Il blitz su quello che era il tempio della finanza italiana o il salotto buono del capitalismo, è arrivato da Mps, l’istituto più antico del mondo che, nel 2017 lo stato ha salvato dal default attraverso una ricapitalizzazione precauzionale di 8,1 miliardi. E se a distanza di otto anni, Rocca Salimbeni è risorta, tutti gli osservatori ne attribuiscono il merito al duo Nicola Maione e Luigi Lovaglio, il primo eletto ad aprile 2023, l’altro arrivato al timone a febbraio 2022 e, passando da una ricapitalizzazione da brivido di 2,5 miliardi conclusa positivamente non senza patemi d’animo, a novembre di tre anni fa, il tandem ha fatto partire a passi da gigante il rilancio definitivo. Fino alla decisione del cda dell’altra sera, di muovere alla conquista addirittura di Mediobanca, il fortino nato nel 1946 «per supportare la ricostruzione italiana dopo la guerra», si legge sul sito e che dal 1946, quando divenne dg fino alla morte a giugno 2000 ha vissuto sotto l’egida di Enrico Cuccia e a seguire del suo delfino Vincenzo Maranghi. Con la privatizzazione Cuccia ha costruito una rete di azionisti privati sui quali ha esercitato il suo carisma, dando luogo appunto al salotto buono, attraverso un intreccio di patti di sindacato che hanno permesso all’ex istituto di via Filodrammatici (oggi Piazzetta Cuccia) di governare.
Tornando a Mps, la storia recente è stata condizionata dall’acquisto di Antonveneta da Abn Amro per 9,5 miliardi del 7 novembre 2007, che avrebbe dovuto assicurare una «significativa crescita dimensionale, con l’incremento della rete sportelli (da 2000 a 3000 unità) e della quota di mercato (dal 6% al 9%)» e, a generare «un’elevata creazione di valore»: si è rivelato un passo molto più lungo della gamba, quasi nel vuoto. Oltre la spesa iniziale, c’era un debito di 7,5 miliardi che Antonveneta aveva verso Abn Amro e che Siena fu costretta ad accollarsi. Per far fronte a queste dotazioni finanziarie, scattò il primo aumento di capitale «monstre» da 9 miliardi.
Da lì sono nate tutte le disavventure finanziarie e giudiziarie acuite dalla crisi economica e dalla Fondazione Mps, sotto il dominio della città che fino a quando ha potuto, per mantenere il controllo dell’istituto e beneficiare di parte dell’utile assegnato, per statuto, alle provincie di Siena e Grosseto, non avendo i soldi per sostenerne il risanamento, è stata una palla al piede, limitandone i movimenti. La mossa su Antonveneta si è rivelata sbagliata anche per l’apertura degli anni della crisi economica che portarono l’Italia sull’orlo del default. Lo spread crebbe a livelli eccezionali e il valore di mercato dei bond italiani colò a picco, provocando un aumento significativo del valore dei Credit Default Swaps (CDS) di Mps, i quali sei anni prima avevano un costo molto più contenuto. A caldo Mps dovette contabilizzare svalutazioni per 4,51 miliardi e chiuse il 2011 con una perdita netta di 4,69 miliardi. Il valore delle azioni in Borsa subì un drastico crollo, perdendo la metà del suo valore nel corso del tempo. Il piano industriale per il triennio 2008-2011, sviluppato subito dopo l’acquisizione della banca padovana, prevedeva un utile netto di 2,2 miliardi di euro alla fine del periodo.
Prima dell’acquisizione di Antonveneta, Mps aveva intrapreso complesse operazioni finanziarie, inclusa la sottoscrizione dei contratti derivati Santorini nel 2002 e Alexandria nel 2005 (con Deutsche Bank e Nomura rispettivamente). Questi contratti ante-Antonveneta, hanno avuto una lunghissima coda giudiziaria finita qualche anno fa con l’assoluzione prima di Giuseppe Mussari, presidente di Mps ai tempi di Antonveneta, poi di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, trovatisi ad approvare bilanci negli anni successivi che inevitabilmente erano condizionati dai derivati, la cui interpretazione, secondo i giudici era diversa rispetto ai criteri contabili vigenti a quel tempo.
Nel 2006, fu introdotta la ‘Nota Italia’, descritta dalla stessa Mps come «l’investimento effettuato in un prodotto di credito strutturato al quale era associata la vendita da parte della Banca di protezione sul rischio sovrano della Repubblica Italiana». Tale accordo ha permesso a Siena di vendere i contratti credit default swaps (cds) sull’Italia alla banca americana JpMorgan. In quegli anni, lontani dalla crisi del debito sovrano, queste sofisticherie finanziarie garantivano un rendimento minimo alla banca, considerando il rischio relativamente modesto. La situazione durò fino al 2011, quando la crisi finanziaria esplose. Con la crisi dei mutui subprime, che causò il crollo di Lehman Brothers ed ebbe impatti sui mercati finanziari, iniziarono a emergere i cosiddetti titoli “tossici”.
