il Fashion Workers Act e il caso italiano

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Prestito personale

Delibera veloce

 


«Don’t be ridiculous, Andrea. Everybody wants this. Everybody wants to be us.» Era il 2006 quando Miranda Priestly, il personaggio di Meryl Streep ne Il diavolo veste Prada pronunciava questa frase. Una battuta che, da allora, è diventata un simbolo del fascino e della complessità del mondo della moda. Un settore tanto attraente quanto selettivo, dove sacrifici e compromessi sono spesso considerati un passaggio obbligato. Condizioni lavorative impegnative, orari estenuanti, pagamenti irregolari e precariato sono tuttora problemi diffusi che spesso vengono giustificate come tappe “necessarie” per acquisire esperienza o fare carriera. Tuttavia, questo mantra sta lentamente perdendo forza, almeno nel resto del mondo. Diverse inchieste, tra cui una del The Guardian, hanno acceso i riflettori sulle dinamiche interne, sottolineando come molti lavoratori e creativi nel settore moda affrontano stipendi bassi, contratti inesistenti e condizioni di lavoro sleali. Già negli Stati Uniti qualcosa sta cambiando: a New York, il Fashion Workers Act, introdotto nel 2022 e operativo da giugno 2025, è un atto legislativo a tutela di lavoratori come modelli, fotografi, stilisti e creativi freelance contro abusi contrattuali e ritardi nei pagamenti. Questo passo avanti, sollecitato anche da una lettera aperta firmata da oltre 200 modelli di alto profilo, tra cui Christy Turlington e Helena Christensen, rappresenta un segnale importante per l’intero settore. In Inghilterra, intanto, si è scelto un approccio diverso. Il celebrity stylist Michael Miller, cofondatore del Fashion UK Union, lo racconta così: «Si tratta di rendere l’industria più regolamentata e assicurarsi che le persone siano trattate in modo equo». Tuttavia, molti professionisti hanno paura di esporsi pubblicamente. Secondo quanto riportato da Vogue Business, il timore di ritorsioni è reale: «Molti creativi temono di avere un bersaglio sulla schiena se parlano», si legge. E se negli Stati Uniti e in Inghilterra ci sono sempre più segnali di fumo di cambiamento radicale, in Italia invece sembra di essere ancora rilegati in un panorama della moda piuttosto obsoleto. 

L’Italia, patria del lusso e della creatività, non ha ancora adottato misure simili di alcun genere. Questo nonostante il peso economico del settore: secondo Il Sole 24 Ore, sebbene in calo, la moda vale circa 97,7 miliardi di euro e rappresenta il 13% del PIL nazionale. Inoltre, coinvolge oltre 580.000 lavoratori, secondo i dati di Confindustria Moda. Ma dietro le sfilate glamour, la realtà è ben diversa e non solo i singoli risentono delle difficoltà. Molte aziende, soprattutto le medie e piccole imprese, faticano a sopravvivere. La chiusura dell’hub di Bally a Firenze, lo scorso Dicembre, ne è un esempio emblematico. I lavoratori, spesso freelance, affrontano stipendi bassi, pagamenti ritardati e precarietà, giustificati da una comune idea di concepire tali ruoli come vezzi o passatempo. Milano, nonostante il suo ruolo centrale nel panorama internazionale, mantiene un approccio retrogrado sull’argomento. Ad ogni Fashion Week, emergono sempre più i limiti di un sistema che romanticizza il sacrificio come parte del successo, risultato di paradigmi obsoleti. Prova l’appena conclusa Milano Fashion Week Men’s dedicata alla stagione FW25, caratterizzata da un calendario a dir poco scarno. Secondo IndustriAll Global Union «più del 90% dei lavoratori dell’industria della moda non ha la possibilità di negoziare il proprio salario e le proprie condizioni di lavoro.»

La serie/sondaggio “Debunking the Dream” condotto da Vogue Business su oltre 600 professionisti rivela un quadro preoccupante: discriminazione sistemica, culture del burnout e stili di vita insostenibili stanno spingendo molti a lasciare il settore. Tamara Cincik, CEO di Fashion Roundtable, ribadisce: «La moda è una carriera, non un hobby, e deve essere trattata e pagata come tale per mantenere i talenti, soprattutto quelli provenienti da ambienti della classe operaia». E se il sogno della moda non riuscisse ad essere all’altezza delle aspettative? L’industria rischia un esodo di massa di talenti, un argomento piuttosto dibattuto, su cui qualche tempo fa aveva posto l’accento anche la Fashion Critic at Large del The Cut, Cathy Horyn, parlando del problema dei talenti. Insomma, nuovi scenari, vecchi problemi. Il Fashion Workers Act non è solo una legge, ma un messaggio chiaro: anche un’industria come quella della moda deve rispettare i diritti dei lavoratori. In Italia, però, la narrativa dominante continua a esaltare la tradizione e l’eccellenza, raccontando la favola della moda, ignorando le difficoltà quotidiane di chi lavora dietro le quinte. La moda non è un privilegio: è un’industria, e come tale deve essere regolamentata. Solo così sarà possibile garantire un futuro sostenibile a chi contribuisce a uno dei settori più rappresentativi del Made in Italy.

Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link