Addio al diritto: l’Italia, la Libia, il caso Almasri

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Il comandante della polizia giudiziaria libica, Njeem Osama Almasry, detto Almasri, il 19 gennaio è stato arrestato a Torino, su mandato di arresto della Corte penale internazionale, poi in tutta fretta liberato sulla base di un mancato atto da parte del ministro della Giustizia, messo su un volo di Stato e riportato a Tripoli, dove il suo arrivo è stato calorosamente festeggiato. Poiché era entrato legalmente in Italia, non fa parte degli espulsi e – speriamo – non alimenterà le statistiche dei rimpatri (per la gloria del ministro dell’Interno e del suo invidioso fan, Salvini). Ma le domande si susseguono insistenti. Perché un cittadino libico, prima arrestato, è stato rimpatriato con un volo di Stato? Perché la procedura prevista per l’esecuzione di un ordine di arresto da parte della Corte penale internazionale non è stata seguita correttamente?

Il trattamento speciale è da mettere in relazione agli accordi tra l’Italia e la Libia in tema di migrazioni, per i quali il nostro Paese fornisce finanziamenti alla guardia costiera libica al fine di respingere i tentativi di chi vuole raggiungere le coste italiane. A ciò si aggiungono gli interessi economici, come gli impianti Eni nel sud della Libia, e il piano Mattei. La conclusione ovvia è che la giustizia italiana, per quello che riguarda gli adempimenti del governo, è al servizio di interessi particolari che, in quanto tali, nazionali non possono certo dirsi: infatti la violazione dei diritti fondamentali provoca le migrazioni, non le ferma. La salvaguardia dei diritti non è una guida per la politica estera del governo. Che così si sottrae agli obblighi derivanti dall’avere l’Italia sottoscritto lo Statuto della Corte penale internazionale che, ironia della sorte, proprio a Roma venne istituita nel 1998. Il mandato di arresto della Corte nei confronti di Almasri è accuratamente motivato, e non equivale a una condanna: Almasri avrebbe avuto diritto a un processo equo, con il rispetto di tutte le prerogative della difesa.

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Nel caso Almasri abbiamo assistito, del resto, solo all’ultimo dei colpi che l’attuale governo sta dando al diritto, inteso come regolatore della vita di un Paese civile, e trasformato piuttosto nello strumento di legittimazione di un potere che si presume basato su una delega come investitura assoluta, in virtù della volontà del popolo o di Dio (il primo Trump docet, il secondo conferma e raddoppia). Tendono a scomparire così il diritto all’informazione, il diritto al dissenso e alle sue manifestazioni, il diritto alla salute, il diritto a un’educazione che non sia indottrinamento, e in generale tutte le libertà fondamentali per chi non è miliardario.

Ma chi è Almasri? È dal 2021 direttore di riforma e riabilitazione (sic!) della polizia giudiziaria di Tripoli; in questa posizione supervisiona alcune carceri, tra cui quella tristemente famosa di Mitiga a Tripoli. La Corte penale internazionale ha emesso il mandato d’arresto il 18 gennaio, definendolo come “responsabile delle carceri di Tripoli, dove migliaia di persone sono state detenute per lunghi periodi, sospettato di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra, tra cui omicidio, tortura, violenze sessuali, che sarebbero state commesse in Libia a partire da febbraio 2015”.

L’istanza della Corte, che ha esaminato il suo caso, “ha concluso che i crimini menzionati nel mandato d’arresto sarebbero stati commessi dal signor Njeem personalmente, su suo ordine, o con il suo aiuto, da membri delle Forze speciali di deterrenza, note anche come Rada. I crimini sono stati commessi nella prigione di Mitiga contro persone detenute per motivi religiosi (perché cristiani o atei), per le loro presunte violazioni dell’ideologia religiosa dei Rada (per esempio, perché sospettate di ‘comportamento immorale’ e omosessualità), per il loro presunto sostegno o affiliazione ad altri gruppi armati, a fini coercitivi, o una combinazione di entrambi”. Il 18 gennaio la cancelleria della Corte “ha presentato una richiesta di arresto dell’indagato a sei Stati parti, tra cui la Repubblica italiana. La richiesta della Corte è stata trasmessa attraverso i canali designati da ciascuno Stato ed è stata preceduta da una consultazione e un coordinamento preliminari con ogni Stato per garantire l’adeguata ricezione della richiesta della Corte. La Corte ha anche trasmesso informazioni in tempo reale che indicano la posizione e i possibili spostamenti dell’indagato nello spazio Schengen europeo. Allo stesso tempo, come previsto dallo Statuto, la Corte ha chiesto a Interpol di pubblicare un avviso rosso”.

Insomma, non si tratta di una richiesta di arresto improvvisata, immotivata e all’insaputa delle autorità italiane competenti. Chi ha omesso di fare cosa? Chi ha voluto il rilascio del presunto criminale?

Dopo il rimpatrio di Almasri, la Corte ha precisato: “Su richiesta delle autorità italiane e per rispetto nei loro confronti, la Corte si è deliberatamente astenuta dal commentare pubblicamente l’arresto dell’indagato. Nel contempo, la Corte ha continuato a impegnarsi con le autorità italiane per garantire l’effettiva attuazione di tutte le misure richieste dallo Statuto di Roma per dare esecuzione alla richiesta della Corte. In tale contesto, la cancelleria ha anche ricordato alle autorità italiane che, qualora si riscontrassero problemi tali da ostacolare o impedire l’esecuzione della sua richiesta di cooperazione, esse dovrebbero consultare senza indugio la Corte al fine di risolvere la questione. Il 21 gennaio 2025, senza preavviso né consultazione preliminare con la Corte, il signor Osama Elmasry Njeem sarebbe stato rilasciato e ricondotto in Libia. La Corte cerca di ottenere, e non ha ancora ottenuto, una verifica da parte delle autorità sulle misure che sarebbero state adottate. La Corte ricorda il dovere di tutti gli Stati parti di cooperare pienamente con essa nelle sue indagini e nel perseguimento dei crimini”.

È evidente che, da parte del ministero della Giustizia, non c’è stata la collaborazione richiesta. La verifica ci sarà mai? Quale coniglio dal cappello si tirerà fuori per l’occasione? Sicuramente uno ben addestrato ad arrampicarsi sugli specchi. La situazione in Libia è sotto inchiesta della Corte penale internazionale, fin dal marzo 2011, su invito del Consiglio di sicurezza dell’Onu, al momento della violenta repressione scatenata da Gheddafi contro la rivolta popolare. Oltre a quello nei confronti di Almasri, la Corte aveva già spiccato sette mandati di arresto, tutti in attesa di esecuzione.



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