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Nel corso della puntata di Benessere Lavoro Sì, Subito, programma prodotto da Uilca Lombardia e condotto da Max Viggiani, l’ospite in studio Rudy Bandiera – noto come Ultra Comunicatore e LinkedIn Top Voice – è intervenuto per discutere il tema dell’intelligenza artificiale, che sta rivoluzionando e ridefinendo le dinamiche all’interno delle aziende.

Può spiegarci in modo semplice che cos’è l’intelligenza artificiale? Ne sentiamo parlare ovunque, ma come la definiremmo a chi non ha familiarità con l’argomento?

L’intelligenza artificiale è, in un certo senso, una forma di intelligenza, anche se il termine può risultare un po’ fuorviante. Il concetto esiste dal 1955, ma solo negli ultimi due o tre anni, con l’arrivo di strumenti come ChatGPT, è diventato un argomento di dibattito approfondito e diffuso. Perché ne parliamo da così tanto tempo, ma solo ora in maniera più seria? Pensate al mondo di cinque anni fa: già usavamo navigatori satellitari, social network e Google, tutti strumenti alimentati da forme di intelligenza artificiale. Questi sistemi funzionano grazie a degli algoritmi: ad esempio, quando cerchiamo qualcosa su Google, l’algoritmo seleziona e ci restituisce i risultati più pertinenti; o quando impostiamo un viaggio da Ferrara a Milano, il navigatore calcola il percorso e la durata grazie a un algoritmo. Fino a poco tempo fa, queste tecnologie erano percepite come strumenti “nascosti”. Con l’avvento di modelli come ChatGPT, invece, l’intelligenza artificiale è diventata più visibile, accessibile e capace di interagire in modi che ci sembrano sempre più “intelligenti”.

Che cosa è successo negli ultimi due anni?

Le intelligenze artificiali oggi sono diventate generative, il che significa che sono in grado di creare contenuti come testi, immagini e persino voci. Anche prima interagivano con noi, ma ora lo fanno in maniera naturale, quasi umana. Con strumenti come ChatGPT, che ha cambiato il paradigma dell’intelligenza artificiale, possiamo comunicare come faremmo con una persona: fare domande, interrompere una risposta per cambiare argomento o approfondire un tema specifico. Questo segna una svolta significativa. Ma cos’è davvero un’intelligenza artificiale? È una macchina che simula il comportamento umano, anche se parlare di “ragionamento” sarebbe eccessivo, perché entrano in gioco questioni complesse e antropologiche. Qui si collega il celebre test di Turing, ideato dal matematico britannico Alan Turing, il quale affermava che, se non riusciamo a distinguere tra una macchina e un essere umano durante una conversazione, quella macchina può essere definita “intelligente”. Oggi, questa linea di confine è stata superata: spesso non riusciamo a capire se stiamo interagendo con una macchina o con una persona. Tuttavia, il termine “intelligenza” è un po’ fuorviante. Queste macchine non pensano realmente; eseguono enormi quantità di calcoli in modo rapidissimo, producendo risposte che simulano il ragionamento umano. Il risultato può sembrare sensibile o creativo, ma è frutto di elaborazione e non di vera consapevolezza. È importante non dimenticarlo.Un aspetto cruciale è che queste macchine imparano costantemente grazie al machine learning. Ogni volta che facciamo una domanda, carichiamo un dato o interagiamo, l’intelligenza artificiale si arricchisce di nuove informazioni. Non solo dalle interazioni individuali, ma da miliardi di dati che vengono continuamente integrati. Questo apprendimento rende le AI sempre più sofisticate. È anche importante sottolineare che queste tecnologie sono molto energivore: il loro funzionamento richiede enormi quantità di energia. Questo apre questioni ambientali che meritano una riflessione approfondita. In sintesi, l’intelligenza artificiale generativa rappresenta un’opportunità straordinaria, ma è accompagnata da rischi significativi. Da un lato, offre soluzioni innovative; dall’altro, solleva interrogativi etici, ambientali e sociali che non possiamo ignorare.

Molti si chiedono se l’intelligenza artificiale possa in futuro mettere a rischio i posti di lavoro. Si tratta di timori fondati o esagerati? Può darci una rassicurazione?

