Prima Netanyahu, ora il torturatore libico. L’Aja e il caso Italia

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Dalla ricostruzione della Corte penale internazionale sull’arresto e la scarcerazione del comandate libico accusato di crimini di guerra, emergono interrogativi sulle scelte dell’Italia. Perché è fondamentale che l’Italia non rinunci alla sua tradizione giuridica e ai principi del diritto internazionale umanitario

La Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) ha reso nota una sua ricostruzione ufficiale sulla mancata esecuzione in Italia del mandato d’arresto nei confronti del comandante libico Almasri.

Il 18 gennaio, la Pre Trial Chamber I ha emesso il mandato di arresto nei confronti del responsabile delle strutture carcerarie di Tripoli dove migliaia di persone sono state detenute per periodi prolungati.

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L’accusa per il sospettato è di «crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra cui omicidio, tortura, stupro e violenza sessuale, presumibilmente commessi in Libia dal febbraio 2015 in poi».

La Camera preliminare ha ritenuto che i crimini sono stati commessi personalmente dall’accusato, su suo ordine o con la sua assistenza, dai membri della Special Deterrence Force. I crimini hanno avuto luogo nella prigione di Mitiga, contro persone incarcerate per motivi religiosi (per essere cristiani o atei), presunte violazioni all’ideologia religiosa (“comportamento immorale” e omosessualità) e presunto sostegno o affiliazione a gruppi armati ostili.

Lo stesso 18 gennaio la Cancelleria della Cpi, in coordinamento con l’Ufficio del procuratore, ha presentato la richiesta di arresto a sei Stati parte, tra cui la Repubblica italiana. La Corte ha trasmesso informazioni in tempo reale sui possibili spostamenti del sospettato attraverso i canali Schengen e inoltrato una richiesta all’Interpol di emettere una Red Notice.

Il sospettato, localizzato a Torino nelle prime ore di domenica 19 gennaio 2025, è stato arrestato dalle autorità di polizia italiane e trattenuto in custodia in attesa del completamento delle procedure per la consegna alla Corte. Precisa il comunicato: «Su richiesta e nel pieno rispetto delle autorità italiane, la Corte si è deliberatamente astenuta dal commentare pubblicamente l’arresto del sospettato».

La Corte indica di avere ricordato alle autorità italiane che, nel caso in cui fossero emersi problemi che potevano impedire l’esecuzione della richiesta di cooperazione, avrebbero dovuto consultare la Corte senza indugio al fine di risolvere la questione.

Il 21 gennaio 2025, «senza preavviso o consultazione» con la Corte, l’arrestato è stato rilasciato e riportato in Libia. L’Aja precisa che «sta cercando, e deve ancora ottenere una verifica dalle autorità sui passi presumibilmente intrapresi», ricordando il dovere di tutti gli Stati parte di cooperare pienamente con le sue indagini.

Il “caso Libia” non nasce da un’iniziativa autonoma del prosecutor della Corte penale internazionale, ma anche nella considerazione che la Libia non è parte dello Statuto di Roma la situazione è stata deferita al procuratore della Cpi dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite con la risoluzione 1970 del 26 febbraio 2011.

L’Italia ha molte cose da spiegare, e in generale è il caso che chiarisca quale è la sua posizione rispetto ai principi della giurisdizione della Corte penale internazionale, strumento fondamentale contro i crimini di guerra e contro l’umanità. Emblematico è il ritardo nel varare il Codice dei crimini internazionali, che dovrebbe dare definitiva attuazione alle previsioni dello Statuto della Corte penale internazionale.

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Ai massimi livelli politici si è eccepito anche che il mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti del premier israeliano Netanyahu non sarebbe stato eseguito nel caso di una visita del leader in Italia, perché si riterrebbero operanti le immunità previste per i capi di Stato e di governo.

L’affermazione contraddice un principio di diritto consuetudinario, affermato anche con la risoluzione Onu A/RES/95 (I) sui principi di diritto internazionale «riconosciuti» nello Statuto e nella sentenza del Tribunale di Norimberga, dalla Convenzione sul genocidio, dagli Statuti dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda, e per ultimo all’articolo 27 dello Statuto della Corte penale internazionale.

Anche se Federazione Russa, Stati Uniti e Israele non sono fra gli Stati contraenti, in atto la Corte penale internazionale è riconosciuta da 125 Stati, e l’Italia è stata tra le prime nazioni che hanno firmato e ratificato lo Statuto. Di fronte al disordine globale, ai più gravi orrori delle guerre e al disprezzo per l’umanità, è fondamentale che l’Italia non rinunci alla sua tradizione giuridica e ai principi del diritto internazionale umanitario.

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