Geopolitica del cotone, tra problemi socio-ambientali e il sostentamento di 1 miliardo di persone

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L’industria del cotone è una delle filiere più antiche della storia e oggi costituisce un business multisfaccettato il cui indotto nell’anno 2020 garantiva il sostentamento a ben 1 miliardo di persone, inclusi 100 milioni di piccoli contadini titolari di piccoli appezzamenti di terreno. All’ombra di questi numeri si celano però altri aspetti meno noti ma egualmente importanti, come la lotta senza quartiere tra i principali Paesi produttori, desiderosi di conquistare nuove fette di mercato, e pratiche di coltivazione e raccolta che hanno prodotto autentici disastri ambientali e lo sfruttamento di intere popolazioni.

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Origini e breve storia dell’industria del cotone

Il cotone è una fibra tessile ricavata dalla ovatta che avvolge i semi delle piante arbustive del genere Gossypium. In realtà esistono diverse specie di piante di questo genere che producono cotone, tuttavia nel corso della storia solamente quattro sono state domesticate e, successivamente, coltivate commercialmente:

  • Gossypium hirsutum – nativo dell’America Centrale, Messico, Caraibi e Florida meridionale;
  • Gossypium barbadense – nativo delle regioni tropicali dell’America meridionale;
  • Gossypium arboreum – nativo dell’area del subcontinente indiano;
  • Gossypium herbaceum – nativo dell’Africa meridionale e della penisola arabica.

Per questa ragione non esiste un unico luogo d’origine del cotone (al contrario del caso del caffè, per esempio) quanto piuttosto un insieme di luoghi nei quali un certo numero di civiltà distinte le une dalle altre ne hanno iniziato la domesticazione.

Esattamente come è capitato ad altre specie sia vegetali che animali addomesticate dagli esseri umani per il proprio sostentamento e/o attività economiche, nel corso della storia le suddette piante arbustive sono state oggetto di un processo di selezione che ha favorito l’emergere delle varietà più produttive, ma fu solamente l’invenzione della sgranatrice di cotone ad opera di Eli Whitney nel 1793 (poi brevettata il 14 marzo del 1794) a rendere agevole il processo di lavorazione della materia grezza ai fini industriali (Prima Rivoluzione Industriale). Sebbene quindi esso accompagni lo sviluppo dell’Umanità sin dai tempi antichi, solamente in un arco temporale relativamente recente il cotone è divenuto un prodotto di largo consumo.

I principali Paesi produttori di cotone

Le principali aree della coltivazione del cotone. Credit: AndrewMT

Secondo i dati relativi all’anno 2022, la produzione complessiva di cotone da parte dei 21 principali Paesi produttori ammontava a quasi 70 milioni di tonnellate di materiale grezzo. Importante notare il fatto che tali produttori rappresentino un insieme eterogeneo che vede la presenza di grandi potenze asiatiche (come Cina, India e Pakistan), ma anche gli Stati Uniti d’America, quasi tutte le ex-repubbliche musulmane dell’Unione Sovietica (Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan, Kazakistan e Azerbaigian), potenze latinoamericane in ascesa (Brasile, Messico, Argentina) e persino un importante gruppo di Paesi dell’Africa francofona (Burkina Faso, Benin, Mali, Costa d’Avorio, Camerun).

In generale i fattori che influenzano maggiormente la coltivazione del cotone sono di natura climatica e ambientale. La temperatura ideale per la coltivazione del cotone si aggira infatti al di sotto dei 25 °C. In un intervallo compreso tra i 25 ed i 35 °C invece si possono sviluppare delle muffe, mentre alla temperatura di 0 °C il cotone congela. Un altro elemento fortemente condizionante è la domanda idrica tanto che, nella media, per la produzione di 1 kg di cotone sono necessari tra gli 8.000 e i 10.000 litri d’acqua mentre in aree particolarmente secche il quantitativo aumenta addirittura a 22.500 litri.

L’impatto ambientale e sociale del cotone

Nonostante l’indotto dell’industria del cotone garantisca il sostentamento di oltre 1 miliardo di persone (dati 2020), molto spesso nei Paesi in via di sviluppo i lavoratori del settore ricevono compensi assai bassi per l’opera che prestano. La dipendenza del cotone dalla fornitura di grandi quantità di acqua, inoltre, rischia di incidere negativamente sulla disponibilità dell’oro blu per le necessità della popolazione.

Non solo: lo sviluppo delle coltivazioni di cotone fu alla base di uno dei peggiori disastri ecologici della storia, quando i leader sovietici decisero di dirottare enormi volumi d’acqua dai corsi dei fiumi Amu Darya e Syr Darya portando al prosciugamento del Lago d’Aral.

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Al di là del suo impatto ambientale, l’industria del cotone è stata più volte accusata di aver causato la “riduzione in schiavitù” di intere popolazioni, “obbligate” a lavorare alla raccolta del cotone in condizioni al limite dello sfruttamento. Accuse ben precise in questo senso (inclusa quella di sfruttamento del lavoro minorile) sono state mosse contro le autorità degli Stati ex-sovietici dell’Asia centrale, specialmente l’Uzbekistan e il Turkmenistan.

Da ultimo, a partire dai primi anni Duemila, alcune pratiche di concorrenza sleale intraprese dagli Stati Uniti d’America avrebbero incontrato la ferma opposizione, soprattutto in sede WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), da parte del Brasile e di un gruppo di produttori africani denominati “Cotton-4” (Benin, Burkina Faso, Ciad e Mali) i quali hanno collettivamente denunciato il “modus operandi” statunitense, a loro avviso scorretto, di sussidiare la propria industria del cotone impedendo in tal modo agli altri concorrenti di conquistarsi quote di mercato vitali per far decollare il proprio sviluppo economico.





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