Ormai una settimana fa, fiutando agevolmente l’aria e la fregatura in arrivo, avevamo avvisato per tempo i lettori di Libero: a sinistra cercheranno di avvelenare i pozzi traducendo la parola inglese «deportation» (che vuol dire «rimpatrio, espulsione») con «deportazione», con ciò alludendo neanche troppo subliminalmente ai rastrellamenti nazisti. Il giochino era tanto scontato quanto sporco: scaraventare su Trump il fango della disumanità e della crudeltà. Perché alla sinistra non basta dissentire: deve odiare.
La cosa è più volte offensiva. Colpisce la memoria di chi, come gli ebrei, le deportazioni vere le ha subite; ferisce il vincolo di lealtà che dovrebbe legare i media al loro pubblico (un conto è essere legittimamente contrari a una scelta politica, altro conto è distorcerla consapevolmente); e infine lede anche un minimo di coerenza, perché pure con le amministrazioni americane a guida democratica c’era un’attività di “deportation” dei migranti irregolari, ma all’epoca nessuno- da questo lato dell’Atlantico- sceglieva la traduzione nazisteggiante. Incredibilmente, dopo un’intera settimana, l’inganno continua ancora. Ecco Repubblica di ieri: “I migranti deportati”. Non dissimile la Stampa: “La deportazione”. Prevedibile il sommario del Manifesto: “Le deportazioni di massa firmate da Trump…”. Ed ecco l’occhiello del primo editoriale di Avvenire: “Nuovi muri, deportazioni e foto choc”.
Ora, se dopo sette lunghi giorni di smentite ricevute, di trasmissioni tv in cui alcuni di noi hanno spiegato a chiare lettere l’imbroglio, i soliti noti insistono con la traduzione farlocca, non è perché nelle loro redazioni manchi un dizionario inglese/italiano, ma per una precisa scelta di avvelenamento dei pozzi. Da che mondo è mondo, in materia di immigrazione, sono possibili due linee politiche: una di maggiore apertura e una improntata a un maggior rigore.
Si può legittimamente essere più favorevoli alla prima oppure alla seconda: ma se si decide dolosamente di proiettare sulla seconda opzione una luce cupa, direi un’impronta criminale, vuol dire che lo si sta facendo per mostrificare sia i politici che la propugnano sia gli elettori che la sostengono. E’ esattamente ciò a cui punta la nostra sinistra nelle sue propaggini politiche, mediatiche e culturali. Davanti a questo atteggiamento, sono due le reazioni possibili da destra.
La prima è preoccupata, e sottolinea come nonostante le multiple sconfitte subìte, la sinistra disponga ancora di quello che potremmo chiamare il “controllo della narrazione”, cioè la scelta del campo di gioco – anche verbale e semantico – in cui la discussione pubblica avviene.
MANIPOLAZIONE
La seconda reazione possibile è invece più serena. Si può infatti sostenere da questa prospettiva: se l’eccesso di manipolazione è praticato da una sinistra che beneficia di un tradizionale insediamento nei media e nell’editoria, esiste però una parte prevalente della nostra società che non è prigioniera dei suoi schemi ideologici. Insomma, un conto è la bubble (la bolla politico-mediatica, nevrastenica e ipereccitata per definizione), altro conto sono le persone normali.
E in questo senso, si potrebbe anche aggiungere che una parte maggioritaria degli elettori, semmai, è in cerca di una “de-drammatizzazione”, insomma di un po’ di equilibrio e di normalità psicologica, senza essere vittime ogni giorno di una tempesta emotiva. Ne deriva che a una leader come Giorgia Meloni, dal punto di vista del consenso, basterà occupare il centro. Non – sia chiaro – il centro politico (quello è pressoché inesistente), ma il centro psicologico: vale a dire trasmettere la sensazione di essere lei la persona adulta nella stanza. Quanto più le sue opposizioni urleranno, estremizzeranno, si focalizzeranno su un’agenda bizzarra e pazzotica, tanto più alla Meloni converrà giocare la carta dell’equilibrio e del buon senso.
Ho voluto dedicare ampio spazio a queste due tesi, apparentemente lontane fra loro, perché invece – a mio modo di vedere – si tratta di due mezze mele, di due entità che si completano reciprocamente, di due argomenti che hanno assoluto bisogno l’uno dell’altro. Resta però il fatto – ecco il punto – che l’incessante opera di avvelenamento (il processo di fascistizzazione, la mostrificazione costante) non vada sottovalutata. Non deve farlo la destra, che ne è vittima. Ma farebbe bene a non farlo neanche qualche testa razionale (se ancora c’è) a sinistra, per l’effetto di rigetto, di repulsione intellettuale ed emotiva che gli attuali progressisti tendono a suscitare.
L’altro giorno Dan Hannan, un brillante conservatore britannico che non adora Donald Trump, pur apprezzandone l’energia e la capacità di trasformazione del quadro politico, si è domandato come mai noi, genericamente di destra, tendiamo a perdonare a Trump un po’ tutto, a volte anche toni e linguaggi che non ci farebbero piacere in un amico o in familiare. La risposta mi pare elementare: perché la sinistra ci ha esasperato, e la sola idea che qualcuno faccia impazzire i progressisti ci induce istintivamente a godere e ad applaudire. Il che- forse – non sarà sempre sacrosanto, ma è umanamente comprensibile. Anzi la mano chi non ha provato questo sentimento dalla vittoria trumpiana di novembre fino ad oggi.
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