le donne recluse senza diritti

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Diritti mestruali e sistemi di salute e prevenzione che mancano. Sovraffollamento e percorsi di lavoro non professionalizzanti. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone: «Le donne detenute hanno bisogno di vedersi indirizzate politiche specifiche e azioni positive affinché si rimuovano gli ostacoli che distanziano la detenzione delle donne da quella degli uomini»

L’associazione Antigone ha stilato il “Primo rapporto sulle donne detenute in Italia”, seguito da dieci proposte per i diritti delle donne in prigione. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, racconta a Domani: «Le donne detenute hanno bisogno di vedersi indirizzare politiche specifiche e azioni positive affinché si rimuovano gli ostacoli che distanziano la detenzione delle donne da quella degli uomini».

Se gli uomini hanno un accesso «al mondo lavorativo più universale, nelle carceri femminili noi troviamo attività che hanno una stereotipizzazione di genere che vogliamo superare». Nello specifico, «le nostre proposte prevedono la possibilità di attività diurne congiunte tra uomini e donne, ciò cambierebbe la vita delle donne in carcere.

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In Italia abbiamo tre carceri femminili che ospitano meno di un quarto delle donne detenute in Italia, tutte le altre sono sparpagliate in sezioni femminili allocate all’interno di istituti a prevalenza maschile». Serve superare quella preclusione che rende il carcere «un po’ medioevale, in cui uomini e donne non si possono incontrare». C’è, poi, il grande tema legato alla salute: «Nelle politiche sanitarie ci mettiamo anche tutte quelle azioni rivolte alle donne che provenivano, prima della carcerazione, da situazioni di violenza e abusi».

A volte, queste ultime entrano in carcere e per la prima volta incontrano uno psicologo «e lì si rendono conto che la situazione in cui vivevano era d’abuso». C’è bisogno di una presa in carico psicologica, sanitaria e anche giudiziaria: «La donna deve poter denunciare ma deve essere accompagnata dall’istituzione e accompagnata in un ponte “dentro-fuori” che possa portare alla presa in carico anche a fine carcerazione».

Antigone ha verificato che c’è «un’assenza di comunicazione tra servizi sociali del ministero della Giustizia e servizi sociali territoriali e anche tra le autorità sanitarie che operano in carcere e nel territorio. Per cui queste donne che hanno avuto una prima presa in carico interna poi vengono abbandonate a loro stesse creando un danno maggiore».

La cooperativa Pid di Roma, con il progetto “Assorbire il cambiamento”, lavora da due anni con lo scopo di portare un beneficio concreto alle persone recluse grazie alla donazione di materiali sanitari, per portare all’attenzione della società, delle istituzioni e della cittadinanza la condizione delle donne recluse.

Alessia Massaroni, referente della comunicazione della cooperativa, racconta a Domani: «All’interno dei laboratori che facciamo, che a breve svolgeremo anche in carcere, abbiamo avuto rapporti con le donne ex detenute. Sulla questione degli assorbenti tutte le persone con cui abbiamo parlato ci hanno riferito che quelli forniti dal carcere sono pochi e di bassa qualità. Dovrebbero arrivare uno o due pacchi per ogni detenuta, ma non sempre arrivano». Massaroni continua: «Pensiamo di vivere il nostro ciclo con un pacco al mese, con tre rotoli di carta igienica e senza bidet».

Il comitato torinese “Mamme in piazza per la libertà di dissenso” ha rapporti epistolari anche con le donne rinchiuse al femminile della casa circondariale Vallette. Nicoletta Salvi racconta a Domani: «Il sovraffollamento è il primo problema. Hanno inoltre meno risorse per attività all’interno del carcere, rispetto al maschile. Non c’è un programma per le donne tossicodipendenti. I percorsi di studi strutturati sono solo per il maschile, per la sezione femminile c’è solo la scuola primaria ed è più difficile accedere ai percorsi universitari».

Così anche per i percorsi di lavoro: «Le donne sono pagate per fare le pulizie del carcere ma non sono percorsi professionalizzanti per quando arriverà il fine pena». La presa in carico sanitaria, inoltre, è molto complicata: «Vogliamo lavorare per chiedere percorsi sanitari per le donne anche rispetto alla prevenzione, che al momento non esistono».

Le donne in disagio psichico, inoltre, «stanno enormemente aumentando. Questo a fronte dei pochi operatori che se ne possono occupare». A queste donne «vengono somministrati sedativi, ma non ci sono interventi specialistici. Molte donne straniere non hanno i mediatori e non sono capite, questo aumenta il disagio. Due anni fa varie donne si sono suicidate proprio per un disagio che mai era stato affrontato».

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