Non credo si tratti tanto di rassicurare quanto di affrontare la questione con realismo. È vero che l’intelligenza artificiale potrebbe sostituire non interi lavori, ma alcune mansioni, in particolare quelle ripetitive. Questo non significa, però, che “ruberà” il lavoro. La vera rivoluzione riguarda il tipo di lavoro che cambia: professioni manuali come quelle dell’idraulico o dell’elettricista, per esempio, non risentiranno dell’avvento dell’IA e rimarranno centrali anche in futuro. Al contrario, sono le categorie che lavorano in mansioni più ripetitive e non creative, spesso percepite come “intoccabili”, a essere maggiormente soggette a trasformazioni profonde. Un esempio sono settori come quello legale (avvocati, notai) che, pur ritenuti irrinunciabili, iniziano a essere affiancati da tecnologie capaci di automatizzare alcune funzioni. Non parliamo di sostituzione totale, ma di un cambiamento significativo nel loro modo di lavorare. La soluzione? Serve un approccio proattivo. L’idea del reskilling – formare le persone per adattarsi a nuove mansioni – è fondamentale. Dobbiamo aiutare chi si trova “in mezzo” a spostarsi verso competenze più richieste, accompagnandolo con formazione e supporto. Tuttavia, è una sfida, perché molte persone sono refrattarie al cambiamento, spesso per paura o per frustrazione: “Ho sempre fatto così, perché devo cambiare?”. Gran parte del problema deriva dall’atteggiamento verso il cambiamento. Lo stress e il tecnostress nascono dalla sensazione di inadeguatezza e dalla resistenza all’adattamento. È qui che entrano in gioco non solo la formazione tecnica, ma anche un cambiamento nel mindset , inteso come l’approccio mentale necessario per affrontare questa evoluzione. È un equilibrio complesso, ma indispensabile per trasformare i rischi in opportunità.

Cybersecurity: con i recenti attacchi hacker a istituzioni e banche, siamo davvero in grado di proteggerci?

La questione della cybersicurezza richiede realismo. Non possiamo garantire una protezione assoluta, poiché il rapporto tra chi difende e chi attacca segue una dinamica costante di evoluzione: ogni miglioramento nella sicurezza è seguito da nuove tecniche di attacco. Questo accade perché, spesso, il tema della sicurezza informatica è stato sottovalutato sia a livello individuale sia aziendale. Si è pensato: “A chi interessano i miei dati?” oppure “Con tante aziende più importanti, perché mai attaccherebbero la mia?”. Tuttavia, gli hacker lavorano in modo sistematico, cercando debolezza in massa, e attaccano dove trovano falle, senza necessariamente scegliere un obiettivo specifico.

Oggi non si tratta solo di denaro, ma soprattutto di dati personali, che rappresentano una parte fondamentale della nostra identità digitale. Perdere questi dati significa letteralmente rischiare di vedersi sostituiti online. Inoltre, l’aumento degli attacchi come i ransomware, che bloccano i dati e richiedono riscatti per sbloccarli, dimostra quanto sia urgente proteggersi.

Perché succede tutto questo? Da un lato, competenze avanzate in ambito hacking sono sempre più accessibili online; dall’altro, molte istituzioni, aziende e utenti comuni non dispongono di adeguati sistemi di protezione. L’esempio del quindicenne di Cesena, che è riuscito a manipolare voti scolastici e, preferibilmente, persino deviazioni di rotte navali, evidenzia come spesso il problema non sia tanto nelle capacità dell’hacker, quanto nella scarsa preparazione di chi dovrebbe garantire la sicurezza.

Cosa possiamo fare per migliorare la sicurezza? Cambiare regolarmente la password è utile, ma non sufficiente. È essenziale adottare strategie più robuste, come:

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  • Utilizzare password complesse, con maiuscole, minuscole, numeri e simboli.
  • Utilizzare password manager, che generano e memorizzano password uniche per ogni servizio.
  • Abilita l’autenticazione a più fattori, che aggiunge un ulteriore livello di sicurezza tramite codici inviati al telefono o generati dall’app dedicata.

Infine, bisogna considerare la sicurezza informatica non come un opzionale, ma come una necessità. Non è questione di “se” un attacco avverrà, ma di “quando”. Essere pronti e preparati è l’unica strada per ridurre i rischi.

 

Tra cinquant’anni, il rapporto tra tecnologia, intelligenza artificiale e persone vedono ancora uomini e donne come attori principali, o rischiamo di diventare figure secondarie rispetto alle macchine?

Sono ottimista e non immagino un futuro alla Terminator , ma piuttosto uno stile Asimov , come nel Sole nudo . Un mondo in cui le macchine, pur evolute, saranno al servizio dell’uomo, liberandoci da lavori che non vogliamo più svolgere e restituendoci il tempo per dedicarci a ciò che desideriamo davvero. Tuttavia, raggiungere questo obiettivo richiede un percorso complesso: dobbiamo lavorare su noi stessi, sulla società e, soprattutto, assicurarci di non lasciare indietro nessuno. Questo è il vero grande tema.

 



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