“Vi dovete integrare!”. Critica dei discorsi conservatori dopo la morte di Ramy Elgaml

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Questa mattina, alle ore 10:30 all’università L’Orientale (palazzo Giusso, largo San Giovanni Maggiore Pignatelli), Enrico Gargiulo – docente di sociologia generale all’università di Torino – e Gaia Tessitore – avvocato del foro di Napoli e studiosa del processo penale – terranno un seminario sulle difficoltà di fare ricerca, scientifica e non solo, sui corpi di polizia del nostro paese. 

Pubblichiamo a seguire una riflessione scritta proprio da Gargiulo sul rapporto tra “integrazione”, retorica delle classi dominanti e conservazione dello status quo.

Qualche volta mi capita di guardare la trasmissione televisiva Otto e mezzo. La puntata del 13 gennaio aveva come argomento principale gli scontri che hanno segnato alcune delle manifestazioni per Ramy Elgaml. Il diciannovenne, cittadino egiziano sebbene residente in Italia da anni, è morto il 24 novembre a Milano schiantandosi contro un cartello stradale dopo che tre pattuglie dei carabinieri hanno inseguito per otto chilometri, e probabilmente speronato, lo scooter su cui era a bordo, guidato dall’amico Fares Bouzidi, di ventidue anni.

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Il tema oggetto di discussione era piuttosto caldo. Come mostra anche un altro video, girato a Bologna pochi giorni prima dei fatti di Milano, inseguire uno scooter per il solo fatto che non si è fermato a una richiesta di stop o a un posto di blocco, cercando di speronarlo e augurandosi che chi lo guida perda il controllo del mezzo e cada, è un comportamento ricorrente per i carabinieri. Un comportamento che dovrebbe essere contestato, o quantomeno analizzato in maniera critica, da rappresentanti istituzionali realmente preoccupati della tenuta democratica del paese.

Eppure, come prevedibile, nulla di tutto questo è accaduto durante il programma televisivo. Tra gli ospiti chiamati a commentare, Italo Bocchino, obtorto collo, ha riconosciuto il diritto di manifestare, dichiarando però, allo stesso tempo, che i “facinorosi” e i “delinquenti, perché di delinquenti si tratta, vanno impacchettati, arrestati e tenuti dentro per quello che decideranno i giudici”. Anziché mettere in discussione l’operato delle forze dell’ordine, il politico di destra ha addirittura detto che “da che mondo e mondo quando si forza un posto di blocco c’è un inseguimento. Voglio dire, l’abbiamo imparato da bambini guardando i film americani”. Un altro ospite, Massimo Cacciari, ha finito per fargli da contrappunto: pur enfatizzando l’importanza della partecipazione per la vita democratica, soprattutto in scenari politici ed economici foschi come quello attuale, si è di fatto allineato su posizioni analoghe sul tema degli scontri, sostenendo che i “provocatori che si infiltrano nei cortei solo per fare casino” devono essere isolati.

Insomma, a svilupparsi senza intoppi fino a quel momento era il copione, prevedibile e noioso, di un programma che non riserva molte sorprese. L’armonia, però, si è interrotta poco dopo, quando Bocchino ha detto che “l’atteggiamento del papà di Ramy è un atteggiamento tipico di un buon immigrato che si vuole integrare, l’atteggiamento dei manifestanti è un atteggiamento delinquenziale”. A queste parole, Cacciari ha reagito in maniera scomposta: “Chi lo decide chi è il buon immigrato integrato? Lo decido io? Lo decide Bocchino? Il buon immigrato, integrato, che si integra, chi è? Che cos’è? La capanna dello zio Tom?”.

Il filosofo veneziano, in modo implicito ma comunque efficace, ha mostrato quanto un termine del tutto incapace di intercettare la realtà delle interazioni quotidiane, che quindi dovrebbe risultare improponibile come categoria legale e amministrativa, sia in realtà centrale nell’azione politica e burocratica, venendo imposto a persone non italiane o, comunque, considerate diverse sul piano culturale; in pratica, ha svelato l’assurdità delle richieste istituzionali. La reazione di Cacciari mi ha stupito ma, soprattutto, mi ha trasmesso un senso di sollievo. Da anni, infatti, coltivo un fastidio, che nel tempo si è trasformato in vera e propria avversione, per il concetto di integrazione, a cui ho dedicato diversi lavori e, di recente, anche un libricino divulgativo, Contro l’integrazione: ripensare la mobilità, pubblicato nella collana Posizionamenti della rete Sociologia di posizione.

