Il capo della polizia giudiziaria di Tripoli, Osama Njeem Elamsry detto Almasri, è libero ed è già tornato a Tripoli nonostante il mandato d’arresto pendente della Corte penale internazionale, eseguito dalla Digos di Torino nel fine settimana.
In pratica l’arresto non è stato convalidato: «Il procuratore generale chiede che codesta Corte dichiari l’irritualità dell’arresto in quanto non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia, titolare dei rapporti con la Corte penale internazionale; ministro interessato da questo ufficio in data 20 gennaio, immediatamente dopo aver ricevuto gli atti dalla Questura di Torino, e che, a oggi, non ha fatto pervenire nessuna richiesta in merito. Per l’effetto non ricorrono le condizioni per la convalida», si legge nell’ordinanza della Corte d’appello di Roma che ha disposto la scarcerazione. La palla è così passata al ministero dell’Interno, che ha firmato un ordine di espulsione per il generale.
Autorevoli fonti del ministero della Giustizia avevano confermato la notizia a Domani in tarda serata. Alla base del rilascio, spiegano, ci sono procedure tecniche non eseguite correttamente e di passaggi saltati, che hanno spinto la corte d’appello di Roma a decidere per il suo rilascio.
Il silenzio
Proprio per questo motivo intorno a tutta questa storia c’è stato fin dall’inizio un grande silenzio da parte del governo e dei ministeri competenti. Nessun commento dal Viminale o dal ministero della Giustizia, che si era limitato a diramare una nota stringata nel pomeriggio.
Il ministro Carlo Nordio, «considerato il complesso carteggio, sta valutando la trasmissione formale della richiesta della Corte penale internazionale al procuratore generale di Roma», aveva scritto il ministero della Giustizia. Ora per un nuovo arresto bisogna che Almasri rimetta piede in Italia, ancora una volta e difficilmente accadrà. Insomma, una grande beffa.
Su Almasri pende un mandato di cattura internazionale, le ipotesi di chi indaga sarebbero di crimini di guerra e contro l’umanità. Ma questa storia, come quella dell’arresto del cittadino iraniano Mohammad Abedini, avvenuto un mese fa, è soprattutto una vicenda che ha per forza di cose conseguenze politiche visti i rapporti tra i governi italiano e libico in chiave di controllo delle frontiere.
L’arresto del libico, infatti, avrebbe potuto incrinare i rapporti tra il governo di Giorgia Meloni e quello di Tripoli guidato da Abdel Hamid Debeibeh, con cui le relazioni sono buone, così come con l’altro centro di potere, quello nemico, guidato dal generale Khalifa Haftar, che comanda nella Cirenaica.
Troppo importanti gli interessi italiani e delle sue aziende in Libia per iniziare una crisi diplomatica. Inutili gli appelli delle ong e di alcuni esponenti del Partito democratico che chiedevano di trasferirlo all’Aja il più rapidamente possibile.
Ma il silenzio attorno a questa vicenda non è stato tutto italiano. Sui media libici la notizia è passata – volutamente – sotto traccia ed è stata riportata per lo più da pagine vicine alle varie milizie. Almasri è una figura chiave per il governo tripolino, al centro di numerose vicende politiche fin dall’era di Muhammar Gheddafi. Lo sprint alla sua carriera avviene con la nomina di funzionario di primo piano della nota milizia di Tripoli chiamata Rada, creata per combattere il crimine organizzato e inglobata poi per arginare i flussi migratori.
Nel 2021 Almasri diventa il capo della prigione di Mitiga e supervisiona anche altre carceri come quelle di Heida, Ruwaimi e Ain Zara. Successivamente diventa direttore della sezione Riforma e riabilitazione della polizia giudiziaria.
Un organo che è subordinato al ministero della Giustizia del governo di unità nazionale che ha sede a Tripoli. I cambi di incarichi e ruoli hanno rafforzato il suo potere. Nella capitale libica, nell’agosto 2023, forze sotto il comando di Almasri hanno anche preso parte a combattimenti tra milizie.
