A venticinque anni dalla morte, Bettino Craxi è ancora un personaggio della cronaca e non della storia. Le celebrazioni sono state sorprendentemente molte e in prevalenza indulgenti, ma sempre imbarazzate. C’è stata peraltro un’importante dichiarazione del presidente Sergio Mattarella, molto significativa se si pensa che in anni ormai lontani fu uno dei ministri che si dimise contro un voto parlamentare sulla sua autorizzazione a procedere. Ma oggi Mattarella ha saputo distinguere il piano giudiziario da quello politico. È proprio ciò che ancora manca.
Perché il punto essenziale non è la “riabilitazione” di Craxi. È smetterla con il far prevalere la questione giudiziaria, impedendo di fatto l’analisi dell’azione politica del leader socialista. A molti fa ancora comodo nascondere dietro il paravento criminale temi scomodi come quello della vittoria storica della democrazia socialista sul Pci o il riconoscimento che fu Craxi l’anticipatore della necessità delle riforme istituzionali.
I commenti anche più favorevoli non sono riusciti a chiarire questo punto, bloccati da una domanda preliminare: Bettino Craxi è morto «in esilio» (come ha reiteratamente detto il Tg1) o era il latitante fuggito alla giustizia, oppure era entrambe le cose (un esule latitante) come ha stabilito il Tg2? Insomma, commenti non capaci di inquadrare criticamente una tragedia umana e politica che pure ha quasi totalmente condizionato il successivo quarto di secolo.
Senza un’analisi spassionata, che sappia davvero rileggere, in una organica valutazione storica, gli articoli di giornale, le trasmissioni tv, le carte giudiziarie dell’epoca, la non separazione delle carriere dei magistrati, non si potrà mai capire bene la piega della nostra democrazia di quei primi anni novanta.
Quando si scatenò la tempesta perfetta: l’esplosione, contemporanea alle inchieste, della secessione leghista, della fuga referendaria verso deformanti riforme elettorali, del sollievo di molti veri colpevoli nello scarico delle responsabilità sulla casta, e infine, a scoppio ritardato, del successo travolgente del populismo più efficace, perché capace di un salto di qualità all’indietro, becero e totalizzante. Da qui il fatto che il filo che collega la caccia al cinghialone alla parabola progressista di un Giuseppe Conte, ci porta all’attualità. Ecco perché è difficile una serena valutazione del craxismo.
La damnatio memoriae di Craxi andrà in futuro progressivamente attenuandosi. Ma ha talmente segnato la generazione politica che ha vissuto in diretta la vicenda (specie quella che è balzata felice in prima fila per la caduta di chi stava davanti), che è oggi difficile attendersi che possa testimoniare bene l’accaduto ai giovani che ne hanno sentito solo parlare. In questo anniversario molte cose sono persino difficili da capire.
Perché ad Hammamet era presente in atteggiamenti riverenti il presidente del Senato Ignazio La Russa, che per decenni sulla scena milanese era stato la cattiva antitesi di Craxi? Perché in particolare i numerosi libri usciti in contemporanea a questo venticinquesimo, non sono andati fino in fondo nell’esame di quanto avvenuto, rinviando ancora una rappresentazione esaustiva di quella stagione? Quest’ultimo dato, merita una particolare attenzione.
Massino Franco ha sentito il bisogno di aggiornare un suo precedente libro su Craxi e questo ha consentito di approssimare meglio il quadro della situazione, ma siamo sempre nel chiaroscuro. Andrea Spiri ha pubblicato le lettere di Craxi dando un contributo al recupero della dimensione politica centrale del personaggio pubblico e privato.
Ma il contributo maggiore avrebbe potuto darlo Aldo Cazzullo, un big sceso in campo per Rizzoli con un libro già molto ambizioso nella forma, duecentottanta pagine in formato grande, moltissime fotografie e un’edizione lussuosa. Ci aspettavamo di più da un giornalista che usa spesso l’arma formidabile del buon senso per andare controcorrente, ma è come se si fosse fermato sulla soglia, quella che Mattarella ha coraggiosamente superato.
Lo scrivo con il rammarico di chi ha molto apprezzato gli ultimi lavori di Cazzullo (ad esempio la rilettura straordinaria della Bibbia, in testa a tutte le classifiche) e dunque aveva il diritto di attendersi molto da simile autore. Il titolo del libro sembrava incoraggiante perché Craxi viene definito «l’ultimo vero politico», e ci si attenderebbe appunto una sottolineatura della sua diversità rispetto ai politici che la sua caduta ha agevolato.
E d’altra parte non è stato neppure l’ultimo, perché Matteo Renzi e ora Giorgia Meloni hanno recuperato in toto il valore della politica, travolta dall’indignazione determinante all’epoca della caduta di Craxi. Che poi un verro politico possa fare errori anche gravi è un altro discorso. Renzi si è «autodistrutto» come scrive Cazzullo, ma resta un vero politico.
Della Repubblica «dei partiti» Cazzullo non ha nostalgia, ma la questione vera non è il rimpianto. È il merito del problema. È l’onesto riconoscimento di Cazzullo sulla relazione tra l’epoca della prevalenza giudiziaria e i successivi guai economici e sociali del Paese dovrebbe evidenziare il fatto che la politica ha comunque bisogno di competenza specifica e se viene spazzata via per mano giudiziaria una democrazia deve preoccuparsene. Alla fine sembra quasi necessario riconoscere che la più grande colpa di Craxi sia quella – con la sua ingombrante e deviante uscita di scena – di aver impedito all’Italia di fare i conti con sé stessa.
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