Il criminologo Cesare Lombroso collezionava gli oggetti utilizzati per delinquere, oggi il Museo di Antropologia Criminale ne conserva un migliaio
«Sono corpo del reato», secondo il nostro Codice di Procedura Penale, «le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo». Il celebre criminologo Cesare Lombroso nella seconda metà dell’Ottocento incomincia a collezionare degli oggetti che erano stati utilizzati per delinquere, una raccolta continuata anche dai suoi successori. Oggi il Museo di Antropologia Criminale di Torino ne conserva circa un migliaio.
Ci sono strumenti di qualunque tipo, da quelli utilizzati per commettere omicidi, alle truffe, ai duelli d’amore, alle effrazioni. La collezione non permette solo di ricostruire una parte della storia della criminalità ma fornisce anche un prezioso spaccato sulla società italiana dell’Ottocento.
Nella formulazione della sua discussa teoria sull’uomo criminale, secondo cui alcuni individui nascerebbero predisposti alla delinquenza a causa di anomalie di natura atavica, Lombroso adottò una metodologia che ha suscitato severe critiche non solo dalla scienza moderna ma anche da alcuni suoi contemporanei. Questi spesso contestarono l’uso strumentale dei dati e delle prove di laboratorio. Nel suo lavoro, Lombroso si avvalse di fonti molto eterogenee, che spaziavano dal trattato scientifico ai proverbi, ai motti, ai modi di dire, fino ad arrivare, appunto, ai corpi del reato. Per Lombroso quegli oggetti non erano solo strumenti ma anche segni della personalità criminale.
Per il teorico del «delinquente nato» l’uomo criminale si esprime attraverso quegli arnesi. Oggetti considerati da Lombroso come prove di «primitivismo» o di «anomalie culturali». Si tratta nella maggior parte dei casi di poveri utensili, come coltelli di uso comune o rozzi manufatti di ferro, che richiamano l’immagine delle classi subalterne in un paese ancora profondamente rurale. Tra i molti oggetti comuni alcuni suscitano però maggiore interesse per la loro tipologia o perché collegabili a celebri casi giudiziari del passato.
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Ricostruire la «storia» di molti oggetti è stata la sfida dei curatori del museo, un lavoro realizzatosi anche consultando gli archivi dei quotidiani dell’epoca. All’epoca le persone riempivano le aule dei tribunali per assistere ai processi con un’attenzione morbosa e ai casi di cronaca nera veniva dato ampio spazio sui giornali. Scopriamo, quindi, alcuni degli oggetti più interessanti della collezione.
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Tra questi troviamo la raccolta di ferri del mestiere di «un grassatore», un brigante di strada, condannato per effrazione nel 1920. Il kit comprende: una mascherina alla Fantomas, una lampada portatile, un coltello a serramanico e una corda. Tra i molti oggetti, oltre agli strumenti più classici come il tirapugni e lo stiletto artigianale usato per colpire a morte, troviamo anche una «ruota della fortuna truccata», utilizzata per le truffe di strada.
A proposito di truffe il museo conserva una serie di corpi del reato legati a un celebre caso giudiziario del 1890. Giovanni Filippa era un sedicente medico torinese che sosteneva di indurre il sonno ipnotico ad alcune «sonnambule», capeggiate dalla sorella Leopolda, le quali sarebbero state così in grado di diagnosticare malattie e indicarne i rimedi. Tra gli oggetti conservati c’è la targa pubblicitaria del suo Gabinetto magnetico di Torino, un finto diploma conferitogli a Marsiglia, e infine alcuni «miracolosi» rimedi prescritti, come le «Mouches de Milan», polvere di un coleottero utilizzata per curare la disfunzione erettile.
Non mancano le curiosità degne di Ian Fleming, il padre di James Bond, come il falso crocefisso con una lama nascosta e utilizzato per colpire a tradimento. O il bastone animato, solo in apparenza strumento da passeggio, che custodisce un’arma al suo interno. Interessanti sono anche i cosiddetti «coltelli d’amore», sono strumenti da taglio che, seguendo un’antica tradizione popolare, venivano regalati come pegno d’amore. I coltelli erano impreziositi da decorazioni come l’incisione sulla lama: innamorati che si tengono per mano, dediche, cuori incatenati. Intarsi d’avorio sul manico evocavano, invece, lo sguardo vigile dell’amato geloso.
Degna di nota è anche la sfarziglia che nel 1863 lo scrittore Francesco Mastriani definisce come «l’angelo custode de’ camorristi», accessorio tipico del «picciotto» napoletano, «lama di acciaio a piegatoio tagliente da ambo i lati». È un coltello che considerando le dimensioni, il peso della lama e la sua punta acuminata necessitava di una certa professionalità per essere maneggiato. Caratteristiche che hanno contribuito a determinarne il mito, uno strumento in grado di suscitare paura e rispetto. Come spesso avviene in questi casi il confine tra finzione e realtà divengono sfumati e così di duelli a colpi di sfarziglia tra camorristi se ne parla sia sui primi quotidiani stampati a Napoli sia in due commedie di metà Ottocento.Â
Da sempre il male e suoi strumenti suscitano in noi timori e paure eppure, chissà perché, ne subiamo il fascino.
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