Tutte le operazioni legate ai derivati avevano consentito di occultare le perdite nei bilanci, secondo le accuse della magistratura, impedendo a Bankitalia di intervenire tempestivamente con un piano di salvataggio. Nel luglio di 14 anni fa, Rocca addirittura superò uno stress test della Bce, una simulazione volta a valutare se una banca dispone di un capitale sufficiente per resistere a shock sistemici, basandosi su dati all’epoca distorti.
Nel 2009, l’anno successivo la Grande crisi finanziaria di Lehman, la tempesta dei mercati portò a perdite colossali al Monte e la magistratura accusò l’istituto di aver occultato un rosso di 300 milioni. A puntellare i conti ci pensò una prima volta lo Stato con i «Tremonti bond», in pratica delle obbligazioni convertibili, che furono utilizzati da 4 banche per un totale di 4,05 miliardi: Banco Popolare, Bpm, CreVal e appunto Mps che fu il principale prenditore per un ammontare di 1,9 miliardi.
Con il governo Monti, all’apice della crisi che minacciava di travolgere l’euro, queste obbligazioni cambiarono denominazione in Monti bond e vennero sottoscritti sempre da Siena per un ammontare di 3,9 miliardi in parte per ripagare i prestiti precedenti. A luglio 2015 Mps completò il rimborso ma solo a patto di realizzare una conversione che rese il Tesoro azionista al 4% della banca. Sono stati i prodotti derivati la grande maledizione di Siena, perchè dalle pieghe dei bilanci, vennero a galla oscuri prodotti finanziari dai nomi esotici, appunto Alexandria e Santorini. Secondo i giudici erano solo contratti di finanziamento.
Dal 2012 al 2016 fu insediato un vertice di alto standing per reputazione, capacità, rigore morale, competenza: Profumo presidente e Viola ad. Il nuovo vertice si trovò sul tavolo un «buco» per le operazioni di derivati di circa 730 milioni che andarono a pesare ulteriormente sui conti della banca. Profumo e Viola tentarono l’impossibile come a luglio 2015, un aumento di capitale di mercato da 5 miliardi: nonostante la loro faccia, il clima attorno alla banca era negativo e l’operazione non riuscì a decollare. I due furono costretti a uscire di scena anche per l’intervento a gamba tesa della politica: all’epoca c’era il governo Renzi che fece dimissionare Viola con una telefonata dell’allora Ministro del Mef Piercarlo Padoan.
Al timone fu insediato Marco Morelli e si arriva alla ricapitalizzazione precauzionale del 2017 da 8,1 miliardi di euro, di cui lo Stato si è fatto carico per 5,4 miliardi cash mentre gli altri arrivarono dalla conversione dei bond. Una somma che è andata a coprire i fabbisogni di capitale evidenziati dagli «stress test» e che ha portato lo Stato ad avere circa il 70% del Monte. Una posizione che nelle intenzioni del management guidato da Morelli, avrebbe dovuto essere soltanto transitoria. Si arriva al 2022 con i nuovi stress test condotti dall’Eba (l’autorità europea di sorveglianza sul sistema bancario) che evidenziano come tra le 50 banche europee analizzate, Mps sia la banca peggiore. In base a questa analisi il Monte avrebbe bisogno di un ulteriore rafforzamento patrimoniale da 2,5 miliardi. È in questo scenario che si sta giocando la partita sul futuro di Mps e sulla possibile aggregazione di parte della banca con Unicredit, uscita invece promossa dal test da sforzo e forse in grado di rilanciare l’Istituto senese. L’anno prima c’era stata una trattativa d’estate fra Mef e Unicredit per acquistare Mps: a fine ottobre il tavolo saltò nonostante la disponibilità del tesoro di dare una dote oscillante fra 5-8 miliardi a seconda del perimetro.
L’aumento partito nell’ottobre 2022 si tentò di blindarlo tramite contratti di underwritering fino a 900 milioni di euro. Di questa somma, 807 milioni provenivano da un consorzio di banche, tra cui Mediobanca, Credit Suisse, BofA Securities, Citigroup, Credit Suisse e altre. Algebris contribuì con 50 milioni, mentre fondi e investitori privati (fondazioni, casse di previdenza) versarono 150 milioni. Il Tesoro garantì per 1,606 miliardi, corrispondenti alla sua quota di primo azionista, pari al 64,2%. Da allora è stato un risanamento crescente: l’utile 2022 è stato di 1,7 miliardo a fronte del rosso di 605 milioni dell’anno prima; oltre 2 miliardi nel 2023, la previsione di oltre 1,3 miliardi nel 2024. E grazie a queste performance, il Mef ha potuto diluirsi all’attuale 11,7% attraverso tre collocamenti sul mercato, fino alla tranche del 15% a novembre 2024.
Il resto della storia si sta scrivendo dalle prime ore di giovedì 24 gennaio 2025 con l’ops su Mediobanca che dischiuderà scenari futuri che cambieranno il volto della finanza, del sistema bancario, del mondo delle assicurazioni con ricadute attese positive su famiglie e imprese. Per l’Italia sarà un salto qualitativo e dimensionale in Europa.
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