1. Dopo l’arresto e il rilascio di Mohammed Abedini Najafabadi, un altro caso di cooperazione giudiziaria volta alla consegna di un individuo torna a scuotere l’opinione pubblica italiana. Questa volta la vicenda coinvolge le relazioni giuridiche con la Corte penale internazionale e la persona coinvolta è il generale Najeem Osema Almasri Habish, capo della polizia giudiziaria libica, in relazione al quale, il 18 gennaio scorso, la Corte penale internazionale aveva emesso un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità relativamente a fatti commessi nel carcere di Mitiga dal 15 febbraio 2015 in poi[1].
Nello specifico, ad Almasri sono contestati, quali crimini di guerra, l’oltraggio alla dignità personale ai sensi dell’articolo 8(2)(c)(ii) dello Statuto della Cpi, il trattamento crudele ai sensi dell’articolo 8(2)(c)(i), la tortura ai sensi dell’articolo 8(2)(c)(i), lo stupro e violenza sessuale ai sensi dell’articolo 8(2)(e)(vi) e l’omicidio ai sensi dell’articolo 8(2)(c)(i). L’accusato avrebbe inoltre commesso crimini contro l’umanità consistenti nell’omicidio ai sensi dell’articolo 7(1)(a), nella detenzione illegittima ai sensi dell’articolo 7(1)(e), nella tortura ai sensi dell’articolo 7(1)(f), nello stupro e violenza sessuale ai sensi dell’articolo 7(1)(g) e nella persecuzione (art. 7(1)(h)) ai sensi dell’articolo 7(1)(h) dello Statuto.
Contestualmente all’emissione del mandato d’arresto e alla comunicazione a sei paesi interessati, tra cui l’Italia, su richiesta della Cpi, Interpol apponeva una relativa red notice, tale per cui tutte le forze dell’ordine competenti nelle giurisdizioni nazionali interessate erano allertate. Arrestato il 19 gennaio da agenti di polizia della Digos a Torino, mentre vi si trovava per ragioni personali (avendo, a quanto riportato, assistito alla partita tra Juventus e Milan), Almasri è stato scarcerato martedì 21 gennaio a seguito dell’ordinanza della Corte d’Appello di Roma (qui allegata), per poi essere trasferito immediatamente in Libia, su un aereo militare italiano.
Il caso, inevitabilmente, ha suscitato accese polemiche sul piano politico e diplomatico, posto che, con questa decisione, l’Italia non ottempera all’obbligo di cooperazione cui si è sottoposta ratificando lo Statuto della Corte penale internazionale. Vale la pena di ricordare che l’art. 86 dello Statuto obbliga infatti tutti gli Stati che lo abbiano ratificato[2] a collaborare pienamente (“fully cooperate”) con la Corte nella conduzione delle indagini e nella persecuzione dei crimini che ricadono sotto la sua giurisdizione. Per di più, la scelta di non consegnare Almasri, espellendolo dal territorio dello Stato per rimandarlo in Libia, pone il nostro Paese in una posizione critica anche con le Nazioni Unite. Va infatti ricordato che l’indagine della Corte in Libia è iniziata su impulso del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha riferito la situazione, ai sensi dell’art. 13(b) dello Statuto, con la risoluzione del 26 febbraio 2011, n. 1970. Non avendo la Libia ratificato lo Statuto della Corte, la giurisdizione della Cpi su questa situazione si basa dunque sulla risoluzione in questione, che ha portato all’attenzione della Procura della Corte i crimini commessi in quello Stato, in particolare quelli iniziati nel 2011, in concomitanza con la caduta del colonnello Muammar Gheddafi e dei violenti attacchi, massicci e sistematici, contro la popolazione civile. Il dovere di cooperare con la Corte deriva dunque in primo luogo direttamente dallo Statuto di Roma, per quanto vi si prevede nel Capo IV (artt. 86 e s..), ma anche, in secondo luogo, indirettamente dalla citata risoluzione del Consiglio di Sicurezza, ai sensi del Capitolo VII della Carta dell’Onu. Se l’indagine sulla situazione libica in generale è quindi in corso dal 2011, occorre notare che è dal 2017 che la Procura ha dato notizia di aver incluso anche uno specifico filone di indagine relativo ai gravi crimini commessi contro i migranti e rifugiati, che, come è noto, sono oggetto di torture, violenze e vere e proprie forme di schiavitù in particolare nei centri di detenzione libici. Tra questi, il centro di Mitiga, vicino a Tripoli, oggetto di questa vicenda, come ampiamente documentato anche da fonti Onu, risulta essere uno di quelli dove i detenuti, tra cui anche migranti e rifugiati provenienti da vari paesi africani, per una varietà di ragioni che includono questioni religiose, ideologiche o politiche in senso ampio, venivano sottoposti a crudeli trattamenti in un contesto di attacchi sistematici contro la popolazione civile[3].
