Il Veneto è l’epicentro del dissenso. Un’agitazione incarnata per la prima volta negli anni ’80 e riemersa con forza in questi mesi, come dimostra la raccolta firme organizzata dalla Liga Veneta a sostegno di un terzo mandato per Luca Zaia. Una sfida a Giorgia Meloni, che pretende per sé la guida della regione; un monito al lumbard Matteo Salvini, che deve accontentare i desiderata venetisti. “Senza il Veneto, la Liga è morta”, è l’ultimatum gridato nei gazebo e nei circoli del nord-est. La Liga, una sorta di partito nel partito, mai salviniana e da sempre autonomista, ha rialzato la testa: “È tornato l’entusiasmo dei bei tempi”, raccontano dal territorio dove ora parlano senza freni, attaccando la linea romana persino sulla decisione di uscire dall’Oms, l’organizzazione mondiale della sanità, appoggiata da Salvini: “Che c’azzecca con noi? L’operazione è percepita malissimo qui”, risponde la Liga ad HuffPost da Venezia, dove esiste l’unico centro dell’Oms in Italia.
I nodi politici sono due: c’è l’obiettivo di sempre, l’autonomia differenziata, e c’è quello sorto negli ultimi mesi, la volontà di allungare di un quinquennio il regno del doge Zaia. A cambiare, però, è la spinta. Lì, in Veneto, è nata la Lega, o meglio la Łiga Vèneta, con la “elle barrata”, come deciso dallo storico segretario, Franco Rocchetta, di ritorno dalla Polonia nel 1979. Nel nord-est la Lega sta respingendo il diktat meloniano (“In Veneto tocca a noi”, è il mantra di ministri e parlamentari di FdI), facendo quadrato attorno al proprio simbolo: Luca Zaia. I dirigenti locali hanno un piano: se arrivasse un’ennesima e definitiva battuta di arresto per una sua ricandidatura, la Lega esigerà comunque un suo nome. Solo così, spiegano dal Veneto, “possiamo ritirare la lista Zaia, che da sola vale il 30%, e non separarci dal centrodestra”. Altrimenti, ognun per sé. “O Veneto o morte”, è la minaccia per nulla velata.
In ogni caso, bisognerà aspettare il giudizio della Corte costituzionale, che in primavera deciderà sulla legge elettorale campana voluta da Vincenzo De Luca per un terzo mandato e impugnata del governo. Intanto, nel weekend i “lighisti” hanno messo su duecentoventi banchetti per raccogliere le firme sullo Zaia Ter: “Siamo già in 12 mila, saremo in piazza anche nei primi due weekend di febbraio”. Si sprecano i richiami alla “squadra che vince non si cambia”. Lo stesso Zaia, che giura di non aver promosso l’iniziativa, ha parlato di “chiamata di popolo”. Nel testo della petizione regionale c’è, però, lo spiraglio: provare ancora a ottenere dal Parlamento il terzo mandato e “qualora non fosse possibile, che il Veneto rimanga nella mani di un presidente della Lega. Solo così potremo perseguire con forza e determinazione il grande percorso dell’autonomia, vitale per il futuro dei veneti”.
I nomi più quotati per il post-Zaia sono l’assessore Roberto Marcato, il sindaco di Treviso Mario Conte o il segretario regionale di provata fede salviniana Alberto Stefani. È stato lui ad organizzare i banchetti, segno che “anche a Roma hanno capito che rischiavano il linciaggio”. A parlare è un importante politico veneto, che chiede di “non mettere il mio nome, tanto il messaggio è chiaro: hanno trattato male il Veneto e ora non arretriamo più di un centimetro”. Già perché, e questo è il punto, in regione la Lega è affare diverso rispetto agli altri centri di potere, quelli del Carroccio lombardo e quello romano. Chi frequenta i circoli della Liga parla di “un entusiasmo ritrovato, che si respira nelle sedi di partito ma anche nei ristoranti, alle cene organizzate”. Lo conferma anche Marzio Favero, consigliere regionale soprannominato “il filosofo”: “Nelle sezioni sono tutti in trincea, torniamo alla battaglia per il federalismo”. Anche al compleanno del partito regionalista, costituito il 16 gennaio 1980, erano in tanti. Sono passati segretari, scissionisti, autonomisti impenitenti ma la “venetudine” è ancora viva. Il leone di San Marco viene tatuato ancora sulle braccia dei ragazzi, lo spirito della Serenissima si respira come prima. Esagerazioni? Forse, ma dal nord-est ci smentiscono: “Siamo come i sardi, il Veneto è la patria e l’autonomia è il tema identitario”.
Sulle ali della spinta federalista, in effetti, è nata la Liga. Un movimento, poi partito e infine sezione regionale confluita nella Lega – Salvini premier. Ha ancora un suo statuto, dei suoi coordinatori. Nonostante la trazione verso destra, cavalcata negli anni salviniani, dalle parti della Liga fanno attenzione a definirsi tali: “Cosa c’entra il sovranismo, o meglio il nazionalismo, con un partito come il nostro, che è federalista e antifascista?”, si domanda Favero chiedendo al segretario di “farsi fermare da amici sinceri”. Con il congresso nazionale che resta, nonostante le promesse di Salvini, ancora un miraggio, ora la “corrente veneta” vuole ribadire obiettivi e punti di forza.
La squadra, d’altronde, c’è: la disposizione capillare della Liga conta 159 sindaci, 1200 amministratori, 300 sezioni e 11mila tesserati in tutta la regione. Eppure, nella storia della Lega, prima Nord e poi quella nazionale, non c’è mai stato un segretario veneto (Umberto Bossi, Bobo Maroni e Salvini sono tutti lombardi). Una sofferenza che nel tempo si è acuita. Nel governo Meloni i quattro ministri leghisti (Giancarlo Giorgetti, Roberto Calderoli, Alessandra Locatelli e Salvini) sono tutti lombardi, mentre ai veneti sono toccati due sottosegretari (Massimo Bitonci e Andrea Ostellari). Così, dopo aver perso le redini della sezione lombarda, dove ha trionfato il nordista Massimiliano Romeo, ora Salvini ha capito che in Veneto il bubbone potrebbe espoldere.
L’irrequietezza del nord-est è palese. La linea della Lega, quella sostenuta a Roma, viene contestata senza imbarazzi. È successo, da ultimo, con l’Oms, l’ente sovranazionale che il Carroccio vorrebbe abbandonare seguendo l’esempio di Donald Trump. “Stipendificio inutile”, ha gridato il senatore (milanese) Claudio Borghi annunciando il disegno di legge, depositato al Senato per revocare la membership del nostro Paese. Peccato che quello che a Roma chiamano “carrozzone” ha il suo unico stabilimento italiano in Veneto, a Venezia. Tanto che qualche settimana fa Manuela Lanzarin, assessora alla sanità di Zaia, ha fatto visita alla sede italiana: “Credo che l’Oms possa contribuire a sviluppare una visione generale che vada oltre il singolo problema”, era la dichiarazione che ritroviamo sui canali veneti. Per questo, “a parte qualche complottista, tutti noi abbiamo percepito l’uscita come un’assurdità”, spiegano dalla Liga veneta, sostenendo di non esser stati nemmeno avvisati.
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