É in corso al WeGil di Roma, fino al 6 giugno 2025, una mostra estremamente interessante, che mette a confronto due emblematiche figure del Contemporaneo, due autentici geni dell’Arte e della Comunicazione: Andy Warhol e Banksy. L’esposizione, a cura di Sabina de Gregori e Giuseppe Stagnitta, prodotta da MetaMorfosi Eventi e Emergence Festival, con il patrocinio della Regione Lazio, indaga i meccanismi mediatici e culturali innescati dai due artisti a quarant’anni di distanza.
L’iniziativa, che stimola ragionamenti a tutto tondo sulle interazioni tra Arte, Mercato e Società, suscita sfidanti riflessioni e conduce a intriganti considerazioni anche sullo specifico versante del Brand. Salta agli occhi, in primo luogo, l’approccio quasi antitetico adottato dai protagonisti della mostra in termini di Comunicazione.
Warhol, come noto, profetizzava: “Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti”, frase che i curatori hanno significativamente inserito all’ingresso della mostra. Quattro decenni più tardi, con il consueto e spiazzante acume, Banksy ha provocatoriamente affermato: “Ognuno nella vita avrà quindici minuti di anonimato”.
Anche quanto al rapporto con il Brand i due artisti hanno assunto posizioni sostanzialmente agli antipodi. Banksy da sempre conduce una battaglia senza quartiere contro il potere della Marca e si oppone all’invasività delle Aziende nella vita delle Persone.
L’artista, testimoniando la propria adesione al movimento del Brandalismo, scrive: “Ogni messaggio pubblicitario che è collocato in uno spazio pubblico e che non puoi scegliere di non guardare, è tuo. Ti appartiene. Lo puoi prendere, rimaneggiare e riutilizzare. Chiedere il permesso è come chiedere di conservare una pietra che qualcuno ti ha appena tirato in testa” (Wall and Piece, 2011, 196).
Da queste parole emerge una plastica rappresentazione del pensiero di Banksy riguardo al Brand: le Aziende esercitano un potere arrogante e dilagante sui Cittadini; il Brand è la pietra con la quale le Imprese colpiscono la testa delle Persone comuni.
Conseguentemente si ritengono pienamente giustificate le forme di reazione a questo genere di cose, in primis mediante il Graffitismo: “Chi davvero sfregia i nostri quartieri sono le aziende che scribacchiano slogan in formato gigante sulle facciate degli edifici e sulle fiancate degli autobus, cercando di farci sentire inadeguati se non compriamo la loro roba. Pretendono di urlarci in faccia il loro messaggio da qualsiasi superficie utile, ma a noi non è mai permesso replicare. Se le cose stanno così, sono stati loro a scagliare la prima pietra e il muro è l’arma prescelta per combattere” (ibidem, 8).
Warhol, di contro, cavalca con grande abilità le logiche del Brand, utilizzandolo come strumento e veicolo per la propria arte, anche in virtù delle esperienze lavorative maturate proprio nel mondo della pubblicità. L’artista, utilizzando tecniche esplicitamente derivanti dai meccanismi di promozione del Brand nel mondo del marketing, bombarda lo spettatore con immagini forti, ammiccanti e evocative, caratterizzate da colori ammalianti e sgargianti.
Warhol porta all’estremo la contaminazione tra Arte, Comunicazione, Marchio e Pubblicità trasformandosi egli stesso in un personal brand. Il giovane Pietro Bonifacio scrive intelligentemente: “il personal brand è uno degli aspetti più interessanti di una figura che […] non lasciava nulla al caso, tanto meno il proprio look. Capelli color argento, viso cereo fortemente in contrasto con abiti neri come la pece e un bassotto sempre in braccio: Andy Warhol si presentava così. Oggi lo definiremmo un “personaggio”, una di quelle persone che viste una volta le si ricorda per sempre, e non ci sbaglieremmo affatto. L’obiettivo dell’artista, infatti, era quello di creare un “personaggio” che chiunque avrebbe facilmente riconosciuto e che, di conseguenza, gli avrebbe permesso di promuovere la sua arte” (www.ferpi.it, 5 giugno 2023).
Eppure, malgrado queste opinioni così distanti, questi percorsi così diversi, quasi l’uno agli antipodi dell’altro, dal pensiero e dall’opera di Banksy e di Warhol è possibile trarre insegnamenti in tema di Brand di particolare importanza e attualità. La considerazione dalla quale muovere è che l’Impresa, nell’odierna Società della Complessità, non può più limitarsi alla mera creazione del Profitto, ma è chiamata ad operare anche in terreni tradizionalmente estranei al suo perimetro d’azione: l’Ambiente, il Sociale, il Territorio, la Cultura.
