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Da quando è morto David Lynch, io ogni giorno trovo una scusa con me stessa per non scrivere di David Lynch. Vorrei scrivere che la fine del secolo scorso fu l’ultimo momento in cui il concetto di cultura popolare era così forte da assorbire anche un autore sofisticatissimo: nell’inverno del 1991 c’erano alla tv italiana due cose che dovevi vedere se non volevi venire esclusa da tutte le conversazioni, e quelle due cose erano “Beautiful” e “Twin Peaks”, alla pari.
Ma per spiegarlo dovrei dire che la cultura popolare è un concetto così pervasivo da riguardare anche chi i prodotti non li consuma, e quindi nella mia biblioteca c’è da sempre “Il diario di Laura Palmer”, nonostante io di “Twin Peaks” avessi visto sì e no una puntata per obbligo sociale (“Beautiful” invece l’ho visto per anni, perché “Beautiful” era facile e io ero già allora una ragazza facile).
Per spiegarlo dovrei dire «io di ’sto Lynch di cui tanto parlate non ho visto praticamente niente», e poche cose detesto quanto i controcorrentisti a cadavere caldo, uguali precisi pittati a quelli che hanno la foto col morto del giorno, identici nei loro «cagatemi, vi prego». E quindi di Lynch non ho scritto che era così pervasivo che, nonostante non corressi al cinema a vederlo, mi entrava in casa a mezzo libro su un telefilm che manco guardavo, a mezzo copertina di Moda con la foto che Annie Leibovitz aveva scattato a lui e a Isabella Rossellini, e soprattutto a mezzo una frase in un’autobiografia che la Rossellini aveva scritto nella seconda parte degli anni Novanta, dopo che lei e David Lynch si erano lasciati.
Vado a memoria nonostante il libro, “Qualcosa di me”, sia ancora nella mia libreria, perché non voglio che la verità rovini i miei ricordi, voglio che quella pagina sia come l’ho portata con me nei ventott’anni trascorsi da quando mi segnò.
Raccontava Isabella che un altro suo ex fidanzato, Martin Scorsese, quando lei e Lynch si erano lasciati le aveva detto che l’aveva capito prima che succedesse, e precisamente quando David, a Cannes, aveva vinto la Palma d’oro per “Cuore selvaggio”, e alzandosi tra gli applausi della platea l’aveva baciata. Un uomo così riservato, così geloso del proprio privato, non avrebbe mai fatto un gesto così pubblico se tutto non fosse già finito.
Ripenso a quell’osservazione ogni volta che qualcuno rende pubblica la propria vita sentimentale, ogni volta che qualcuno mette in scena un rapporto che, per il solo fatto di venire messo in scena, smette d’essere vero. È giunto il momento di confessare che una pagina dell’autobiografia d’un’attrice del cui lavoro conosco pochissimo ha condizionato la mia vita di relazioni più di qualunque scena primaria.
Non ho mai incontrato Isabella Rossellini, chi la conosce me ne parla come d’una donna sensazionale, e non dubito che lo sia. È, tra le altre cose, un’eccezione alla mia regola di non valutare le persone dalle loro vite sentimentali: tutti ci innamoriamo continuamente di imbecilli, il modo in cui ci si incastra con qualcuno in una coppia ha pochissimo a che vedere con le qualità di quel qualcuno.
Questo però non vale per la Rossellini (l’uso dell’articolo determinativo è, oltre che un’abitudine novecentesca cui non rinuncerò neanche da morta, in questo caso un doveroso omaggio al suo essere una diva), che è stata solo con uomini supercalifragilistici. Lynch, Scorsese, persino quel figo supremo di Gary Oldman. In un libro stupendo e mai tradotto in Italia in cui il critico Roger Ebert riuniva tutte le sue conversazioni con Scorsese, c’è questa dichiarazione d’amore qui, del 1983: «Non sopporto di vedere niente con Nastassja Kinski perché mi ricorda troppo Isabella. Mi devasta. Non posso neanche andare a vedere un film dei Taviani, perché Isabella e io ci corteggiammo un po’ su un loro set. E non riesco a tornare a Salina, dove Visconti girò “Il gattopardo”, perché ci andammo insieme».
