La cerimonia
Poco dopo l’inizio dell’intervento di Claudia Eccher, rappresentante del Csm, una sessantina di toghe se n’è andata tenendo in mano la Carta Costituzionale
La protesta, ben visibile, è andata in scena durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. Ma per tutto il pomeriggio di ieri, 25 gennaio, si sono susseguite le prese di posizione, andate ad aggiungersi a quelle già emerse nel corso della mattinata.
Era intervenuta per prima, secondo quanto accade ogni anno, la presidente della corte d’appello di Brescia, Giovanna Di Rosa, che ha ringraziato, tra gli altri, il presidente reggente Antonio Matano che «per oltre un anno ha diretto con sapienza e spirito di servizio la Corte».
La relazione della presidente
Quindi la relazione della presidente che non si è limitata a tracciare un bilancio dello stato della giustizia in provincia di Brescia e nel distretto. Ha toccato il tema del giorno con passaggi come «indipendenza e imparzialità della magistratura dovrebbero essere i principi ispiratori di qualsiasi riforma, ma con questi provvedimenti l’assoggettamento del pubblico ministero al potere esecutivo è il rischio maggiore».
Ha inoltre aggiunto: «“A ciascuno il suo” (suum cuique tribuere, secondo la nota espressione riportata da Ulpiano) è la formula che esprime una vera e propria promessa di attribuzione a ciascuno di ciò che gli spetta»; aggiungendo ancora: «I comportamenti ispirati al senso profondo dell’etica professionale, al rispetto dei tempi processuali, all’ascolto delle ragioni altrui, la chiarezza delle decisioni attraverso l’uso di un linguaggio semplice, il costante uso di potere decisionale connesso a responsabilità sono gli strumenti per far comprendere che l’indipendenza – di cui il giudice deve rimanere munito – non è un privilegio, ma una risorsa per ottenere la risposta imparziale di applicazione della norma» e «assicurare così la giustizia può sostenere la composizione delle contraddizioni tra giustizia attesa e giustizia applicata, in modo che si acceda a questo servizio dello Stato con fiducia e rispetto e che ciascuno sia convinto di essere stato ascoltato, torto o ragione che abbia».
La protesta
La relazione si è chiusa tra gli applausi, ma è stato poco dopo l’inizio dell’intervento della rappresentante del Csm, Claudia Eccher, che i magistrati, circa una sessantina, tra i presenti, indossata la toga, tenendo in mano la Carta costituzionale e con una coccarda tricolore, sono usciti dall’aula. «La magistratura associata del distretto bresciano -ha spiegato Davide Scaffidi, per l’Anm – ha sempre mostrato di avere a cuore i i problemi della giustizia. Oggi avevamo in programma di abbandonare l’aula al momento dell’intervento del rappresentante del ministero di giustizia. Con profondo senso di smarrimento e profonda indignazione ci siamo allontanati prima – non era previsto – ossia durante l’intervento del rappresentante del Csm, che in questa occasione istituzionale ha esposto, con riguardo alla riforma, la sua posizione personale, e non quella – di segno differente- deliberata dall’assemblea plenaria del Consiglio, organo di autogoverno della magistratura che il rappresentante del Csm era chiamato a rappresentare».
Claudia Eccher ha più tardi diffuso una nota: «Noto con grande amarezza che fra i magistrati c’è chi continua a rifiutare qualsiasi confronto, rimanendo fermo sulle proprie convinzioni, frutto di pregiudizio. Nel mio intervento dopo aver ricordato il ruolo insostituibile della magistratura nel nostro ordinamento, ho più volte sottolineato che la separazione delle carriere non modifica in alcun modo l’articolo 104 della Costituzione secondo cui la magistratura, sia quella giudicante che requirente, sono e resteranno un ordine indipendente da qualsiasi altro potere dello Stato.
