A Napoli una ripresa di routine del Don Carlo firmato Guth

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VERDI Don Carlo J. Relyea, P. Pretti, R. Willis-Sørensen, G. Viviani, V. Abrahamyan, A. Tsymbalyuk, G. Manoshvili; Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo, direttore Henrik Nánási regia Claus Guth ripresa da Marcelo Persch-Buscaino scene Etienne Pluss costumi Petra Reinhardt luci Olaf Freese riprese da Virginio Levrio video Roland Horvath drammaturgia Yvonne Gebauer

Napoli, Teatro di San Carlo, 19 gennaio 2025

Il Teatro di San Carlo ha riproposto, dopo appena due anni, la messinscena del capolavoro verdiano, nella versione modenese in cinque atti e senza balletti, firmata dal regista Claus Guth e ripresa da Marcelo Persch-Buscaino. La produzione fu allora molto apprezzata per il cast vocale, che schierava assi del calibro di Michele Pertusi, Ludovic Tézier e soprattutto Elīna Garanča, una principessa Eboli strepitosa (leggi qui la recensione delle recite del 2022). Sotto questo aspetto, è inutile fare paragoni: qui i cantanti sono tutti più o meno entrati onorevolmente nella parte, con una media complessiva soddisfacente, abbassata però da una direzione orchestrale che ha suscitato qualche mugugno; e tuttavia lo spettacolo è filato via senza troppi intoppi.

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Don Carlo è considerato da molti, tra cui chi scrive, in cima alla lista dei capolavori di Verdi: rappresenta forse il primo frutto completamente maturo dell’arte verdiana, in cui il compositore arricchisce la sua drammaturgia e affina il linguaggio musicale, riuscendo a descrivere con maggiore intensità le passioni dei personaggi.

In questa produzione, tuttavia, il dramma storico-politico-culturale passava in secondo piano: Guth ha scelto un approccio più intimista e psicanalitico, con un richiamo evidente ai complessi edipici di Don Carlo, sia verso la madre che verso il padre.

Il fil rouge drammaturgico, non indovinatissimo, era rappresentato dal nano Fabián Augusto Gòmez, onnipresente sul palco, una specie di diavoletto dispettoso che assumeva vari ruoli: giullare di corte che scimmiottava i protagonisti, Cupido con le frecce, sposa in velo bianco, frate tra i frati. Questo spiritello malefico, che voleva forse essere la proiezione dell’inconscio di Don Carlo, in una lettura registica tra Freud e Jung (e chi se no?), a tratti era gradevole, ma più spesso petulante.

Le pareti spoglie dello scenografo Etienne Pluss evocavano la cupezza della Spagna sotto il giogo dell’Inquisizione. Gli spazi vuoti diventavano di volta in volta boschi, sala reale, coro ligneo o camera da letto, in un’atmosfera claustrofobica culminata nella potente scena dell’autodafé, con l’ausilio di luci basse e filmati in bianco e nero di Carlo e Rodrigo bambini.

Dal punto di vista musicale, John Relyea era un Filippo II scenicamente maestoso, con una voce roboante e con un colore tenebroso comme il faut, ma lasciava poco spazio a delle mezzetinte, a qualche messa di voce meno altisonante, che indicasse quel tormento interiore che connota il personaggio.

Piero Pretti trovava subito il giusto tono per il suo Don Carlo e, anche se la voce non era di grande volume, il fraseggio era elegante, l’emissione corretta, l’interpretazione centrata. Forse solo nel duetto con Rachel Willis-Sørensen si sentiva in entrambi una certa artificiosità negli scambi.

La Willis-Sørensen, nel ruolo di Elisabetta, ha dimostrato una buona tecnica vocale, con qualche incertezza nelle note acute: la sua lettura appariva contenuta, schiva, quasi a riflettere il riserbo emotivo del personaggio.

Gabriele Viviani ha offerto di Rodrigo un ritratto estremamente convincente, caratterizzato da un timbro profondo e da un fraseggio di grande classe. Varduhi Abrahamyan nel ruolo della principessa Eboli, non sfoggiava una tecnica impeccabile nelle agilità, con una sonorità che tendeva a sporcarsi soprattutto nei passaggi più intensi, come avveniva nella Canzone del velo, dove si è persa quella profondità emotiva che dovrebbe caratterizzarne l’interpretazione.

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Come si diceva, la direzione orchestrale è risultata abbastanza deludente: Henrik Nánási ha trattato la partitura verdiana con scarsa profondità, senza dedicare molta cura ai dettagli. L’equilibrio sonoro tra orchestra e palco era discontinuo, con gli ottoni che spesso sommergevano tutto il resto dell’orchestra, soprattutto ignorando le necessità vocali e svilendo la complessità drammatica della partitura; ottimo il coro diretto da Fabrizio Cassi.

Lorenzo Fiorito





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