Dazi, quali risultati hanno ottenuto finora quelli di Trump e Biden

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Per Donald Trump, ‘dazi’ è la parola più bella del mondo. Ha promesso di alzarli contro Canada, Messico, Unione europea e Cina. Vuole raggiungere almeno tre obiettivi contemporaneamente: il rilancio della manifattura, la riduzione del deficit commerciale e l’accumulo di grandi entrate finanziarie per il governo. Trump e i suoi sostenitori usano spesso come modello la fine del XIX secolo, un periodo d’oro per la crescita americana, ottenuto, secondo loro, proprio grazie a dazi molto alti. Ma altri analisti dicono che in quegli anni l’America crebbe per altri motivi, ad esempio il successo di industrie non esposte al commercio estero. Che cosa si può dire dei dazi di oggi? Biden non solo ha tenuto quelli messi da Trump nel primo mandato, in alcuni casi li ha anche aumentati. Con quale risultato?

Il primo dato di fatto è che la manifattura americana non sta decollando. La sua quota nell’occupazione è calata da quando Trump ha introdotto i primi dazi. È vero che alcuni settori si sono avvantaggiati, come acciaio e alluminio, che sono stati protetti dall’export di Canada e Ue; ma è successo a discapito di tante aziende, sempre statunitensi, che hanno pagato prezzi più cari per le loro materie prime. Insomma, il vantaggio di pochi si è tradotto nel danno di altri. C’è però un ambito in cui la politica industriale protezionista sembra dare i suoi frutti: quello dei semiconduttori. In questo caso ai dazi (contro le importazioni dalla Cina) si sono aggiunti forti incentivi a produrre negli Usa. Il governo americano ha iniettato 40 miliardi di dollari di sussidi per l’industria dei chip. E i risultati, in effetti, si vedono. Il Chips Act di Joe Biden ha catalizzato grandi investimenti nei semiconduttori, molto maggiori dei 40 miliardi iniziali, con aziende come Tsmc, Intel e Samsung che stanno costruendo impianti negli Stati Uniti.

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Il pericolo di una guerra commerciale

I dazi però non sono serviti a riequilibrare la bilancia dei pagamenti, un’altra fissazione di Trump. Il saldo negativo, per lui, è sinonimo di paese debole che si fa rapinare. Idea bizzarra: grandi esportatori come Cina e Germania oggi sono in difficoltà, malgrado le bilance commerciali positive. Al confronto l’America attraversa una fase brillante. La sua economia cresce bene, l’inflazione è tenuta ormai sotto controllo. Il deficit commerciale però è a livelli record: 310,9 miliardi di dollari, pari al 4,2% del Pil.

Come mai? La globalizzazione trova vie alternative in un mondo più complesso di quello del XIX secolo. Gli americani hanno importato meno dalla Cina, ma comprato di più da altri paesi. Per aggirare i dazi, molte aziende hanno spostato le catene di approvvigionamento in Sud-Est asiatico (Vietnam, Malesia) e in Messico, che sono diventati nuovi centri di assemblaggio, usando però anche componenti cinesi. Ma il problema non è tanto questo. Dazi indiscriminati potrebbero scatenare una guerra commerciale, se altri paesi reagissero aumentando a loro volta le tariffe. A quel punto verrebbe colpito anche l’export dell’America, danneggiandone l’economia.

Il rapporto fra Trump e l’Europa

La speranza è che Trump capisca i rischi dei dazi e li usi più che altro come strumento per avviare trattative. Scott Bessent, messo a capo del dipartimento del Tesoro, non è un fanatico del protezionismo, la sua ricetta è tagli delle tasse e deregulation. Nel frattempo, a Davos, Trump ha minacciato l’Europa con nuove tariffe, lamentandosi di due cose: lo squilibrio commerciale e le spese militari ancora carenti. Potrebbe andargli bene un compromesso: niente tariffe a patto che l’Europa compri più prodotti americani.

Questo ci riguarda molto da vicino perché l’Italia, dopo la Germania, è il principale esportatore europeo negli Stati Uniti. Roma e Berlino fanno insieme gran parte del deficit commerciale degli Usa con la zona euro, con rispettivamente un surplus attorno a 40 e 85 miliardi. Sono quindi i due paesi più esposti a un aumento dei dazi. Giorgia Meloni, visto il buon rapporto con Trump, potrebbe provare a trattare da sola. Ma forse sarebbe un errore perché in ordine sparso i paesi europei sono più deboli, e l’Italia ha comunque bisogno dell’Unione europea. Meglio un piano comune. Peraltro ci sono prodotti di cui abbiamo bisogno, come il gas naturale liquefatto e più investimenti nella difesa.

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