro, attraverso un reskilling (la soluzione migliore ma non sempre attuabile) o attraverso programmi sociali (in linea di principio volti a una redistribuzione dei vantaggi che l’innovazione comporta per l’intera società).
Ci mostra anche come ai primi due posti, fra le tecnologie generatrici di “disruption” con le loro innovazioni, appaiano
- “AI and information processing technologies” (86%)
- “Robots and autonomous systems” (58%),
ovvero le due categorie di cui si è parlato in precedenza in relazione all’intervento di Huang al CES.
È molto probabile che ci sia una componente di polarizzazione nei pareri espressi – chi avrebbe il coraggio di dire che la propria impresa (soprattutto se grande) non cercherà nel prossimo quinquiennio, se non lo sta già facendo, di sfruttare l’IA, nella sua versione immateriale o in quella fisica? – ma è un qualcosa che sicuramente in larga misura si verificherà e i cui esiti dipenderanno anche dalla capacità di chi sta investendo nell’IA di individuare sempre più applicazioni che rispondano concretamente ai reali bisogni delle imprese, della PA e dei privati.
E il neo-luddismo cosa c’entra? Uno sguardo alla storia ci mostra come il luddismo sia nato in Inghilterra all’inizio dell’Ottocento, quando era in atto la prima rivoluzione industriale della storia, per combattere le innovazioni tecnologiche – all’epoca i telai industriali e le trebbiatrici – che stavano mettendo a rischio la loro attività e la fonte di reddito delle loro famiglie, condannandoli (in assenza di protezioni sociali) alla povertà.
Quali forme di neo-luddismo iniziano a manifestarsi nei riguardi dell’IA, anche in relazione alla sua componente fisica? Farò riferimento a due casi, in ambiti del tutto diversi, sempre negli US. Ambedue non miranti a distruggere oggetti fisici, come accadeva all’epoca, ma a sottoscrivere accordi capaci di regolamentare – limitandone al massimo l’utilizzo – gli eredi dei telai industriali e delle trebbiatrici:
- i modelli di IA generativa in grado di scrivere testi e sceneggiature per film e serie televisive, o di renderne molto più veloce la scrittura, nel caso dello sciopero prolungato degli autori e sceneggiatori scoppiato a Hollywood poco tempo dopo il lancio di ChatGPT, durato cinque mesi, e conclusosi con un ferreo accordo fra le grandi case produttrici e il sindacato Writers Guild of America, rappresentante oltre 11mila sceneggiatori e addetti ai lavori;
- i robot, umanoidi o meno, cui l’IA conferisce capacità crescenti di sostituzione degli umani, che stanno acquistando un peso mai avuto nella storia nelle trattative sindacali, come si sta verificando nel caso pilota delle proteste dei 25mila portuali della costa est degli US facenti capo alla International Longshoremen’s Association: che dopo uno sciopero che ha fatto loro ottenere un incremento delle remunerazioni di ben il 60% in 6 anni, hanno minacciato di rimettersi in sciopero se non verranno garantiti limiti ai progetti di robotizzazione e comunque garanzie per chi a causa dell’automazione perdesse il posto di lavoro (“The fight over robots threatening American jobs – As automation becomes a reality everywhere from retail warehouses to restaurant kitchens, the use of robots is increasingly controversial”, FT (The Big Read), 8 gennaio 2025).
Il conflitto IA-ambiente
“AI set to fuel surge in new US gas power plants – Climate targets in peril as Big Tech turns to fossil fuels to feed energy demand”, recita l’articolo di FT (molto attento a queste tematiche) del 13 gennaio. L’impegno a perseguire il “net zero” delle big tech, che aveva conquistato loro il favore dei fondi ESG e favorito i valori di Borsa nel momento di massima sensibilità alle tematiche ambientali, si è infranto:
- a causa da un lato degli enormi bisogni di energia elettrica dei data center in costruzione per soddisfare le scommesse sullo sviluppo dell’IA: bisogni che le infrastrutture esistenti non riescono a soddisfare (sia per la crescita della domanda complessiva per soddisfare la transizione ambientale sia per la inadeguatezza delle reti elettriche esistenti in molte aree degli US), che richiedono la costruzione di nuove centrali affiancate ai data center (per l’impossibilità di sovraccaricare le reti elettriche), che solo in parte vengono realizzate con l’utilizzo di energia solare e/o eolica e in parte ancora minore con i nuovi reattori nucleari, che viceversa sono molto più facili da realizzare e flessibili da usare con il ricorso al gas naturale;
- a causa dall’altro del diverso atteggiamento nei riguardi delle tematiche ambientali che si è sviluppato nel tempo, a livello di parte della popolazione (di quella in particolare più colpita dalle politiche a favore dell’ambiente), a livello politico (le posizioni di Trump sono note) e a livello economico-finanziario (i grandi fondi di investimento e le principali banche stanno abbandonando in questi giorni le strutture volontarie che erano nate per favorire – nella scelta dei titoli da tenere in portafoglio e delle imprese cui concedere finanziamenti – le imprese più in linea con gli obiettivi del “net zero”).
Il fenomeno, se la spinta delle big tech a investire nelle infrastrutture per lo sviluppo e lo sfruttamento dell’IA proseguirà e se non ci saranno inversioni nelle politiche ambientali degli US (il Paese dove si stanno costruendo più data center), è consistente. Secondo le stime di Enverus (società operante nella consulenza energetica) riportate da FT saranno circa 80 le nuove centrali a gas che verranno costruite nel prossimo quinquennio, con una capacità complessiva pari a 46 gigawatt: una capacità equivalente, per fornire un ordine di grandezza, a quella dell’intero sistema elettrico norvegese e superiore di poco del 20% a quella addizionale messa a punto negli US nell’ultimo quinquennio.
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