2. Centrale, nella delicata vicenda, appare il provvedimento di scarcerazione adottato dai giudici della Corte d’appello di Roma. L’ordinanza si basa sulla premessa secondo cui la legge n. 237 del 2012, che disciplina i rapporti di cooperazione tra Italia e Cpi, prevederebbe procedure diverse da quelle che sono state seguite nel caso concreto. In particolare, secondo la lettura datane dall’ordinanza allegata che può leggersi in allegato, la legge in questione disporrebbe che solo al Ministro della giustizia competa adottare iniziative concernenti l’arresto delle persone oggetto di un mandato di arresto della Cpi, non potendo la polizia agire motu proprio. Nel caso di specie, pertanto, dovrebbe ritenersi irrituale l’arresto di Almasri, catturato sulla base di un’iniziativa autonoma della autorità di polizia (che ha agito a seguito della red notice di Interpol). A parere dei giudici, sebbene sia vero che una simile opzione è possibile, in via generale, attraverso l’art. 716 c.p.p. (come è avvenuto, ad esempio, nel caso Abedini), tale disciplina generale del codice non può qui trovare applicazione, dal momento che la normativa speciale (art. 11 della l. 237 /2012) sarebbe in sé completa e, dunque, non permetterebbe integrazioni attraverso il richiamo al codice di rito e alle regole ordinarie in materia di estradizione. Una scelta del genere, di richiamare la normativa generale, osserva la Corte d’appello di Roma, si porrebbe in contrasto con il principio di legalità-tassatività, postulato dall’art. 13 Cost., che, come è naturale, va osservato anche nei casi di privazione della libertà che abbiano luogo nei procedimenti di carattere in senso lato estradizionale. In sostanza, dura lex, sed lex: se il legislatore avesse voluto altrimenti, lo avrebbe dovuto dire: ubi noluit, tacuit.
3. Gli argomenti posti dalla Corte, certo non privi di qualche ragione sul piano letterale, si aprono in verità a possibili critiche. Prima di esaminarli, ha senso tuttavia evidenziare come la legge di cooperazione tra Italia e Corte penale internazionale sin dall’origine apparisse inadeguata, perché non al passo con i tempi. In piena temperie di cooperazioni facilitate, rafforzate, di riconoscimento reciproco (evoluzioni, tutte queste, che in momenti diversi hanno scandito lo sviluppo della cooperazione giudiziaria all’interno del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea), il legislatore ha scelto di regolare i rapporti con la Cpi ispirandosi al modello estradizionale più classico, quasi, verrebbe da dire, ottocentesco. Addirittura, il passaggio obbligato dal Ministro appare ancor più frequente di quanto non avvenga nel codice di procedura penale, ove pure sono disciplinati i rapporti con quegli ordinamenti con cui lo Stato italiano non ha convenzioni o trattati ad hoc (e dunque, si presume, il rapporto di fiducia non è, già in partenza, particolarmente significativo). La scelta appare tanto più paradossale se si pensa che i reati sui quali ha giurisdizione la Cpi sono sempre oggetto di reciproco riconoscimento nelle fonti dell’Unione europea (logica conseguenza del legame stretto di collaborazione che intercorre tra quest’ultima e la Cpi[4]): se, per ipotesi, Almasri fosse stato attinto da un mandato di arresto tedesco o francese, la procedura di consegna, sotto l’egida del mandato di arresto europeo, sarebbe stata spedita nei tempi e diretta nel contatto tra autorità giudiziarie, mentre il Ministro non avrebbe potuto giocarvi alcun ruolo sul piano giuridico (salvo facilitare lo scambio di informazioni, ove necessario)[5]. Un paradosso apparente.