La mia repulsione non è però molto condivisa, né a livello accademico né, meno che mai, in ambito politico. La parola integrazione, infatti, è talmente diffusa che il suo uso è scontato e, di fatto, normalizzato. Anche in contesti progressisti, dove tutt’al più si fanno distinguo ma non si mette in discussione l’idea che “ci si debba integrare”. La mia visione radicalmente critica della parola integrazione è dovuta al fatto che il suo significato è interpretato in termini prevalentemente, per non dire esclusivamente, culturalisti. Integrarsi, in sostanza, equivale a mettere da parte la propria cultura – di base concepita come “nazionale” – per accettare quella del paese di arrivo. Questioni materiali come le diseguaglianze economiche e giuridiche – banalmente, la dipendenza da un permesso di soggiorno per poter vivere in modo stabile in un luogo –, le asimmetrie di potere, la segregazione occupazionale e abitativa non sono prese in considerazione o, quantomeno, non sono considerate centrali. La partita dell’integrazione si gioca al tavolo della cultura. Come se le persone fossero portatrici di una sorta di abito culturale ben definito e identificabile, trasmesso loro dalla famiglia di appartenenza, la quale, a sua volta, non sarebbe altro che l’espressione coerente di valori e comportamenti tipici della comunità nazionale di provenienza. Un abito, peraltro, che manterrebbe la sua forma e le sue caratteristiche a prescindere dal contesto materiale in cui è indossato.

La pretesa che le persone immigrate si integrino finisce per generare i paradossi che Cacciari, seppur in maniera implicita e poco analitica, ha evidenziato, mettendo brutalmente in luce, per prima cosa, l’arbitrarietà dei discorsi e delle politiche che si fondano sull’idea di integrazione: chi e su quali basi decide chi si può integrare e come si debba integrare? L’arbitrio decisionale, peraltro, va a braccetto con l’asimmetria che caratterizza le misure integrative. In molti paesi, a chi vuole entrare o protrarre il soggiorno è richiesta la partecipazione a corsi di lingua e di educazione civica ed è imposto il superamento di test e prove. La civic integration – questo è il nome che hanno oggi le politiche di integrazione – prevede la stipula di “patti”. Questa parola, però, nasconde la natura coercitiva delle misure imposte alle persone migranti: nessun “accordo” simmetrico tra parti uguali ma l’imposizione unilaterale, a chi arriva da fuori, di requisiti da soddisfare per non perdere l’autorizzazione all’ingresso e al soggiorno.

Lo sfogo di Cacciari ha fatto emergere poi un’altra questione importante: l’idea di integrazione è radicalmente conservatrice, nel senso che è antitetica alla volontà di trasformare la realtà: “È quello che obbedisce, il buon immigrato? Io voglio cambiare dove sto, non integrarmi dove sto, io non sono un integrato, sono uno che rispetta le leggi ma che molte di queste leggi vorrebbe cambiarle. In questo mondo vuole che mi integri? In Italia? Con due milioni di famiglie sotto i livelli da fame?”. L’indignazione del filosofo veneziano, insomma, porta a formulare una domanda strategica: cosa vuol dire integrarsi? Nell’accezione dominante della parola, equivale a promuovere il mantenimento dello status quo e a ostacolare il cambiamento, facendo passare una persona per “deviante”, ossia per non integrata, per il solo fatto che contesta l’ordine esistente.

Che quello di integrazione sia un concetto conservatore non è un fatto sorprendente, se pensiamo alle sue origini: si afferma nelle scienze sociali europee, e poi anche nordamericane, tra la metà dell’Ottocento e la prima parte del Novecento, ossia nel contesto di un capitalismo che si consolida legittimando, a livello giuridico e morale, comportamenti acquisitivi e predatori. In uno scenario del genere, l’integrazione rimanda alla tenuta complessiva del tessuto sociale: vale a dire, ai meccanismi della socializzazione e del controllo che, favorendo l’introiezione degli orientamenti normativi maggioritari, garantirebbero la stabilità del sistema. Oggi come ieri, dunque, un’introiezione efficace dei valori dominanti fa sì che gli individui evitino di “deviare” e di entrare in conflitto con la società, cioè di metterne in discussione gli assunti costitutivi, a cominciare dalla proprietà privata e dalle diseguaglianze che si generano nella produzione prima ancora che nella redistribuzione.