Purtroppo i magistrati del distretto di Brescia presenti questa mattina al palazzo di giustizia hanno deciso di non ascoltare e di uscire dall’Aula, senza alcuna comprensibile motivazione. Sulla riforma della separazione ci sono ancora troppe sovrastrutture ideologiche che avvelenano il dibattito. Non mi pare che così facendo la magistratura renda un buon servizio al Paese. Nel mio ruolo di rappresentante del Consiglio resto sempre disponibile al confronto».
La riforma nelle parole di Rispoli
Particolarmente applaudite sono state quindi le parole del procuratore generale Guido Rispoli, che ha dedicato l’intero intervento al tema della riforma: «Il tema che voglio toccare è quello della conduzione delle indagini. C’è la volontà del potere esecutivo di trasferire le indagini dal pm alla polizia giudiziaria. La polizia giudiziaria avrebbe la capacità tecniche di condurre le indagini, Sono capacissimi, i risultati sono stati sempre raggiunti con la polizia giudiziaria. Ma si pone il problema dell’indipendenza della polizia giudiziaria. Se il pm viene notiziato solamente alla fine delle indagini della polizia giudiziaria, lo scenario cambia totalmente. I soggetti fanno capo ai singoli ministri».
Quindi il riferimento a due simboli, se non «ai» due simboli della lotta per la giustizia, una lotta pagata con la vita: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Se dobbiamo seguire l’insegnamento di Falcone e Borsellino, sono stati prima due giudici civili. Borsellino diventa magistrato civile per quindici anni. Falcone è a Trapani come giudice civile, viene trasferito a sua domanda come giudice della sezione fallimentare e dopo l’omicidio del giudice Terranova, e l’ufficio istruzione gli chiede di lavorare praticamente insieme a Borsellino. Ci va per senso dello Stato, ma proveniva da un percorso di giudice civile. Negli scritti di Falcone, in un’intervista rilasciata poco prima di un anno di essere assassinato dice: ”Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte: gli occorrono quindi esperienza, competenza, capacità, preparazione“».
E proprio Borsellino scrisse: «Le ricorrenti tentazioni del potere politico, quali ne siano le motivazioni, di mortificare, obbiettivamente i magistrati del pm, prefigurandone il distacco dall’ordine giudiziario anche attraverso il primo passo della separazione della carriera».
La Giunta sulla protesta
“Fino all’ultimo abbiamo sperato che non accadesse ed invece i magistrati, guidati dalla loro associazione nazionale, si sono alzati e sono usciti, girando le spalle durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. C’è da chiedersi se sia un segno di disciplina rinnegare la legittimità di un potere dello Stato e se sia onorevole rifiutarsi di condividere uno spazio pubblico con un rappresentante di quel potere, mentre disciplina e onore dovrebbero caratterizzare i comportamenti pubblici e privati di tutti i servitori dello stato.
C’è da chiedersi ancora se si rendano conto delle conseguenze di un tale strappo istituzionale che pone un potere dello Stato contro gli altri, non solo contro il governo, ma anche e soprattutto contro il parlamento che sta decidendo sulla riforma costituzionale. Proprio girando le spalle, nel tempo, la magistratura ha consumato se stessa, mancando di rispetto prima di tutto alla propria alta funzione di garanzia dello Stato di diritto. Lo ha fatto consentendo che negli ultimi anni il correntismo governasse le carriere dei magistrati, e divenisse centro di gestione di potere corporativo sempre maggiore.
Lo ha fatto di nuovo liquidando ipocritamente lo scandalo Palamara come se tutto dipendesse da questo magistrato e da pochi altri suoi sodali, difendendo di fatto quel sistema che è rimasto immutato. Lo fa ora opponendosi con queste improprie modalità, a una riforma che mira, nell’interesse del cittadino, a rafforzare il giudice e ad aumentare l’autonomia interna di tutti i magistrati liberandoli dal controllo delle correnti. I cittadini tuttavia hanno compreso che l’opposizione alla separazione delle carriere rappresenta una difesa dell’attuale sistema e una campagna di tipo corporativo, mirata a ostacolare l’inevitabile necessaria innovazione di una giustizia auto referenziale che, così com’è, non risponde né ai principi di un processo equo né alle reali esigenze di una democrazia moderna”.
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