Ciò detto, vale la pena verificare se, alla luce della normativa in vigore, una decisione diversa fosse possibile. La chiave di volta del ragionamento della Corte d’appello è, come si è detto, tutta incentrata sulla presunta completezza della normativa contenuta nella l. 237 del 2012, in particolare con riferimento alle iniziative motu proprio della polizia. In quella normativa, postulata come esaustiva, non vi sarebbe spazio per iniziative della polizia fuori dal previo controllo del Ministro della giustizia. Proprio questo passaggio, quello cruciale, dal momento che la decisione sulla scarcerazione immediata muove precisamente da questa premessa, risulta poco convincente. Così ragionando, la Corte d’appello di Roma finisce infatti per precludere ogni possibilità di arresto on the spot da parte della polizia, proprio per i ricercati dei reati più gravi, le persone che siano colpite da un mandato di cattura adottato dalla Corte penale internazionale.
È vero che la l. 237/2012 nulla dice rispetto a tale scenario. Non se ne occupa l’art. 11, che ha a oggetto l’applicazione in via ordinaria delle misure cautelari, vale a dire, fuori dai casi di urgenza, e sulla base di una iniziativa del Procuratore generale. Nemmeno ne fa cenno l’art. 14, relativa all’applicazione provvisoria delle misure cautelari, che prende in considerazione il caso in cui ancora la richiesta di consegna non sia pervenuta, ma non esamina il caso nel quale la polizia si attivi di propria iniziativa. Deve da ciò concludersi, come fa la Corte d’appello, che questo è il segno della scelta, da parte del legislatore, che non si è voluto attribuire alla polizia questa prerogativa, l’arresto nei casi di urgenza di un ricercato della Cpi? In verità, ci pare che esista una lettura alternativa a questa conclusione, che ruota attorno ad un’altra norma della medesima legge, ossia l’art. 3 comma 2 l. 237/2012. Tale disposizione colma l’eventuale vuoto, rinviando al codice di procedura penale per tutto ciò che in essa non è previsto. In tal caso dunque il rinvio, non solo possibile ma anche doveroso, è quello all’art. 716 c.p.p., in materia di estradizione, nella cui disciplina la più specifica normativa di cui alla legge 237/2012 sistematicamente si inquadra, come riconosciuto dagli stessi giudici nella ordinanza in commento.
Argomenti in tal senso si traggono anche sul piano, per l’appunto sistematico, di coerenza del sistema: la preclusione, in questi casi, all’agire autonomo della polizia porterebbe a risultati paradossali. Ci troveremmo di fronte a un unicum, posto che, in generale, l’attivazione in tempi brevi ad opera delle forze dell’ordine è essenziale in questo tipo di contesti. Si tratta, lo ricordiamo, di responsabilità per commissione di reati gravissimi, quali i crimini di guerra o contro l’umanità che sono oggetto dello Statuto di Roma, in capo a soggetti sovente legati agli apparati statali. Tali situazioni sono caratterizzate inevitabilmente da un’alta probabilità che il ricercato si dia alla fuga, in specie quando sia di passaggio nel territorio di un determinato Paese, o che vengano impiegati mezzi, anche di pressione politica, per cercare di sottrarre all’arresto e consegna alla Corte dell’Aja di persone ricercate dalla Corte. È chiaro, dunque, che l’interpretazione assunta alla base dell’ordinanza in oggetto, sul piano pratico, avrebbe – come infatti ha avuto nel caso concreto – pesantissime conseguenze. Di fatto significherebbe che le persone, oggetto di un mandato di cattura della Cpi, che transitino per il nostro Paese non potrebbero quasi mai essere fermate, dal momento che la “prodromica” interlocuzione con il Ministro rallenterebbe i tempi di intervento, di fatto facilitando la possibilità di fuga dell’interessato.
