A farmi entrare, affascinato dalla potenza e dal rigore della ricerca personale espressa dalla sua produzione, era stata la sorprendente sequenza unitaria di dieci film di un’ora ciascuno – forse il suo capolavoro – dedicata appunto al Decalogo biblico, uno per ogni comandamento. Ad essere attratta da questa architettura mirabile di immagini era stata anche una scrittrice importante mia amica, Gina Lagorio (1922-2005). Con lei decidemmo di dar vita a una «ricreazione narrativa» di questi dieci “commenti” visivi e attualizzati ai comandamenti: lei li avrebbe trasformati in racconti e io, in parallelo, ne avrei identificato il sottinteso palinsesto biblico. Nacque, così, a distanza di due anni dall’uscita dei film, nel 1991 presso l’Ed. Piemme (allora a Casale Monferrato), Il Decalogo di Kieślowski.
Anzi, continuando con libertà in questa rievocazione autobiografica, ho ancora viva nella memoria l’emozione provata con un’altra grande figura del secolo scorso, padre David Maria Turoldo. Una sala cinematografica del centro di Milano aveva deciso di proporre in successione la proiezione dei dieci film in altrettanti giorni durante la pausa pranzo, lasciando alla fine la conduzione della relativa discussione a diverse personalità. A Turoldo e a me insieme toccò il terribile Decalogo 5, il “Non uccidere” con l’impressionante rituale dell’esecuzione capitale di un povero sbandato, colpevole di un omicidio.
Da allora cercai di seguire alcune altre opere del regista, spesso attraverso remote apparizioni televisive notturne, rimanendo sempre colpito e non uscendone mai interiormente indenne. In particolare, vorrei citare la triade di quei gioielli assoluti che sono i Tre colori: Blu del 1993 sul tema della libertà con un’intensa ripresa musicale del celebre inno all’agàpe, “amore-carità”, del capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinzi di san Paolo; Bianco del 1994 sull’uguaglianza negata tra le persone; e infine, Rosso, sempre del 1994, anno della sua morte, sulla fratellanza violata. Come è evidente, si sventolava idealmente la bandiera francese con la relativa trilogia della “liberté, égalité, fraternité”.
Questa lunga divagazione soggettiva è sbocciata in realtà da uno splendido saggio sul regista polacco elaborato da un religioso, Giovanni Battista Magoni, che dirige un’editrice milanese, Àncora, alla quale ha impresso un vigore inedito conducendola a un dialogo, da parte di diversi autori, con una gamma variegata di figure fondamentali della cultura del Novecento, come Buzzati, Calvino, Pirandello, Pasolini, Tolkien, De André, Antonia Pozzi, Fellini e Bertolucci. Tutto quanto è necessario per scavare nella profondità della filmografia di Kieślowski è da lui ora offerto attraverso una straordinaria “esegesi”, partendo da quel polittico supremo che è il Decalogo, penetrando nella “trinità” laica dei colori francesi, fino all’epifania del mistero umano rappresentato dai destini paralleli nel film La doppia vita di Veronica (1991).
Il percorso proposto diventa a una ricerca condotta lungo la stupenda sequenza delle immagini, che riflettono non di rado un mondo livido, angosciato e degenere, eppure intarsiato di squarci luminosi. Sono, appunto, le Tracce dell’Assente del titolo del saggio, ove decisiva è la maiuscola. È un po’ come aprire feritoie o fenditure attraverso le quali si svela, si rivela e si ri-vela il Trascendente che è una paradossale Assenza presente o Presenza assente, un po’ come il Cristo risorto. Per questo si può parlare – come recita il sottotitolo – di una «metafisica del quotidiano» con venature teologiche, confermando quindi la citata testimonianza di Zanussi su Kieślowski, entrambi membri di un’eccezionale stagione cinematografica polacca che annoverava anche Wajda, Polanski, Skolimowski.
Il saggio di Magoni è quasi la guida descrittiva e teorica per scoprire il sotterraneo itinerario che Kie?lowski delinea nelle strutture dell’esistenza umana e della storia, dalla relazione interpersonale alla ragione, dalla fede al destino, dalla libertà all’etica, dalla desolazione all’attesa. Il lettore scoprirà in quei film i mille risvolti che pervadono la nostra inquietudine e le nostre domande di senso, che compongono i nostri naufragi ma anche le nostre risurrezioni, fermo restando che «il Mistero della vita resta un’eccedenza che supera le nostre capacità interpretative».
Sono andato a ricercare una nota del critico Gianni Buttafava (1939-1990) che mi aveva a suo tempo colpito e che Magoni idealmente sviluppa riguardo all’intera planimetria filmica kieślowskiana: «Il regista si muove su una corda tesa, anzi sull’orlo di due precipizi mantenendosi in un equilibrio ammirevole. Non v’è la parola o l’intervento di Dio – giustamente non nominato invano – ma non è certo assente la Grazia o, se si vuole, manzonianamente, la Provvidenza, anche se si manifesta come Caso». O forse come Amore segreto, se stiamo al film più “teologico”, il Decalogo 1: «“Che cosa è Dio?”, domanda il bambino. La zia Irena lo stringe tra le braccia e gli chiede: “Che cosa provi?”. “Ti voglio bene”, risponde il bambino. “Ecco, Dio è questo”».
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