Per completezza, Ebert chiede se a deprimerlo sia il ricordo di Isabella, e Scorsese risponde: «Il ricordo d’un periodo in cui credevo d’essere felice, mettiamola così. Un periodo in cui davvero credevo d’avere le risposte». Martin Scorsese è troppo intelligente per non sapere che non ci innamoriamo degli altri ma d’un riflesso di noi, che non abbiamo nostalgia degli altri ma di come eravamo noi con quegli altri, e tuttavia Isabella Rossellini per me è questa leggenda qui: una che fa innamorare il più colto e simpatico dei registi in questo modo straziante.
C’è una frase favolosa nell’intervista che Annalena Benini ha fatto a Cecilia Sala (è sul numero di Review che esce in edicola oggi). Fa così: «Pensa se fossi stata fidanzata con un cretino, a quest’ora sarei morta». Quel che la Sala non sa è che, quando sua madre è uscita dall’incontro con Giorgia Meloni, tutte noi normali, noi con genitori normalmente impresentabili, normalmente isterici, normalmente sciamannati, tutte noi abbiamo pensato che è proprio una fortuna stare in galera in Iran con là fuori una famiglia che non ti fa vergognare.
E poi, quando è tornata, e sua madre ha raccontato che la Meloni le aveva dato il suo numero e lei l’aveva memorizzato con le iniziali, e quindi quando squillava il telefono per dirle della liberazione non riconosceva chi fosse «GM», a quel punto noialtre che rischiamo la carcerazione nel terzo mondo solo se fanno una retata in un Valtur di Sharm el-Sheikh abbiamo letto l’intervista e di nuovo abbiamo pensato: che fortuna. Che fortuna avere una madre cui la Meloni dà il numero perché non la inquadra subito come una che poi quel numero lo usa per chiedere un prestito, una raccomandazione, uno strapuntino. Che fortuna avere una madre che non scrive «Meloni» in modo che compaia bello grosso sul display e possa vantarsi con la parrucchiera: mi chiama sempre, ha bisogno dei miei consigli.
Giovedì sono uscite le candidature agli Oscar, e dentro c’era Isabella Rossellini, perché è stato un anno talmente disperante che chi dà i premi cinematografici è costretto a prendere in considerazione un po’ tutto, persino “Conclave” (un po’ tutto tranne Guadagnino, che forse non premierebbero neanche se fosse uscito solo lui: praticamente il nuovo DiCaprio).
Isabella Rossellini è candidata all’Oscar per un film in cui ha due scene, e nessuna delle due è quella delle cavallette con cui Carrie Fisher riuscì ad arrubbarsi l’intero “The Blues Brothers”: è candidata per un ruolo non memorabile in un film non memorabile, ma noi sappiamo che è un premio alla carriera, alla vita familiare, a quella sentimentale, alla nostra contentezza che su questo pianeta ci sia anche lei.
Isabella Rossellini è candidata e ha ringraziato con un video girato davanti alla locandina di “Europa 51”, perché ha 72 anni e sa che essere la figlia di Ingrid Bergman e Roberto Rossellini è una meraviglia, mica qualcosa di cui complessarsi: se fosse stata la figlia di due cretini chissà dove sarebbe ora, forse non avrebbe neanche avuto quei fidanzati meravigliosi. Essendo lei Isabella Rossellini e non una di noi tizie medie che dobbiamo invecchiare per iniziare a capire il mondo, forse questa consapevolezza ce l’aveva già a 17, ma allora non avevano tutti un telefono con cui farti continue interviste in cui farti continuamente dire che figata fosse essere la figlia della Bergman.
Isabella Rossellini è candidata all’Oscar e io voglio fortissimo che vinca, a cinquant’anni da quel 1975 in cui sua madre vinse per “Assassinio sull’Orient Express”, salì sul palco, e pregò Valentina Cortese di perdonarla, perché avrebbe dovuto vincere lei per “Effetto notte”. Non so francamente con chi potrebbe scusarsi quest’anno Isabella – forse con Ariana Grande per l’evidente mancanza di cibo sul set di “Wicked” – ma la figlia che vince a cinquant’anni dal leggendario discorso della madre è la materia di cui è fatto il cinema, nonché una trama nettamente migliore di quella di “Conclave”.
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