Shoah e antisemitismo: la guerra delle parole

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Sono ottant’anni da quando il carrista Avkhad Gilmanov, uno dei primi soldati dell’Armata Rossa a varcare il cancello di Auschwitz, si trovò davanti i sopravvissuti allo sterminio, «fantasmi che non si tenevano in piedi mi strappavano il pane di mano, piangevano e mi abbracciavano».

E questa volta, la «cifra tonda» dell’anniversario ci precipita addosso in un momento in cui sembra che il 27 gennaio abbia perso il suo senso originario, trovandone un altro, del tutto diverso e addirittura rovesciato rispetto a quello immaginato nel 2000, quando quella data fu inserita da una legge nel calendario delle ricorrenze civili. Un senso che la ambienta in un clima efficacemente riassunto nel titolo di un libro orticante e coraggioso scritto da una storica ebrea, Anna Foa: quello del Suicidio di Israele. Mentre l’antisemitismo, mai scomparso, si rinvigorisce e si sovrappone allo sterminio di decine di migliaia di civili a Gaza.

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Del resto, il senso del 27 gennaio è più volte cambiato, diventando come un termometro in grado di misurare la temperie politica, sociale e morale del momento. E la memoria stessa del passato assume di volta in volta un carattere cangiante. Nel 2000 la legge che istituiva la giornata della memoria arrivò su proposta di un grande giornalista di recente scomparso, Furio Colombo, allora senatore. Di fronte ai parlamentari riuniti, Colombo pronunciò una frase che gelò tutti: «Siamo nella stessa aula, seduti sugli stessi scranni su cui 315 deputati su 315 approvarono, nel 1938, le leggi razziali». La legge doveva servire, allora, a ricordare soprattutto le responsabilità di italiani tutt’altro che «brava gente» nelle persecuzioni antiebraiche: dal 1945 il discorso pubblico le aveva fatte affiorare poco o per nulla, né la ricerca storica o la produzione editoriale avevano portato contributi significativi.

Per qualche tempo, parlare di giorno della memoria ha voluto dire innanzi tutto far risaltare la banalità del male – una delle frasi più ricorrenti ma meno comprese nella retorica della testimonianza – di volenterosi carnefici a lungo ignorati. Così si sono moltiplicate le testimonianze, le pubblicazioni, le manifestazioni, le riflessioni, le gite delle scolaresche nei lager, si è generalizzata l’idea che perfino Dio andasse ripensato dopo Auschwitz. I sopravvissuti allo sterminio, per 55 anni pressoché ignorati e essi stessi poco inclini a ricordare di essere stati vittime di un odio che temevano potesse riproporsi, cominciarono a palare, ad andare in giro nelle scuole. A essere messi sotto i riflettori della memoria, diventandone i custodi ufficiali. Così, sia pure solo per un giorno all’anno, il 27 gennaio ha assunto il senso di una catarsi collettiva, anche per espiazioni più o meno formali ma proficue di politici in pensose meditazioni allo Yad Vashem, il memoriale di Gerusalemme. Poi, per alcuni anni, la memoria dell’Olocausto ha avuto il senso di farne risaltare l’unicità, la dimensione di massima manifestazione di ferocia contro l’umanità messa a punto con precisione geometrica, con la «soluzione finale» decisa a Wannsee. Negli anni, il senso del 27 gennaio è cambiato con il profilarsi di una sorta di feticizzazione della memoria, in cui l’armamentario commemorativo, invece di promuovere il ricordo dello sterminio, ha sortito l’effetto di sollecitare rancorose controstorie. Così si è passati a logiche da derby come se avessero senso contrapposizioni del tipo «foibe contro shoah», con l’attitudine a sfidarsi stilando graduatorie di morti ammazzati in diverse fasi storiche.

Dopo la strage di civili e la catastrofe umanitaria a Gaza, dopo la reazione abnorme decisa da Netanyahu all’indomani dell’assalto di Hamas del 7 ottobre, il senso del 27 gennaio è ancora cambiato, è il più difficile da cogliere. Il paradigma vittima-carnefice sovrasta tutto e mostra lo Stato fondato dopo la Shoah nel ruolo di carnefice. Parole come «genocidio» e «pogrom» si incollano addosso al Paese che dalla catastrofe dell’Olocausto è nata, insieme al sospetto di un uso strumentale e ormai improponibile di quella catastrofe come alibi per compiere a sua volta azioni inumane. E ci sembra di restare allibiti, ammutoliti, di fronte al procedere del Male.

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Si sa, le parole sono importanti, e «ogni guerra è anche una guerra di parole», come recita l’incipit del recentissimo libro di Valentina Pisanty, Antisemita – Una parola in ostaggio. Ecco perché, in un momento tragico in cui i termini vengono usati come clave da una parte e dall’altra e tutto sembra confondersi in tutto, occorre sfidare la complessità del mondo contemporaneo e l’atrocità della «guerra mondiale a pezzi» descritta da papa Francesco affidandosi a voci sicure. Il modo migliore di farlo è mostrato da testimoni come Edith Bruch, la scrittrice ebrea ungherese novantatreenne che non smette di testimoniare, ora in libreria con La donna dal cappotto verde. E come la senatrice Liliana Segre, anche in questi giorni travolta sui social da valanghe di insulti. La tenacia della sua testimonianza la anima, a 94 anni, di un coraggio che insegna a tutti la forza della memoria.

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