L’ex ministro della Cultura sconfessa il progetto centrista di Prodi e punta sulla desistenza. “Alle elezioni ognuno per conto suo”
C’è il caso che il centrosinistra si stia preparando a una di quelle estenuanti discussioni dalle quali di solito si esce comunque sfasciati e perdenti, tipo l’indimenticata querelle tra il partito del centro-sinistra col trattino o senza. Le intenzioni, per carità, sarebbero buone.
La domanda è seria: come si fa a battere la destra nelle prossime elezioni? L’avvio del dibattito, però, non è che autorizzi grande ottimismo. La formula che Dario Franceschini ha consegnato ieri in un’ intervistona su Repubblica diverge sia dalla strada che sta cercando di battere Elly Schlein, l’outsider che lui più di ogni altro ha contribuito a insediare al vertice del Pd, sia da quella sulla quale punta, in veste di regista, puparo e grande vecchio, Romano Prodi. L’ex ministro della Cultura è sintetico e spiccio: “I partiti che formano la possibile alternativa alla destra sono diversi e lo resteranno. L’Ulivo non tornerà. Da quella fusione è già nato il Pd”. Nel mirino c’è precisamente l’operazione avviata da Prodi con la messa in campo, della quale è artefice principale, di Ernesto Maria Ruffini, l’ex direttore dell’Agenzia delle entrate candidato a “federare” il centro.
Anche il professore, come Franceschini, professa realismo. Conti alla mano conclude che il Pd da solo non ce la può fare e neppure alleato con due formazioni considerate entrambe, nonostante i fieri dinieghi di Conte, collocate a sinistra, il M5S e Avs. Serve una gamba davvero centrista ma saldamente collocata nel centrosinistra, senza fantasie di fare da ago della bilancia. Con detta forza centrista, che dovrebbe essere partita molto prudentemente e negando le pur evidenti ambizioni di farsi partito con l’assemblea milanese di Comunità Democratica svoltasi sabato scorso, il Pd e gli altri due partiti del Campo Largo dovrebbero poi allearsi, dando vita a un polo alternativo a quello del centrodestra.
Macchè, sbotta Franceschini, non si possono mettere insieme in uno stesso canestro frutti tanto diversi: “I partiti d’opposizione vadano al voto ognuno per conto suo, valorizzando le proprie proposte. È sufficiente stringere un accordo sul terzo dei seggi che si assegnano con i collegi uninominali per battere la destra”. Insomma: desistenza. Così si vince e poi si vede. Certo difettano programma comune e leader condiviso. Al contrario la campagna elettorale “ciascuno per sé” evidenzierebbe al massimo le differenze ma poco importa: “Molte cose si discuteranno dopo il voto”. Molte? Tutte dal momento che anche sul premier, questioncina non proprio secondaria, la decisione sarebbe rinviata a dopo il voto diviso salvo provvidenziali desistenze. La linea di Elly, a quel che è dato di capire, sarebbe più vicina a quella di Prodi, salvo il fatto che a lei, segretaria del Pd, la nascita di un partito che finirebbe per dragare voti centristi proprio al suo partito non piace affatto. Alleanza e polo, anzi Campo Largo sì, ma senza scalfire i consensi del Nazareno.
La distanza tra Prodi e Franceschini sembra questione di sfumature mentre è in realtà abissale. La formula di Prodi sembra prendere atto del fallimento del Pd, constata che la fusione alla quale allude Franceschini c’è stata al vertice ma non nella base elettorale e si è risolta in un partito senza identità e in emorragia di voti. Dunque mira a portare indietro le lancette per tornare al “suo” bipolarismo, quello che gli permise di vincere due volte le elezioni, anche se la seconda, nel 2006, più in apparenza che nella sostanza. Franceschini invece nel Pd come immaginato nel 2008, al momento del peraltro lunghissimo parto, invece in buona misura ci crede ancora. Non del tutto. La “vocazione maggioritaria”, intesa come partito in grado di vincere senza alleanze, appare anche a lui, bontà sua, un miraggio. Non però la fusione tra le forze che nell’Ulivo erano solo alleate. Solo che il partitone nato da quella fusione di alleati ha bisogno perché “anche se arrivasse al 30%” non basterebbe. Inutile cercare un progetto comune a priori con quegli alleati: il rapporto deve essere quello che c’era nel 1996 tra l’Ulivo e Rifondazione, appunto la desistenza. Non finì benissimo.
La proposta di Franceschini sembra e forse è fatta apposta per risolvere in stile Gordio i problemi non solo con la a tutt’oggi inesistente forza centrista ma anche con quella che invece già c’è, il M5S. A Conte probabilmente piacerà molto. Sul pallottoliere si tratta in effetti di una proposta sensata ma fare politica col pallottoliere non ha mai portato fortuna a nessuno e non è affatto detto che nello scontro tra una coalizione, ammesso che il centrodestra resti tale, e un escamotage, o furbata che dir si voglia, gli elettori premino quest’ultimo modello. Ma il vero rischio è un altro: che il dibattito si avviti sul modello di alleanza da adottare, peraltro proprio quel che Franceschini vorrebbe evitare ben sapendo che l’esito sarebbe esiziale. Ma evitarlo con tre modelli già in campo non sarà facile. Al Congresso saranno tanti: dotti, medici e sapienti.
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