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Nel corso degli ultimi decenni, il linguaggio e la comunicazione sulla disabilità sono indubbiamente migliorati, ma c’è ancora un cammino da percorrere. Ieri il disabile era considerato ai margini della società e bisognoso di cure, mentre oggi lo si riconosce come persona e come soggetto protagonista della propria vita.
Però nella comunicazione resiste ancora un duplice approccio: parlare del disabile soltanto se raggiunge risultati eclatanti, come per esempio alle Paralimpiadi. Oppure continuare a chiamarli disabili o diversamente abili, mentre la definizione più corretta è «persone con disabilità».
Sono alcuni spunti emersi nella mattinata di venerdì 24 gennaio nel seminario «Disabilità. Il peso delle parole», organizzato dalla nostra diocesi in collaborazione con Comune di Bergamo e Ucsi-Unione cattolica della stampa italiana di Lombardia, in occasione della festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e degli addetti al mondo della comunicazione sociale. Il tema è stato tratto dal titolo di un libro.
«Questo seminario — ha sottolineato Cristina Borlotti, direttore dell’Ufficio pastorale per le persone con disabilità, aprendo i lavori — è un’occasione rara e preziosa per riflettere su questo tema». Poi ha fornito alcuni dati sulla disabilità in Italia, che tocca ben 13 milioni di persone, quindi il 20% della popolazione, tutte con bisogno di sostegno soprattutto umano.
«Parlare di disabilità necessita di un lessico adeguato — ha aggiunto Giuseppe Giovanelli, delegato vescovile per la Prossimità e cura — che fa aprire i nostri orizzonti. Bisogna abitare la distanza fra linguaggio e disabilità».
Marcella Messina, assessore comunale alle Politiche sociali, ha ricordato la collaborazione con la diocesi nell’ambito della disabilità. «È urgente promuovere una cultura che metta al centro la persona e la sua vita anche se è in carrozzina».
Le parole alimentano una visione del mondo
Sono seguiti i lavori della tavola rotonda, coordinati da Alberto Ceresoli, direttore de L’Eco di Bergamo. «È da cinquant’anni che, nella quasi totalità degli interventi, si afferma che la persona con disabilità va messa al centro. Lo ripetiamo anche oggi. Quindi, qualcosa non ha funzionato. È necessario trovare le parole giuste sulla disabilità. Ma come procedere visto che il Censis ha dimostrato la generale scarsità di cultura negli italiani, il venir meno dei valori condivisi e la comunicazione dei giovani basata sul cellulare?».
«Comunicare sulla disabilità indubbiamente non è facile — ha ammesso don Mauro Santoro, presidente della Consulta Comunità cristiana e disabilità dell’arcidiocesi di Milano —. Ci sono ancora troppi slogan retorici, per esempio quando si dice “Siamo tutti disabili”, che non spingono a fare. Invece la disabilità riguarda la relazione fra me e la persona con disabilità. Una relazione che deve venire dal cuore».
«Il contesto culturale nella nostra società è molto cambiato negli ultimi decenni — ha aggiunto Sabrina Penteriani, giornalista e delegata vescovile per Cultura e comunicazione —. Il primo atteggiamento è parlare alle persone guardandole negli occhi. Comunicare la disabilità è un argomento molto vasto e necessita di competenze professionali, per superare le barriere linguistiche». È stato poi trasmesso un video su Marta Sodano, una giovane con disabilità che ha parlato della sua vita all’Onu. «Certe parole inadeguate — ha aggiunto Penteriani — possono aggravare gli stereotipi. Invece, prima bisogna parlare della persona, poi della disabilità. Parlare della persona con grandi abilità da considerare come tale, e non privilegiare parole di compassione o malattia».
Il ruolo delle famiglie di persone con disabilità
Giovanni Merlo, direttore della Lega dei diritti delle persone con disabilità, e Matteo Schianchi, ricercatore all’Università degli Studi di Milano, hanno parlato del peso delle parole sulla disabilità e sulle difficoltà della comunicazione al riguardo.
«Il valore di una persona non si misura con le sue abilità. E la persona con disabilità non va considerata come un’esistenza basata soltanto sul farsi curare».
Da parte sua, Roberto Bernocchi, docente di Comunicazione in varie università, ha mostrato video che, ieri e oggi, documentano l’evoluzione nel modo di raccontare la disabilità.
«Alcuni sembrano trasmettere il messaggio del “Poverini”, tipico del gergo popolare. In altri viene messo in risalto un record sportivo, ritenuto una conquista incredibile in una persona con disabilità».
Infine l’intervento di Nadia Alborghetti, del coordinamento bergamasco per l’inclusione, che ha due figli con disabilità. «Nessuno nasce capace di fare il genitore di un figlio con disabilità. Con un figlio con disabilità, anche la famiglia diviene disabile».
Alborghetti ha proposto alcune riflessioni nate dalla sua esperienza con persone disabili: la dignità va sempre messa al primo posto; bisogna facilitare l’ingresso nei luoghi pubblici; non sempre si trova accoglienza nelle parrocchie; la persona con disabilità non vive in un mondo parallelo; anche le parole giuste possono creare belle persone e belle storie.
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