Ma vi è di più. Fare del Ministro della giustizia la cruna dell’ago di questa procedura appare incoerente con l’impostazione della legge 237 del 2012, nella quale, il ruolo del Ministro nella cooperazione con la Cpi è di carattere servente, non decisionale. Occorre mettere in luce che, al contrario della procedura di estradizione ordinaria, dove il Governo, attraverso il Ministro della giustizia mantiene un potere discrezionale di carattere politico, nella cooperazione con la Corte penale internazionale il Ministro svolge soltanto un ruolo esecutorio. Mentre, ai sensi della legge 237 del 2012, il Ministro della giustizia “provvede” alla consegna (art. 13 comma 7), quando la procedura giudiziaria sia conclusa con esito positivo, al contrario, nella disciplina di estradizione ordinaria, egli mantiene la prerogativa, di “decidere nel merito” (art. 708 comma 1 c.p.p.). In sostanza, l’interpretazione della Corte d’appello di Roma finirebbe per assegnare un ruolo chiave – si direbbe preclusivo – al rappresentante dell’esecutivo in un meccanismo di cooperazione che invece lo vede privo di potere decisionale nel merito. E in un sistema nel quale l’Italia, in quanto membro della Corte ed alla pari di tutti i Paesi che aderiscono allo Statuto di Roma, è tenuta alla piena cooperazione.
Ciò posto, ed anche se si volesse in ipotesi aderire alla tesi per cui l’iniziale arresto fosse stato “irrituale” e quindi non valido, residua un ulteriore profilo molto problematico della vicenda in oggetto. Non si comprende, infatti, come il Ministro non avrebbe potuto sanare ex post, attraverso una interlocuzione successiva, il suo (presunto) mancato coinvolgimento iniziale. La sua attivazione, se anche fosse intervenuta successivamente, avrebbe potuto rimediare alla carenza originaria di coinvolgimento, dovuta all’urgenza di eseguire un provvedimento di arresto su mandato della Corte penale internazionale e su segnalazione di Interpol.
In definitiva, ritenere che la l. 237 del 2012 imponga che la polizia possa attivarsi solo a seguito della “prodromica e irrinunciabile interlocuzione tra il Ministro della Giustizia e Procuratore Generale” conduce a risultati del tutto incompatibili con la ratio della legge stessa, per la quale la cooperazione con la Cpi da parte dello Stato italiano costituisce un obbligo (art. 1), in ottemperanza con lo Statuto (art. 86 St.). Questo ultimo, peraltro, contempla specificamente l’ipotesi di una trasmissione del mandato d’arresto emanato dalla Cpi tramite Interpol (art. 87 comma 1 lett. b), come in effetti avvenuto nel caso di specie. Come si è già ricostruito, è sulla base di una segnalazione di quel genere, infatti, che Almasri è stato arrestato dalla Digos di Torino, così come avvenuto, poche settimane prima, nel caso Abedini.
Allargando lo sguardo, vale la pena di osservare che nemmeno la convenzione tra Italia e Stati Uniti detta con precisione casi e modi nei quali la polizia può agire in via d’urgenza, apprendendo la persona ricercata. La legge 16 marzo 2009, n. 25, che ratifica l’accordo sulla Mutua Assistenza Giudiziaria tra Europa e Usa siglato nell’anno 2003, non dedica previsioni a questo tema. Eppure, nessuno ha dubitato che la polizia potesse operare motu proprio, ex art. 716 c.p.p., posto che, come prevede l’art. 696 c.p.p., nel campo della cooperazione giudiziaria si applica il codice, a meno che le disposizioni contenute nelle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e le norme di diritto internazionale generale “non dispongano diversamente”. Questa locuzione va evidentemente intesa, all’opposto di quanto fatto dalla Corte d’appello di Roma, come volta ad escludere la normativa generale non già a fronte di un mero silenzio, bensì a fronte di una eventuale previsione diversa e incompatibile con quella codicistica. In tal senso si osserva che la legge 237 del 2012 non regola “diversamente”, rispetto all’art. 716 c.p.p., l’arresto d’urgenza da parte della polizia: più semplicemente, non se ne occupa affatto, ragion per cui non può che operare la norma codicistica.
