La funzione civile di una buona informazione – Chiesa di Milano

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La comunicazione che deve andare al di là del politically correct, ma che deve, soprattutto, avere il coraggio di dire la verità, anche quando l’informazione si fa scomoda, occupandosi di ciò che il potere non vuol fare vedere. 

Sono tanti i temi che ha affrontato l’atteso dialogo tra il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana e arcivescovo di Bologna, e Ferruccio de Bortoli, giornalista e già direttore del Corriere della Sera e de Il Sole 24Ore, proposto dalla Cei nel contesto del Giubileo del mondo della comunicazione in una chiesa di Santa Maria gremita. Introdotto da Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali della stessa Conferenza Episcopale Italiana che parla dell’essere pellegrini di speranza, o meglio, comunicatori di speranza, l’incontro, dal titolo “Comunicare sostanza e pace”, si avvia dal bisogno, come spiega de Bortoli, «di fare fino in fondo il proprio mestiere di giornalisti anche con più coraggio».

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La funzione civile della buona informazione 

«Se io voglio bene a ciò che dico e che comunico, trovo anche il modo di andare oltre il formale, raccontando quello che succede davvero: più che coraggiosi bisogna essere giornalisti», scandisce subito il Porporato. «Il vostro mestiere è bellissimo, perché trova la speranza dell’umano».«Chiediamoci – è un tormento che mi ha sempre accompagnato -, se facendo il nostro mestiere, lo abbiamo sempre fatto fino in fondo. Qualche volta bisogna dire le cose come stanno anche con una certa brutalità perché altrimenti facciamo crescere illusioni», chiosa il giornalista.

Concorde, ma con qualche distinguo, Zuppi per il quale è necessario, certo, dire le cose con chiarezza, ma che pure esiste un livello sotto il quale non si può andare. 

Immediata la replica di De Bortoli. «A volte bisogna essere diretti, seppure è scomodo, non girando troppo intorno ai problemi», anche se, riflette da parte sua il Cardinale, «talvolta, la notizia “sparata” può fare ancora più male e la schiettezza può diventare superficialità». 

«Vorrei che si riconoscesse la funzione civile di una buona informazione, in modo che l’architrave della democrazia non sia fatta da una curva da tifosi. Nessuno è proprietario della verità, ma avere un’opinione pubblica avvertita e responsabile è fondamentale», incalza il giornalista a cui replica Zuppi. «Civile ed efficace possono andare insieme – non è questione di essere buonisti -, altrimenti c’è solo il ring».

Il potere dei social

Il pensiero va alla “comunicazione da oligarchi”, in chiaro riferimento al potere di chi gestisce le piattaforme mondiali e i grandi social. 

«Questo potere oligarchico, addirittura, i fatti se li inventa per andare contro i propri nemici. Se una cosa è falsa oggi sui social, diffondendola, può diventare vera domani: questo è il veleno che dobbiamo combattere, anche perché così si crea un rumore di fondo per cui, alla fine, ci si piega al sentire diffuso», per de Bortoli.

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«Dobbiamo essere tutti preoccupati», ammette il Presidente Cei. «Il rapporto tra l’informazione digitalizzata e la democrazia deve comunque preoccuparci, anche perché si fa fatica a distinguere tra falso e vero, tanto più che, magari, è l’algoritmo che decide e uno nemmeno se ne accorge». 

Pace e guerra

Poi, il richiamo alla pace che ispira il titolo del confronto. «Che effetto le fanno, Eminenza, le immagini degli immigrati espulsi dagli Stati Uniti?», domanda ancora il già direttore del “Corriere”. 

«Per un europeo, istintivamente, anche se vi sono altre immagini che vengono dall’Europa, dovrebbero creare problemi – per i cristiani è evidente – ma anche per gli altri, per l’umanesimo che ci appartiene. In vista della pace quello che ci deve preoccupare è l’odio. Sono convinto che una cosa sola serve: capire le ragioni dell’altro e così capire tutta l’umanità. Come mi ha detto la madre di uno degli ostaggi uccisi in Israele, “Il dolore è un male per tutti e non voglio che la mia sofferenza provochi altra sofferenza”».

E se, magari, l’interesse per la guerra diminuisce, come pare stia avvenendo per il conflitto in Ucraina? «È vero che ci abituiamo a tutto, ma non possiamo abituarci a una guerra, specie di quelle proporzioni all’interno dell’Europa. Un grande compito della comunicazione è far capire cosa sia la guerra. 80 anni fa è finito il secondo conflitto mondiale, ma è una memoria che stiamo perdendo, anche se da quella tragedia nacque tanta speranza è ora stanno scomparendo i diretti testimoni. Il nostro algoritmo personale dovrebbe mettere insieme tutti i nostri sensi. Non dovremmo fare della memoria una prigione del politically correct, ma conservala preoccupandoci di come trasmetterla». 

E, in questo, si potrebbe dire, «Europa cercasi», laddove pericolosissima è la delegittimazione anche degli organismi internazionali, prosegue Zuppi, dopo l’interrogativo postogli se abbia ancora senso parlare di una corte internazionale di giustizia sovranazionale. 

«Sono preoccupato dal mettere in dubbio ogni organismo sovranazionale. Abbiamo rimosso gli anni del Covid e anche questo è un mistero della comunicazione. Dicevamo allora: “Se ne esce tutti insieme”,  ma lo abbiamo subito dimenticato. Ma se non ci sono meccanismi che ci aiutino a tenere tutto, appunto, insieme, come si fa? Si ripudia la guerra solo se c’è una sovranità capace di risolvere i conflitti». 

Abusi e fine vita

Infine, due argomenti particolarmente complessi: in primis gli abusi, anche in riferimento al caso di Bolzano. «Tutti, con consapevolezza e determinazione, dobbiamo affrontare il problema partendo anzitutto dall’ascolto delle vittime e l’informazione, specie all’inizio, ci ha fatto bene per maturare maggiore consapevolezza. Ma, qualche volta, il giustizialismo è pericoloso. Dobbiamo fare di più e meglio». E, al termine, il fine vita: «La preoccupazione della Chiesa è sempre difendere la vita. Abbiamo fatto tanto con le cure palliative, bisogna andare avanti così». 

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