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Lunedì 27 gennaio le milizie ribelli del “Movimento per il 23 marzo” (M23) hanno annunciato d’aver preso il controllo di Goma, nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Goma è la più grande e importante città del Nord Kivu, una regione ricca di risorse minerarie al confine con il Ruanda: il governo al momento nega che Goma sia stata conquistata, ma i ribelli sono stati avvistati nel centro della città. È il momento culminante sia di un’offensiva militare che si è intensificata nelle ultime settimane, causando più di 400mila sfollati, sia della nuova ribellione dell’M23, iniziata nel 2022.
I ribelli sono sostenuti, anche operativamente, dal Ruanda e il governo della Repubblica Democratica del Congo ha equiparato l’attacco su Goma a una «dichiarazione di guerra». Tra due giorni i presidenti della Repubblica Democratica del Congo e del Ruanda, Félix Tshisekedi e Paul Kagame, parteciperanno a una riunione d’emergenza mediata dal Kenya per trovare un accordo e sospendere i combattimenti. Non è ancora chiaro come la Repubblica Democratica del Congo risponderà a quello che è considerato lo sviluppo più importante degli ultimi anni nella ribellione dell’M23 e nelle tensioni col Ruanda, con cui per ritorsione la Repubblica Democratica del Congo ha appena interrotto i rapporti diplomatici.
La regione orientale della Repubblica Democratica del Congo è un posto complicato e instabile, in cui sono attivi diversi gruppi armati. Da ormai un anno l’M23, storicamente radicato nelle città di Masisi e Rutshuru, ha esteso il territorio che controlla e all’inizio del 2025 aveva completato l’accerchiamento di Goma, occupando Minova e Sake, i due principali centri urbani attorno al capoluogo. L’offensiva ha causato decine di migliaia di nuovi sfollati: prima sono fuggiti nei vasti campi profughi di Goma e, quando anche questa è stata circondata, si sono riversati nel vicino Ruanda.
L’M23 è entrato a Goma dopo aver dato un ultimatum alle forze governative per chiedere loro di smettere di difendere la città entro 48 ore. Lunedì mattina gli abitanti hanno riferito d’aver sentito colpi d’artiglieria e spari, soprattutto nella zona dell’aeroporto, che ha sospeso i voli. Bintou Keita, la rappresentante speciale dell’ONU in Congo, ha detto che i ribelli hanno utilizzato gli abitanti come «scudi umani» nell’ultima fase dell’avanzata, dai sobborghi della città verso il centro. Domenica il Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva ordinato, inascoltato, all’M23 e alle «forze esterne» che lo fiancheggiano di ritirarsi.
Con «forze esterne» l’ONU intende quelle regolari del Ruanda. Secondo i suoi report, infatti, nella Repubblica Democratica del Congo sono presenti tra le 3mila e le 4mila truppe ruandesi. Hanno armato i ribelli e fornito loro equipaggiamenti più avanzati: visori notturni, mortai, mitragliatrici e in generale armi che hanno ampliato il loro raggio d’azione, rendendoli simili a un esercito convenzionale. L’M23 è l’ultimo di vari gruppi armati storicamente sostenuti dal Ruanda, per ragioni etniche.
I gruppi etnici dominanti nella regione dei Grandi Laghi (che oltre a Ruanda e Repubblica Democratica del Congo comprende Burundi, Uganda, Tanzania e Kenya) sono due, gli Hutu e i Tutsi. Il genocidio in Ruanda del 1994 fu l’apice dello scontro tra queste due etnie: gli Hutu, che erano più numerosi, massacrarono centinaia di migliaia di Tutsi, che erano meno ma che per varie ragioni, determinate anche dalle decisioni dei vecchi dominatori coloniali, occupavano il grosso dei posti di potere.
Dopo il genocidio i Tutsi tornarono al potere in Ruanda, costringendo molti Hutu a migrare in massa nella Repubblica Democratica del Congo. Da allora il Ruanda ha un interesse particolare per la situazione congolese.
I ribelli dell’M23 sono prevalentemente di etnia Tutsi e rivendicano un loro ruolo da protettori dei Tutsi congolesi. Si sono costituiti nel 2012 e sono l’erede diretto del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), una formazione paramilitare attiva tra il 2006 e il 2009 nelle province orientali della Repubblica Democratica del Congo. Il loro nome si riferisce alla data – il 23 marzo del 2009 – dell’accordo che pose fine a una precedente rivolta, e che secondo loro non fu rispettato: prevedeva che i Tutsi fossero integrati nell’esercito e nell’amministrazione congolesi, tra le altre cose.
Già nel 2012 i combattenti dell’M23 riuscirono a occupare Goma, restandovi per una decina di giorni prima di ritirarsi. All’epoca funzionò la grande pressione internazionale sui ribelli e sul Ruanda: l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama chiese a Kagame, che è presidente del Ruanda dal 2000 ma controlla di fatto il paese dal 1994, di smettere di sostenere i ribelli. Kagame lo fece anche per non perdere 240 milioni di dollari di aiuti internazionali, da cui l’economia del suo paese dipendeva (oggi un po’ meno).
Rispetto ad allora sono cambiate alcune cose, sia per i ribelli sia per il governo ruandese.
Le motivazioni dell’M23 sono un po’ diverse. In passato chiedevano il rispetto di accordi che prevedevano, tra le altre cose, il riconoscimento del loro braccio politico come partito legittimo. Oggi invece sono interessati soprattutto a controllare il Nord Kivu, la regione di Goma dove sono presenti estese miniere di coltan (un minerale da cui sono estratti elementi essenziali per i microchip di smartphone e dispositivi digitali) che valgono al gruppo introiti da 800mila dollari al mese (763mila euro). Il Nord Kivu è inoltre uno snodo commerciale importante con Uganda e Ruanda e per le merci in arrivo dai porti del Kenya: controllare la città di confine di Bunagana ha consentito ai ribelli di aumentare le loro entrate, chiedendo un pedaggio.
In passato il Ruanda accettò di ritirare il sostegno ai ribelli in cambio di condizioni favorevoli, ma oggi il paese è meno isolato diplomaticamente di quanto fosse in passato. Nel 2022 nella sua capitale Kigali ci fu la riunione biennale del Commonwealth delle nazioni, l’associazione internazionale di cui fanno parte 56 paesi, quasi tutti dell’ex impero coloniale britannico.
La scorsa settimana l’offensiva dell’M23 ha ucciso più di 13 soldati delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite (MONUSCO) e della Comunità di sviluppo dell’Africa australe, che ha un contingente composto da 2.900 soldati provenienti da Sudafrica, Tanzania e Malawi.
– Leggi anche: Lo stupro come arma di guerra nella Repubblica Democratica del Congo
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