La moda e quel che non funziona tra prezzi, made in Italy e story telling

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La Milan fashion è agli sgoccioli, oggi tocca alle sfilate digitali, mentre Pitti Uomo ha chiuso i battenti a Firenze, venerdì scorso. Insomma, le kermesse della moda del 2025 stanno andando avanti secondo il loro calendario con proposte interessanti e valide dal punto di vista del prodotto ma, a quanto pare, molti marchi non hanno la consapevolezza che la crisi dei consumi che sta facendo soffrire tutto il fashion system, oltre a un taglio dei costi (che si è tradotto, per esempio, in un calendario di Milano moda uomo con sole 16 sfilate in presenza) impone nuove politiche di prezzo, maggiore autenticità e trasparenza nei confronti di buyer e clientela e uno story telling diverso da quello adottato fino a oggi.

Difficile far capire cosa è il made in Italy quando Cina e Bangladesh sono top supplier del menswear italiano nel 2024

Il made in Italy è sicuramente il cavallo di battaglia e il miglior biglietto da visita dei marchi italiani ma occorrerebbe una maggiore trasparenza nel raccontarlo se le aziende vogliono mantenere alta la loro credibilità. Secondo le stime elaborate dall’Ufficio Studi economici di Confindustria moda sulla base delle indicazioni provenienti dalle indagini campionarie interne nonché sulla base dell’andamento congiunturale del quadro macroeconomico, la moda maschile italiana (in un’accezione che comprende la confezione, la maglieria esterna, la camiceria, le cravatte e l’abbigliamento in pelle) è attesa archiviare il 2024, dopo tre anni in continua crescita, con un fatturato in calo del -3,6 per cento rispetto a quello dell’anno precedente. Nel 2024 il fatturato del menswear italiano, pertanto, si porterebbe a 11,4 miliardi di euro, coprendo così il 18,9 per cento della filiera tessile-abbigliamento italiana. Con riferimento ai singoli micro-comparti, nel 2024 risultano tutti interessati da dinamiche negative, a eccezione dell’abbigliamento in pelle.

Sempre secondo i dati, relativamente ai mercati di approvvigionamento nei primi nove mesi del 2024, la Cina si conferma il top supplier di comparto con una rilevanza del 12,5 per cento, nonostante mostri una flessione del -9,8 per cento a confronto con il medesimo periodo dell’anno 2023. Il Bangladesh, in seconda posizione, presenta un calo double-digit (-12,3 per cento), così come la Francia, terza, che flette del -10,4 per cento. Seguono poi Spagna e Paesi Bassi (tradizionale ingresso per merci di provenienza asiatica), che registrano entrambi una performance positiva, rispettivamente del +23,8 per cento e del +6,2 per cento.

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Tra i restanti fornitori della top 15, solo il Portogallo, in quindicesima posizione, con uno share limitato all’1,8 per cento, presenta un aumento, pari al +26,4 per cento, mentre tutti gli altri principali paesi di approvvigionamento evidenziano dinamiche negative, comprese tra il -1,5 per cento della Germania, in settima posizione, e il -21,8 per cento della Turchia, in decima.
Questi Paesi, quindi, hanno un ruolo rilevamte quando si parla di made in Italy, sia in termini di approvviggionamento, sia di produzione. Molti marchi, infatti, producono fuori dall’Italia, in ragione di costi meno onerosi e legislazioni del lavoro più favorevoli.

Perchè non raccontare al cliente come stanno esattamente le cose invece di trincerarsi dietro a un “è made in Italy” quando poi le etichette smentiscono ciò e quando il prezzo non è esattamente lo stesso dei prodotti che non sono raccontati come eccellenza del made in Italy?

“Succede che il cliente che ha ordinato dei capi di un marchio italiano di lusso e poi riceve le merce e legge sull’etichetta “made in Bangladesh” ci chiami subito per timore che i capi che ha ricevuto siano fake. Insomma, non se lo aspetta che possano essere realizzati fuori dall’Italia. In questo caso il nostro customer care entra in gioco spiegando che il know how artigianale è stato trasmesso correttamente alle maestranze in loco, che il design e i tessuti, così come le rifiniture sono di pregio”, ha spiegato qualche settimana fa, a FashionUnited, Giuseppe Giglio, presidente e amministratore delegato di Giglio.com, società attiva nel settore della vendita online per la moda di lusso multimarca su scala globale quotata su Euronext growth Milan gestito da Borsa Italiana.
Insomma, sarebbe necessario, oggi più che mai, adeguare il racconto del marchio e della produzione a quello che effettivamente accade in modo da non generare confusione presso il pubblico e da favorire la trasparenza anche quando si tratta di prezzi.

Il “brand” made in Italy è il terzo marchio più riconosciuto al mondo Credits: Pexels, Alexandra Maria

Secondo The State of Fashion 2025, “Challenges at every turn”, ricerca di BoF e McKinsey, infatti, sebbene sia difficile fare previsioni dettagliate anche nei periodi migliori, l’industria della moda si prepara ad affrontare un 2025 particolarmente tumultuoso e incerto. “È arrivato un rallentamento ciclico a lungo temuto. I consumatori, colpiti dal recente periodo di elevata inflazione, sono sempre più sensibili ai prezzi”, si legge nello studio.
Il contesto negativo previsto da molti nel settore della moda un anno fa si è ora materializzato. L’incertezza economica, le disparità geografiche, così come il cambiamento del comportamento e delle preferenze dei clienti, implicano che per coglierle le aziende dovranno navigare in un labirinto di sfide sempre più complesse. “Di conseguenza, il 2025 sarà probabilmente il momento della resa dei conti per molti marchi”, ammonisce lo studio.