Afferma condivisibilmente Giampaolo Colletti: “Non basta fare impresa al meglio. Oggi le organizzazioni di eccellenza decidono di fare comunità, ossia di investire in quelle progettualità che valorizzano persone, territori, storia, cultura. Così l’azienda esce dalla torre d’avorio abitata fino a poco tempo fa e si confronta con un ecosistema di valori anche esterno all’organizzazione. Di più. Diventa visionaria e con una strategia allargata, plurale” (Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2024, 16).
Il Brand, in un simile e innovativo contesto, in Economia ha un ruolo più cruciale che mai e nell’Impresa è chiamato ad una funzione di straordinaria delicatezza: tradurre in un segno, in una parola, in un suono, addirittura a volte in un odore, l’essenza di una intera Azienda. Non è più soltanto questione, per il Brand, di indurre all’acquisto di un prodotto o di valorizzare l’immagine di una ditta: la sua funzione oggi è anche e soprattutto quella di fungere da catalizzatore del complesso di valori, di competenze, di obiettivi, di ideali che caratterizzano l’Impresa.
Questo non può non condurre ad un profondo ripensamento del rapporto tra Arte, Impresa e Brand, che evolve e diventa diverso, più stretto, osmotico e profondo. L’Arte, infatti, ha in sé un insieme di caratteristiche, particolarità e dinamiche che possono essere decisive per innescare virtuose reazioni e interazioni con il Brand e con l’Impresa.
Ha correttamente scritto Stefano Lucchini, Presidente dell’Advisory Board di ICCH: “L’arte ha la capacità di tradurre i concetti in un’immagine” (The Corporate Communication Magazine, 13/2024, 6). Non si tratta meramente di inserire artisti ed esperti d’arte nei meccanismi dell’azienda; la sfida è più alta, più difficile, più ambiziosa: si tratta di innestare nel corpo e nello spirito dell’impresa dinamiche mentali differenti e innovative, tipiche della visione artistica.
Già nel 2019 il Manifesto Art Thinking evidenziava come “come nell’attuale contesto dei rapidi e dirompenti cambiamenti la formazione economica, scientifica e tecnologica – la dimensione analitica, convenzionalmente attribuita alla parte sinistra del cervello – non sia più sufficiente per fornire ai leader le capacità di prendere decisioni e di scegliere le strategie più efficaci per ottenere i migliori risultati nella complessità imposta dalle trasformazioni in atto. È dunque necessario sviluppare un approccio “whole-brain”, che integra e completa l’insieme delle competenze analitiche con le capacità tipicamente associate all’emisfero destro, quali creatività e approccio sperimentale, empatia e auto-consapevolezza, intuito, interpretazione emotiva ed abilità di sintetizzare differenti modi di pensare e punti di vista”.
Naturalmente parliamo di un processo estremamente sfidante, che comporta il superamento di ostacoli e difficoltà, sia dal punto di vista culturale, sia sul versante organizzativo.
Fabrizio Panozzo, Direttore del centro di ricerca Aiku dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha significativamente detto in una intervista a Margherita Ceci: “Bisogna rompere dei tabù operativi. Spesso l’azienda chiede: “A cosa mi serve?“, perché davanti alla novità non codificata si tende a volere numeri e risultati. Ma la presenza dell’artista nel contesto aziendale è una fonte di stimoli da decodificare man mano che si generano. Insegniamo ai manager che devono essere dei problem solver mentre l’arte è un problem maker. Ma il buon management è quello che si fa domande, non quello che dà solo risposte. Il linguaggio aziendale è pieno di errori e di prove e lo spirito imprenditoriale è uno spirito di scommesse e salti nel buio – quel prodotto lanciato, quella collaborazione fatta – che hanno più a che fare con l’istinto che con la razionalità” (Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2024, 9).
In un quadro così definito, le figure di Banksy e Warhol rappresentano due imprescindibili punti di riferimento, preziose fonti di ispirazione e insegnamento. I due artisti, seguendo percorsi e adottando modalità profondamente diverse, suggeriscono – a volte esplicitamente, a volte implicitamente – i principi fondamentali di un nuovo rapporto tra Impresa, Arte e Brand.
Tra l’altro, partendo da posizioni antitetiche, Banksy come severo censore dei Brand e Warhol quale loro smaliziato cantore, i nostri protagonisti hanno fatto delle proprie vite una sorta di laboratorio per una inesplorata commistione tra Arte e Brand, diventando essi stessi due marchi di fama mondiale. Le traiettorie artistiche e personali di Banksy e Warhol, brillantemente rappresentate nella mostra al WeGil di Roma, indicano che le strategie di Comunicazione possono anche essere radicalmente differenti, ma il messaggio dell’Arte raggiunge sempre l’anima delle persone.
L’Impresa e il Brand, per essere in sintonia con lo Spirito del Tempo, occorre che nel Contemporaneo imparino a progettare, a respirare, ad operare assorbendo le visioni, le intuizioni e le vibrazioni tipiche dell’Arte.
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