L’eterna querelle pubblico-privato in sanità

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La sanità privata incassa la sospensione della nuova disciplina per l’accreditamento e la stipula dei contratti con il Ssn. E ridefinisce il proprio ruolo, non più di concorrenza con il pubblico, ma di collaborazione. Che però andrebbe governata.

Sospesa la nuova disciplina per l’accreditamento

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Anche se fuori tempo massimo, è stata approvata il 16 dicembre la legge annuale per il mercato e la concorrenza 2023, che all’articolo 36 sospende fino al 31 dicembre 2026 la contestata nuova disciplina per l’accreditamento e la stipula dei contratti con il Servizio sanitario nazionale delle strutture private, introdotta dal governo Draghi (art. 15 legge 118/22).

Quella norma prevedeva che le regioni mettessero a gara, periodicamente, la fornitura di nuovi servizi e di quelli già convenzionati, in base alle proprie esigenze di programmazione e di razionalizzazione della rete. Ora, sarà la conferenza stato-regioni a rivedere, entro la data fissata, la materia dell’accreditamento.

Le due associazioni di categoria (l’Aiop per gli ospedali for profit e l’Aris per gli ospedali religiosi) avevano chiesto l’abrogazione dell’articolo, sostenendo che la direttiva Bolkestein esclude esplicitamente dal proprio ambito di applicazione i servizi sanitari(art. 2f direttiva 2006/123). Attualmente le convenzioni tra Ssn e privati sono, di fatto, a tempo indeterminato.

La privatizzazione è in atto

Il tema dei rapporti tra pubblico e privato in sanità è sempre stato molto caldo e divisivo. Secondo molti osservatori, sarebbe in atto una “privatizzazione strisciante” della sanità italiana, che alcuni intendono come maggiore ricorso ai servizi a pagamento e altri come una più invadente presenza del privato nella fornitura dei servizi sanitari. Sono due, infatti, le prospettive secondo cui guardare alla sanità: quella del finanziamento (o della spesa o del pagamento) e quella della natura giuridica degli erogatori di prestazioni (pubblici, for profit e non profit).

Gli intrecci economici tra i due settori si possono rappresentare attraverso una tabella a doppia entrata, con il finanziamento sulle colonne e la produzione sulle righe. Elaborando i dati Istat, si può dare della sanità italiana l’immagine riportata nella tabella 1.

Nelle prime tre righe e colonne è rappresentata la produzione dei soli servizi sanitari, nella quarta quella dei farmaci e degli articoli sanitari (totalmente privata), mentre nell’ultima riga il finanziamento totale della sanità, a carico dello stato (pubblico) e delle famiglie (privato).

Nel 2022 la produzione e il consumo di servizi sanitari è stata di 148,2 miliardi, dove il settore pubblico ha prodotto 90,6 miliardi di servizi e quello privato 57,6 miliardi, circa il 39 per cento del totale. A sua volta, il Ssn ha acquistato dal privato convenzionato l’equivalente di 34,3 miliardi (ricoveri in ospedali e Rsa, visite generiche e specialistiche, diagnostica e altro) e venduto 3,4 miliardi di prestazioni intramoenia ai pazienti paganti.

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Nell’insieme dei 171,2 miliardi totali di spesa, il sistema italiano è stato finanziato al 75,3 per cento dalla fiscalità generale (Iva, Irap, addizionale regionale Irpef) e dal debito pubblico, e al 24,7 per cento dai pagamenti diretti dei pazienti (21 per cento), delle assicurazioni e dei fondi integrativi (4 per cento).

I dati Istat confermano che è in atto una chiara privatizzazione, rispetto al 1980, il primo anno del Ssn. Da una parte aumenta il carico sulle famiglie, perché il finanziamento privato era il 18,6 per cento nel 1980 e si è inasprito di 6,1 punti percentuali (24,7 per cento nel 2022); dall’altro, cala di 2,7 punti la produzione pubblica, che era del 63,9 per cento nel 1980 ed è del 61,1 per cento nel 2022.