Anche i driver geografici delle entrate e dei profitti economici stanno subendo cambiamenti storici. In particolare, il settore trarrà vantaggio dal calo dell’inflazione e dall’aumento del turismo in Europa, dalla resilienza degli individui con patrimoni elevati negli Stati Uniti e dai nuovi motori di crescita in Asia. La Cina rimarrà il centro di gravità della regione, ma poiché il Paese è colpito da venti contrari a livello macroeconomico, i marchi concentreranno l’attenzione su altri mercati asiatici, in particolare Giappone, Corea e India.

I marchi devono dimostrare ai clienti perché i loro prodotti valgono il prezzo premium

Per raggiungere questi consumatori, i manager della moda localizzeranno i loro modelli per andare sui singoli mercati, amplieranno le loro fasce di prezzo e si concentreranno sul posizionamento del marchio per catturare l’attenzione dei clienti che danno sempre più priorità al valore. “Questo impulso sta anche guidando l’espansione dei segmenti della vendita di seconda mano e dei prezzi scontati. “I marchi che non desiderano rientrare in queste categorie devono dimostrare ai clienti perché i loro prodotti valgono il prezzo premium”, sottolinea il report.

Gli operatori intelligenti dell’ecommerce si stanno concentrando su nuovi percorsi per la scoperta dei prodotti. Gli shopper che una volta erano abbagliati dalla selezione apparentemente infinita disponibile presso molti rivenditori online, ora lamentano la difficoltà di trovare ciò che desiderano. “La selezione, i contenuti e la ricerca basati sull’intelligenza artificiale possono aiutare i clienti a scoprire marchi e prodotti in modo più efficace e a sentirsi più propensi a effettuare un acquisto”, spiegano gli esperti.

Prodotti aspirazionali che siano davvero iconici

Oltre alla trasparenza nel rapporto con il cliente, quindi, sono da favorire prodotti aspirazionali e iconici. Quest’ultimo termine, forse il più abusato negli ultimi mesi, può contraddistinguere realmente un numero esiguo di capi e di accessori.
Il proliferare di influencer che, dietro somme più o meno elevate, si rendono disponibili a promuovere qualunque capo, da’ l’illusione ai marchi di poter governare l’ascesa delle proprie collezioni. Nella realtà i capi iconici, siano essi giacche, borse, scarpe o occhiali, sono pochi, pochissimi. Alcuni di questi devono ancora oggi la loro allure ad attrici, attori, sportivi o personaggi del cosiddetto jet set che li hanno indossati decine di anni fa.

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La borse Jackie di Gucci, al braccio di Jackie Kennedy, oppure le scarpe Tod’s ai piedi dell’avvocato Agnelli, tanto per rendere l’idea. “Erano personaggi che avevano un largo seguito e uno stile”, ha affermato, dal suo stand a Pitti Uomo, Siro Toniolo, presidente Rewind Srl, realtà già attiva nella produzione di calzature che, nel 2016, ha rilevato Valsport, le cui sneaker furono indossate dai grandi campioni del calcio degli anni sessanta e settanta.

Puntano a richiamare un heritage di grande livello anche le Pro-Keds, sneaker indossate da leggende dello sport come Michael Jordan, Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar e Pete Maravich, che torneranno sul mercato il prossimo marzo. I proprietari hanno scelto Pitti Uomo per raccontare le ultime novità dell’etichetta.
Oggi, a 75 anni dalla sua nascita, infatti, il marchio scrive un nuovo capitolo sotto la guida di due imprenditori: Patrizio di Marco, ex ceo di Gucci e Bottega Veneta, nonché ex presidente esecutivo e azionista di Golden Goose, Autry ed End Clothing, insieme a Jay Schottenstein, retailer statunitense e fondatore di American Eagle Outfitters e Dsw.

L’esperienza nei negozi e il ruolo centrale del personale

Un’altra difficoltà che molti marchi sembrano avere è quella di preparare in maniera adeguata la forza vendita, soprattutto quella in store, primo contatto con la cliente. Come evidenziato da The State of fashion, infatti, i marchi di moda si sono concentrati sui giovani, ma nel 2025 potrebbero faticare a far crescere le vendite ai clienti di questo target. La “generazione d’argento” di età superiore ai 50 anni rappresenta una popolazione in crescita con un’elevata quota di spesa globale.

Differenziare l’esperienza in negozio è la chiave per riaccendere la domanda di acquisti nei negozi fisici. I marchi possono ottenere questo obiettivo dando ai collaboratori del negozio la possibilità di raggiungere il loro pieno potenziale. Il personale di vendita ha un ruolo centrale e prezioso nel relazionarsi con i clienti. I benefici saranno notevoli, poiché l’esperienza dei clienti e dei dipendenti sono inestricabilmente legate.

Riepilogo

  • Il settore moda maschile italiano sta affrontando una crisi, con un calo del fatturato previsto per il 2024 e una maggiore dipendenza da fornitori esteri come Cina e Bangladesh.
  • È necessaria maggiore trasparenza riguardo all’origine dei prodotti “Made in Italy”, comunicando chiaramente al cliente la provenienza dei materiali e della produzione per evitare confusione e mantenere la credibilità del marchio.
  • Per affrontare la sfida, i marchi devono offrire prodotti aspirazionali e iconici, migliorare l’esperienza di acquisto in negozio investendo nella formazione del personale e dimostrare il valore aggiunto dei loro prodotti per giustificare i prezzi premium.



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