Nonostante la confutazione teorico-pratica di Giulio Andreotti, uno degli assiomi su cui si basa la politica italiana è quello dell’effetto logoramento del potere. Politici e opinionisti, in sostanza, concordano sul fatto che quando ci si trova a dover prendere decisioni, inevitabilmente si finisce col dover scontentare qualcuno, il che determina un fisiologico calo di gradimento tra gli elettori e naturali elementi di conflittualità nel proprio gruppo di potere. L’onore di esercitare l’azione politica, in sostanza, si scontra con l’onere di doverne subire le conseguenze in termini di consenso. Una lettura di cui abbiamo parecchi riscontri, particolarmente evidenti quando al governo sono andate quelle forze politiche che hanno costruito le loro fortune dopo lunghi periodi all’opposizione, ovvero con piattaforme programmatiche flessibili e comunicazioni piuttosto aggressive, nonché con pochissime responsabilità dirette.
Volendo solo limitarci alla storia recente di questo Paese, infatti, possiamo apprezzare quanto complicata sia stata la traversata di governo anche per leader politici di grande spessore ed esperienza. È toccato a Berlusconi sperimentare le oscillazioni tra campagne elettorali trionfali (ad esempio nel 2001) e sondaggi di metà mandato non sempre esaltanti. Lo ha constatato anche Matteo Renzi, nel suo soggiorno a Palazzo Chigi caratterizzato da vere e proprie montagne russe in termini di consenso: dal clamoroso boom alle Europee alla sconfitta nel referendum sulla riforma della Costituzione, per poi lasciare comunque il governo nelle mani di Gentiloni con il PD oltre il 30%. E lo abbiamo visto con Giuseppe Conte, sia pure in condizioni molto diverse, con un cambio di maggioranza, la crisi legata alla pandemia e la reggenza tecnica di Mario Draghi. Quest’ultimo esempio, a dire il vero, è particolarmente interessante. Dopo il trionfo delle politiche del 2018, infatti, il Movimento 5 Stelle vede calare il proprio consenso proprio in ragione di alcune scelte specifiche (l’alleanza con la Lega di Salvini, le norme in materia di immigrazione e via discorrendo); già a metà del 2019, ben prima del Papeete e della pandemia, i sondaggi segnalano i grillini al 25%, con uno scostamento significativo rispetto all’anno precedente.
Quella dell’erosione del consenso dopo i primi anni al governo, insomma, appare una dinamica naturale, che prescinde anche dall’operato stesso o da risultati specifici, per quanto possa essere più attenuata per quei partiti con una solida base elettorale o con leader che beneficiano di improvvisi ritorni di popolarità (Renzi alle Europee, Salvini pre Papeete).
Leggi altro di questo autore
Per Giorgia Meloni, invece, serve un discorso a parte. Che non può che cominciare dall’analisi degli ultimi dati che arrivano dai sondaggi politici. Pochi mesi dopo la trionfale vittoria alle Politiche, eravamo in tanti a chiederci quanto sarebbe durata la luna di miele di Giorgia Meloni con il Paese. Le perplessità maggiori erano appunto legate alla piattaforma politico-ideologica di Fratelli d’Italia, alle tante improbabili promesse di cambiare radicalmente la situazione economico-sociale italiana e all’inesperienza della classe dirigente che avrebbe accompagnato la presidente del Consiglio nella sua reggenza a Palazzo Chigi. Inoltre, le distanze tra le diverse anime della maggioranza, nonché la posizione molto difficile in cui si trovavano gli altri leader della maggioranza, lasciavano presagire una legislatura piuttosto turbolenta. Circostanze che avrebbero dovuto avere ripercussioni in termini di consenso elettorale. Quando siamo praticamente al giro di boa della legislatura, i sondaggi politici restituiscono una fotografia molto diversa da quella immaginata da tanti.
