Forse la scuola potrà salvare la democrazia. Intervista a Philippe Meirieu

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Di Enrico Bottero

Philippe Meirieu,  professore emerito di Scienze dell’Educazione presso l’Università LUMIERE-Lyon 2, è il convinto sostenitore di una scuola più giusta. Negli anni Novanta ha avuto responsabilità nel sistema educativo francese proponendo alcune riforme. È anche stato Vice Presidente della Regione Rhône Alpes. In un suo libro tradotto in italiano, Quale educazione per salvare la democrazia? (Armando, 2023), Meirieu si domanda: in una società preoccupata per il futuro, in preda a tentazioni autoritarie e derive neoliberiste, di fronte all’ascesa dell’individualismo e del comunitarismo, l’educazione (la scuola in particolare) può ancora fare qualcosa? Nel libro Meirieu racconta la sua esperienza di allievo, di padre e di insegnante, di ricercatore e di cittadino impegnato incrociandola con quella di alcuni  educatori: Leon Tolstoi, Janusz Korczak, Fernand Deligny. Joseph Jacotot, Fernand Oury, Lorenzo Milani, Maria Montessori, Célestin Freinet. In Francia Philippe Meirieu è considerato  un punto di riferimento dell’innovazione pedagogica. Lo abbiamo intervistato.

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Il primo capitolo del suo libro Quale educazione per salvare la democrazia? si intitola Questo non è un trattato. In effetti, questo libro non è un saggio ma un racconto che ripercorre le sue esperienze personali e quelle dei grandi educatori del passato. Perché questa scelta?

“Perché mi sembra che il progetto di educare si possa comprendere meglio  se cerchiamo di coglierlo nella sua dinamica tipicamente umana, sia attraverso la storia sia attraverso un panorama delle esperienze che si possono fare oggi. È anche un modo per dire che, se il lavoro filosofico e la ricerca scientifica sull’educazione sono indispensabili, non bastano a dare senso e coraggio agli insegnanti che ogni giorno entrano a scuola. Educare, credere nell’educabilità degli esseri umani e dedicarvisi in modo rigoroso e creativo, è un impegno non da poco. Raccontare il proprio impegno e quello che lo ha alimentato indicando anche utili strumenti di lavoro può offrire un modesto contributo a rafforzare la determinazione di chi si occupa di  educazione”.

La tesi ricorrente del libro è che la democrazia sia in crisi. In che senso? E che cosa potrebbe fare l’educazione, la scuola in particolare?

“Oggi abbiamo di fronte a noi due problemi preoccupanti: da un lato, l’aumento dei fenomeni di manipolazione pubblicitaria, religiosa, ideologica o di clan; dall’altro, la difficoltà di costruire un ‘terreno comune’ che ci permetta di andare oltre il conflitto o la contrapposizione di interessi individuali. L’educazione è decisiva in questo senso. L’educazione deve insegnare a tutti a “pensare con la propria testa”, come diceva il filosofo Kant a proposito dell’Illuminismo. Questo vuol dire ricordare sempre che bisogna diffidare delle certezze (siano esse rappresentazioni primarie, slogan populisti o teorie del complotto) e far interiorizzare a tutti l’esigenza di precisione, esattezza e verità. Inoltre, l’educazione – la scuola in particolare – deve far apprendere come “costruire insieme la società”: condividendo le stesse conoscenze nonostante le diverse provenienze, scoprendo ciò che può aiutarci a promuovere una società più solidale con l’azione e la cooperazione, praticando in modo rigoroso la discussione. Tutto ciò può farci sperare che l’educazione possa ancora fare qualcosa per aiutarci a preparare una società più democratica e fraterna”.

In questo libro, come in quello pubblicato da poco in Italia, Chi vuole ancora gli insegnanti? (Armando, 2024), lei difende la professione di insegnante. Perché il futuro di questa professione oggi è in pericolo?  E perché ritiene che gli insegnanti siano così importanti? 

“Per me gli insegnanti sono tra i principali artefici della democrazia. Spetta a loro formare gli allievi affinché sappiano comportarsi in modo democratico: esaminare prima di giudicare,  preferire il dibattito pacato all’intimidazione e alla violenza,  lavorare insieme per raggiungere decisioni che vadano nella direzione del bene comune senza escludere o umiliare nessuno,  costruire e rispettare regole che garantiscano sia la libertà dell’individuo che l’uguaglianza di tutti i membri del gruppo. Naturalmente, come tutti gli educatori, gli insegnanti non agiscono mai ‘a colpo sicuro’. Non creano robot, ma formano persone libere. Ovviamente, ci sono dei rischi. Ma preferisco di gran lunga il rischio dell’educazione e della democrazia all’arroganza della dittatura e del populismo”.

Da anni in Francia lei è accusato di essere un pedagogista incorreggibile. Come tale, sarebbe responsabile  di voler minare l’autorità degli insegnanti e di confondere l’istruzione con l’educazione favorendo di fatto un livellamento verso il basso dei livelli di apprendimento. Anche in Italia queste critiche alla pedagogia sono molto diffuse. Lei che cosa risponde a questi critici?

“E’ molto facile fare degli insegnanti i capri espiatori di tutti i nostri problemi educativi. Non nego affatto le difficoltà che incontriamo con i nostri ragazzi, ma sono dovute a fenomeni sociali complessi: i cambiamenti nell’organizzazione della famiglia, il condizionamento da parte delle “industrie dei programmi”, il capriccio globalizzato della società dei consumi, l’emergere della dipendenza dagli schermi, la crescita di un atteggiamento clientelare da parte dei genitori, ecc. Sono proprio gli insegnanti che hanno la consapevolezza del loro ruolo formativo a cercare il modo di rispondere a queste nuove sfide, non con le punizioni, che non risolvono nulla, ma con un’educazione esigente. Non è sufficiente che qualcuno insegni perché gli allievi imparino, non è sufficiente dare ordini e minacciare perché gli allievi imparino ad usare la ragione. Dobbiamo creare situazioni pedagogiche e didattiche che favoriscano questo percorso di crescita. Tutto ciò è l’esatto contrario delle soluzioni facili e delle lamentele di coloro che condannano la pedagogia”.

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