Gli intrecci tra la sanità pubblica e la sanità privata sono numerosi, solidi e di lunga data. Risalgono almeno agli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso. Il Ssn, istituito nel 1978, recepì infatti il sistema del “convenzionamento” con il privato (art. 25 legge 833/78) instaurato nel 1943 dall’Inam – il maggiore ente mutualistico – e nel suo primo anno di vita ne estese le prestazioni a tutti i cittadini (L 33/80). L’Inam disponeva solo di propri poliambulatori specialistici (857 nel 1978, divenuti oggi case di comunità) e per tutto il resto si affidava a contratti con gli enti ospedalieri pubblici o con le imprese private (case di cura, laboratori) e i liberi professionisti (medici generici e specialisti). Ben diverso fu l’avvio del National Health Service inglese, che nel 1948 nazionalizzò gli ospedali privati (voluntary) e comunali, creando un’offerta esclusivamente pubblica, a eccezione dei general practitioners (medici di base) e delle farmacie. Solo nel 2003 si aprirà timidamente alle convenzioni con i privati.

Oggi, in Italia, sono privati il 31 per cento dei posti letto del Ssn, il 59 per cento delle strutture specialistiche, l’85 per cento delle Rsa, il 72 per cento delle strutture semi-residenziali, il 79 per cento di quelle riabilitative (fonte: ministero della Salute e Aiop). Le strutture private convenzionate sono 16.914, su un totale di 29.344 attive nel Ssn. È un privato anche di qualità, perché gestisce 30 Irccs su 53 totali, due policlinici universitari e sei facoltà di medicina. E dunque, anche volendo, il Ssn non potrebbe fare a meno della collaborazione con il privato. Ma è un privato ingombrante, perché di grandi dimensioni e in forte espansione. Secondo Mediobanca, il giro d’affari dei 31 maggiori gruppi privati nel 2022 era di 10,6 miliardi. I più importanti hanno sede in Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte. Nella galassia del privato, oltre agli ospedali e alle imprese profit, che sono la maggioranza, opera anche un privato religioso, che controlla il 6 per cento dell’offerta ospedaliera (tra cui alcuni Irccs, il Policlinico Gemelli e l’annessa facoltà di medicina) e un privato sociale non profit, composto da circa 15mila associazioni, cooperative e fondazioni (fonte Istat).

Collaborazione, non più concorrenza

Con una certa insistenza, negli ultimi due anni, i rappresentanti di Aiop e Aris sembrano aver deposto le armi della concorrenza per rivestire quelle della collaborazione.

In effetti, la collaborazione potrebbe creare sinergie, eliminare doppioni e sprechi, migliorare procedure di cura, ricerca e sviluppo, ma dev’essere governata, dopo quasi trent’anni di pseudo-concorrenza. Il privato deve riconoscere la supremazia del pubblico, in quanto portatore di un interesse generale, e accettare le tre regole basilari della programmazione-committenza-controllo. Le prime linee guida per la collaborazione sono già state individuate (Dm 19.12.2022) e riguardano il rispetto dei tempi di attesa, l’adesione al Cup (centro unico di prenotazione) e l’alimentazione del fascicolo sanitario elettronico. Ma restano ancora inattuate: in Lombardia, ad esempio, il maggiore gruppo ospedaliero non aderisce al Cup regionale. Le regioni saprebbero davvero governare questi grandi gruppi privati? Sono forse “too big to control”? La sanità convenzionata (34 miliardi) non è un campo per fare profitti, come può essere la sanità di mercato (23 miliardi), ma i grandi gruppi industriali non amano distinguere, attratti dalle prospettive di una popolazione che invecchia e dalle difficoltà della sanità pubblica. Sono arrivati a proporre pronto soccorso e medici di base a pagamento, in alternativa al servizio pubblico. La commistione tra le due aree, nella stessa impresa-ospedale, porta inevitabilmente a incroci di sussidi tra la parte convenzionata e quella profit e a tentativi di diversione dei pazienti verso le prestazioni a pagamento. Responsabilità sociale ed etica d’impresa dovrebbero suggerire invece comportamenti meno aggressivi e meno orientati al profitto. Ma le pressioni degli azionisti sono probabilmente più forti. Arriverà mai la svolta della leale collaborazione e della logica non competitiva tra pubblico e privato in sanità?

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