Le accuse
Il lungo elenco di accuse contro Almasri proviene non soltanto da ong come Amnesty International e da quelle attive nel salvataggio delle persone migranti nel Mediterraneo centrale. Ma anche dal Dipartimento di Stato americano che cita le testimonianze dei detenuti del carcere di Mitiga di cui il libico ne era il capo. Hanno raccontato di torture che duravano anche fino a cinque ore. Tutto accadeva mentre la prigione era diretta da Almasri.
Amnesty International e altre ong internazionali hanno riportato di uccisioni illegali, maltrattamenti, sparizioni forzate e detenzioni arbitrarie. Ma c’è di più. La ong Mediterranea racconta che dalle testimonianze raccolte durante i salvataggi in mare, Almasri è stato spesso citato dai naufraghi.
Molti migranti hanno raccontato di omicidi e stupri commessi dalla milizia da lui guidata e addirittura hanno riferito di aver lavorato come schiavi per la costruzione della nuova pista dell’aeroporto di Mitiga, che sorge vicino alla prigione in cui erano detenuti.
Almasri è a tutti gli effetti uno degli uomini degli apparati di sicurezza libici che hanno reso infernale la vita ai migranti. Ciò nonostante pensava di godere di impunità, tanto da andare allo stadio a vedere la partita del 18 gennaio della Juventus contro il Milan.
Il suo nome non figura tra i sei soggetti ricercati pubblicamente dalla Cpi, ma tra i cinque coperti da segreto. Ora è a conoscenza anche lui del mandato e starà attento a non recarsi nei paesi, come l’Italia, che aderiscono allo statuto della Corte. Un colpo grosso per i libici nel cuore dello stato italiano, che nel 1992 ha ospitato la firma del trattato.
Prima Bidja poi Almasri
Dopo l’uccisione di Abdelrachman Milad meglio conosciuto da tutti come Bidja (accusato di crimini di ogni tipo e di traffico di migranti), ucciso da un commando armato in pieno stile mafioso mentre era nella sua auto, l’arresto di Almasri ha rischiato di far saltare gli equilibri di potere a Tripoli.
Il trafficante di esseri umani Bidja, così come il generale libico, era referente di primo piano del governo di Tripoli, che l’Italia e Bruxelles continuano a finanziare per fermare i flussi di migranti.
Nelle stesse ore in cui in Italia i media raccontavano l’arresto del funzionario libico, l’ambasciatore dell’Ue in Libia, Nicola Orlando, ha tenuto un incontro con il governo di Tripoli per discutere il prossimo pacchetto di cooperazione. Tradotto: nuovi soldi impiegati per commettere violenze a danno dei migranti.
Tracciare i fondi inviati in Libia è molto complicato fin dall’entrata in vigore del Memorandum di intesa firmato nel 2017. E ora lo sarà ancora di più dopo che nel nuovo decreto flussi approvato dal governo Meloni è prevista la secretazione degli appalti per l’affidamento a paesi terzi dei mezzi di controllo delle frontiere. Le associazioni stimano che in totale dal 2017 siano arrivati in Libia circa un miliardo di euro, divisi tra fondi sia italiani sia europei. In Italia passano attraverso i fondi della cooperazione con l’Africa. In Europa attraverso i fondi per la stabilizzazione del paese, usati invece per il controllo delle frontiere.
Una tranche di finanziamento per il valore totale di 15 milioni di euro è stata stanziata da Bruxelles per implementare la transizione politica. La data di scadenza del progetto recita 31 maggio 2025, l’inizio è 1° novembre 2021. A tre anni e mezzo di distanza, la Libia è esattamente allo stesso punto: senza elezioni politiche e nelle mani delle milizie che si fanno la guerra a vicenda.
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