I sondaggi politici premiano la linea di Giorgia Meloni
Dopo la leggera flessione delle Elezioni Europee, infatti, Fratelli d’Italia veleggia intorno al 30% per quasi tutti i principali istituti di rilevazione, mantenendo un ampio vantaggio sul Partito democratico di Elly Schlein (che pure cresce) e continuando a trascinare una coalizione che, considerando anche Forza Italia, Lega e le formazioni minori, complessivamente vale circa il 50%. Al momento, il governo Meloni è il settimo governo più longevo della storia repubblicana e l’orizzonte della legislatura appare obiettivo raggiungibile, magari con qualche cambiamento nella squadra dei ministri. La presidente, del resto, ha visto crescere il suo prestigio internazionale, anche grazie a una congiuntura clamorosamente favorevole (viviamo nel tempo di Musk, Trump e della riscossa neo-conservatrice e ultraliberista).
Un momento d’oro, almeno apparentemente, che non è semplicissimo da spiegare. Perché le ragioni sono molteplici, i distinguo da fare molti e le obiezioni di senso ancora di più. Potremmo ad esempio considerare gli altalenanti risultati raggiunti in campo economico, tra i positivi dati sull’occupazione e quelli fallimentari della produzione industriale. Oppure confrontare ciò che era stato promesso in campo fiscale con quello che ci è toccato dopo tre manovre di bilancio. E ancora sottolineare gli sprechi di denaro pubblico, i clamorosi fallimenti di alcuni progetti, gli inciampi della classe dirigente e la sostanziale incapacità di operare una vera discontinuità rispetto al passato. La cronaca politica di quest’ultima settimana aggiungerebbe altri elementi: l’inusitata liberazione di Almasri, i guai di Daniela Santanché, la contestazione da parte della magistratura.
Temi che, evidentemente, non sembrano colpire particolarmente gli italiani. O almeno, influenzarne le scelte.
È probabile, invece, che la stabilità del governo e la continuità dell’azione politica della maggioranza incidano molto sulla tenuta del consenso popolare verso Meloni. E forse andrebbe evidenziato un un elemento specifico, ovvero il modo in cui vengono percepiti i provvedimenti del governo e, in generale, articolato il dibattito politico. Sarebbe certamente sbagliato affermare che Meloni stia lavorando in un Paese “pacificato”, in cui il dissenso è marginale o incapace di incidere sui processi. Negli ultimi mesi in particolare abbiamo assistito a diverse mobilitazioni, anche piuttosto ampie e partecipate, contro provvedimenti o scelte strategiche del governo (sicurezza e immigrazione, in particolare). L’opposizione, che pure litiga su alleanze e costruzione dell’alternativa politica, in Parlamento sta operando con buona compattezza e sui temi ha una sorprendente unità d’azione (pensiamo a lavoro e sanità).
La sensazione è che Meloni sia padrona della narrazione, in grado di imporre la propria agenda, riuscendo a far passare sempre i frame più utili alla sua causa. La presidente appare la perfetta interprete dello spirito del tempo, in cui autenticità, schiettezza e buonsenso sono caratteristiche più potenti di competenza, sincerità e responsabilità; il suo approccio vittimista e la sua capacità di usare il binomio elite-popolo pure essendo letteralmente una delle persone più potenti d’Europa, sono delle formidabili armi comunicative, che sfrutta anche grazie al controllo diretto o indiretto della quasi totalità dei mezzi di informazione.
E, in più, ha operato una scelta strategica che si sta rivelando particolarmente efficace. Ha messo da parte ogni pretesa rivoluzione, cancellato con un colpo di spugna i suoi bellicosi programmi da campagna elettorale, per scegliere la prudenza e la continuità in campo fiscale ed economico (se si eccettuano la cancellazione del reddito di cittadinanza e la revisione quasi obbligata del superbonus), ma soprattutto in politica estera. Si è accorta che la politica del passo dopo passo, dei brodini caldi, dei piccoli contentini, non le avrebbe potuto nuocere e non sarebbe stata un argomento nelle mani dell’opposizione (che, avendo condiviso l’esperienza del governo Draghi, diciamo che ha poca credibilità per esporsi in tal senso…). Non ha dato fastidio praticamente a nessuno, nei salotti che contano (l’imbarazzante teatrino sulla tassa sugli extraprofitti è da manuale). Si è ritagliata questo ruolo di “aggiustatutto“, convincendo gli italiani di essere l’interprete di una rivoluzione. E si è messa a surfare sulle onde alzate da Trump, Musk e dalla nuova destra mondiale, senza lasciarsi bagnare più di tanto. Nel tempo della post verità, tutto tremendamente efficace.
A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell’area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link