Per le ragioni espresse, la scelta di attenersi a una soluzione interpretativa diversa da quella qui proposta appare criticabile sul piano giuridico, a tal punto che illustri studiosi non hanno avuto remore a evocare “l’eclissi del diritto”[6]. Essa pone l’Italia, uno dei Paesi che ha giocato un ruolo decisivo nella istituzione della Corte penale internazionale, in una posizione critica, sia con riguardo agli altri 124 Paesi del sistema che ruota attorno alla Cpi, sia nei confronti dell’Onu, interessato in questa situazione in quanto, come ricordato, il Consiglio di Sicurezza ha conferito giurisdizione alla Corte, riferendo la situazione in Libia già nel 2011; sia, ancora, con riguardo all’Unione europea, che del sostegno alla Corte dell’Aja ha fatto, sin dalla sua istituzione, un tratto politico distintivo; sia, infine, con riguardo agli obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione internazionale contro la tortura, reato del quale Almasri è, tra gli altri, accusato. Tale Convenzione, infatti, impone a ogni Stato contraente di dotarsi degli strumenti giuridici necessari per assicurare la detenzione di un individuo incolpato di tale reato e assicurarne la presenza. Il tutto senza considerare quanto affermato dagli organi della Cpi, secondo i quali le autorità competenti dello Stato italiano (e dunque, anche il Ministro della giustizia), erano state tempestivamente informate[7].
Non è una pagina limpida quella con la quale si conclude il primo caso nel quale un ricercato dalla Corte penale internazionale è stato arrestato su suolo europeo, mettendo dunque per la prima volta alla prova la tenuta effettiva della cooperazione di uno Stato della Unione europea con la Corte dell’Aja in un caso di urgenza, con risultati estremamente negativi sui procedimenti in corso all’Aja. In attesa di fare piena luce sulla vicenda, si profilano peraltro possibili responsabilità da parte dello Stato italiano per violazione degli obblighi assunti con la ratifica dello Statuto di Roma, di cooperare “pienamente” (“fully”) con la Cpi, come si legge nel comunicato della Corte stessa del 22 gennaio scorso[8]. In un momento storico in cui la Cpi è sottoposta alle più forti tensioni e violenti attacchi di sempre, a partire dalle sanzioni Usa già riportate in vigore dal neo-eletto Presidente Trump[9], è più che mai essenziale che tutti gli Stati-parte, e l’Europa in modo compatto, supportino la Corte e il suo difficile operato.
Davvero non era possibile per l’Italia fare di meglio? Oppure, se gli obiettivi non esplicitabili erano altri, meglio di così non si sarebbe potuto fare?
[2] L’Italia ha ratificato lo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale con la legge 12 luglio 1999, n. 232.
[3] Si veda il lavoro della Independent Fact Finding Mission on Libya, che era stata istituita dal Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu nel 2020 e che ha pubblicato il suo rapporto (consultabile a questo link) il 27 marzo 2023:
[4] Sul tema, cfr. M. Caianiello, The Role of the EU in the Investigation of Serious International Crimes Committed in Ukraine. Towards a New Model of Cooperation?, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 2022, p. 223 s.
[5] Ci si permette di rinviare alle critiche mosse, all’indomani del varo della legge n. 237 del 2012, in M. Caianiello, L. 20.12.2012, Artt. 15-16, in Legisl. pen., 2013, p. 817-818.
[6] Così M. Chiavario, L’eclissi del diritto. L’amarezza e lo sconcerto, ne L’Avvenire, 23 gennaio 2025, p. 1 e 14. Non a caso, l’Autore invoca, a sua volta, la applicabilità dell’art. 716 c.p.p., considerando incomplete le previsioni della legge n. 237 del 2012.
[7] Si legge nel resoconto pubblicato dalla Corte il 22 gennaio 2025 (v. nt. 1) che “The Court’s request was transmitted through the channels designated by each State and was preceded by advance consultation and coordination with each State to ensure the appropriate receipt and onward implementation of the Court’s request”.
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