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Quanto l’integrazione possa diventare uno strumento dissuasivo e punitivo nei confronti di chi lotta “per cambiare il posto dove sta” lo dimostra il caso di Madalina Gavrilescu, una cittadina rumena attivista dei movimenti per il diritto all’abitare di Roma che, nel 2019, si è vista recapitare un provvedimento di allontanamento dal territorio italiano “per motivi di sicurezza non imperativi”, motivato sulla base del fatto che “gli atti e i comportamenti posti in essere, anche reiteratamente, dal soggetto sopra generalizzato evidenziano la mancanza di integrazione”. Il suo caso mostra dunque che il portare avanti un certo tipo di rivendicazioni politiche – anche in assenza di infrazioni o reati – può essere letto come incapacità, o mancanza di volontà, di integrarsi. Il concetto di integrazione, insomma, è un potente agente di normalizzazione, vale a dire un dispositivo linguistico e giuridico che impone una certa forma alla realtà fingendo che quella forma sia naturale e non l’effetto di interventi istituzionali. Così facendo, equipara la società a un organismo: la rappresenta cioè come un corpo sano che deve essere protetto dal rischio di ammalarsi.

Come ha fatto notare Alessandro Dal Lago in un testo del 1980, considerare la società un organismo permette di trasformare i conflitti in questioni patologiche, come tali oggettive e non riconducibili a volontà parziali, e porta a de-politicizzarne la gestione: la politica diventa un’attività neutrale e tecnica di amministrazione dell’esistente. Da una prospettiva organicistica e medicalizzante, insomma, costruire integrazione significa prevenire i mali per evitare poi di doverli “curare”, considerando anche che la “cura”, inevitabilmente repressiva, può portare alla morte, come il caso di Ramy ha mostrato in modo drammatico. Chi ragiona in questi termini legge la cultura in cui le persone “non autoctone” sono chiamate a integrarsi come un elemento coerente, complessivo e totalizzante. Esisterebbe cioè una cultura italiana, che bisogna conoscere e a cui bisogna aderire.

Da una prospettiva del genere, così come esiste la cultura italiana esiste anche la cultura di chi immigra. A non essere considerata, invece, è l’idea che esistano sub-sistemi culturali i quali, più che integrati, possono essere in conflitto tra loro. Rifiutarsi di vedere quanto le “culture” siano oggetti complessi, internamente articolati e contraddittori, rende difficile comprendere una questione basilare. Le persone “di seconda generazione”, a seconda delle condizioni, soprattutto materiali, in cui si trovano a vivere, adottano in modo selettivo – e a volte anche strategico – tratti e aspetti di diverse “culture”. Compongono così sub-culture che non sono riconducibili né alla presunta cultura nazionale e familiare di origine né all’altrettanto presunta cultura del paese in cui vivono.

Ragionare in termini di culture nazionali granitiche ed eterne e non di sub-culture a geometria mutevole e variabile è comodo. Come tutte le semplificazioni, aiuta a ridurre gli sforzi cognitivi e dà l’illusione di poter progettare politiche efficaci. Produce però effetti paradossali, svelando che il processo di integrazione – qualunque cosa sia – può avere come esito l’assimilazione di tratti e aspetti non proprio “gradevoli”. A evocare questa possibilità, nella puntata di Otto e mezzo, è stata Lilly Gruber. Polemizzando in maniera indiretta con Bocchino, il quale affermava ossessivamente la natura criminale di chi osa rompere una vetrina, la conduttrice ha affermato che “un buon immigrato è come un buon italiano che non spacca le vetrine, che paga le tasse”.

Gruber, in sostanza, ha sollevato un problema interessante, evidenziando indirettamente un cortocircuito nella logica integrazionista. Nonostante alcuni progressi registrati negli ultimi anni, l’Italia presenta livelli di evasione fiscale più alti di quelli registrati negli altri paesi europei. Se quindi il non pagare le tasse è un’abitudine italiana piuttosto diffusa, allora dovremmo dedurne che evadere il fisco è un indicatore di “buona integrazione”. Deviare, in altre parole, può significare integrarsi se la “deviazione” è un tratto culturale costitutivo di una comunità nazionale.

Mi viene in mente a questo punto una barzelletta che ho ascoltato diverse volte in occasione di momenti di formazione con persone che lavorano nel campo dell’assistenza e dell’accoglienza. Ne esistono sicuramente diverse versioni. Questa è quella che ricordo io. Un signore marocchino si reca in prefettura per espletare le pratiche legate alla sua domanda di cittadinanza. Arrivato allo sportello, un impiegato piuttosto scocciato e sbrigativo gli dice che ci vuole un po’ di tempo, dato che ci sono moduli da compilare e, soprattutto, un test di integrazione da sostenere. Il signore marocchino, calmo e per nulla spazientito, gli risponde che non ci sono problemi, deve solo allontanarsi qualche minuto per spostare la macchina che ha lasciato in doppia fila. A quel punto, il volto dell’impiegato si illumina in un grande sorriso e il suo atteggiamento cambia completamente: “Non si preoccupi, siamo a posto così: il test è già superato!”. (enrico gargiulo)



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